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MICHELE KOHLHAAS di Heinrich von Kleist.

(Da una vecchia cronaca)

Lungo le rive della Havel viveva, verso la metà del sedicesimo secolo,

un mercante di cavalli, chiamato Michele Kohlhaas, figlio di un

maestro di scuola: uno degli uomini più onesti e insieme più

spaventosi del suo tempo. Quest'uomo fuori dell'ordinario sarebbe

potuto passare fino al suo trentesimo anno come il modello del buon

cittadino. Aveva una fattoria, in un villaggio che porta ancora oggi

il suo nome, e ci viveva pacificamente, con i frutti del suo lavoro; i

bambini che sua moglie gli aveva dato li tirava su nel timore di Dio,

laboriosi e leali; non c'era uno dei suoi vicini che non avesse

provato i benefici della sua generosità, o della sua giustizia; il

mondo, in breve, avrebbe dovuto benedirne la memoria, se non avesse

ecceduto in una virtù. Il senso di giustizia, infatti, fece di lui un

brigante e un assassino.

Un giorno egli era diretto oltre il confine, con un branco di cavalli

giovani, tutti lucidi e ben pasciuti, e rifletteva per l'appunto su

come avrebbe impiegato il guadagno che sperava di ricavarne nei

mercati (un po', da buon massaro, lo avrebbe investito, perché

fruttasse a sua volta, ma un po', anche, se lo sarebbe goduto

all'istante), quando arrivò all'Elba, e qui si imbatté, nei pressi di

un maestoso castello, in territorio sassone, in una barriera che prima

di allora non aveva mai trovato su quella strada. Fermò i cavalli,

mentre proprio in quel momento si scatenava un acquazzone, e chiamò il

cantoniere, che non tardò, con viso burbero, ad affacciarsi alla

finestra. Il mercante di cavalli gli disse di aprire.

"Che novità è questa?", chiese, quando il gabelliere, dopo un bel po'

di tempo, uscì dalla casa.

"Privilegio signorile", rispose questi, armeggiando con la serratura

per aprire, "concesso al barone Venceslao di Tronka".

"Ah", fece Kohlhaas, "il barone si chiama Venceslao?", e rimirò il

castello, che dominava i campi con i suoi merli scintillanti. "E'

morto il vecchio signore?".

"Morto, gli ha preso un colpo", rispose il gabelliere, e alzò l'albero

che faceva da sbarra.

"Hm, peccato!", aggiunse Kohlhaas. "Un degno signore, il vecchio, che

aveva piacere a intrattenersi con la gente, e tutte le volte che

poteva dava una mano ai traffici e ai commerci; una volta fece

costruire un argine di pietre perché, là dietro, dove la strada sbocca

nel villaggio, una delle mie cavalle si era spezzata una gamba.

Dunque, quanto devo?", domandò; e cominciò a tirare fuori con fatica,

da sotto il mantello sbattuto dal vento, i soldi che il gabelliere gli

aveva chiesto.

"Sì, vecchio mio", aggiunse ancora, dal momento che quello brontolava

"Svelto! Svelto!", e imprecava contro il maltempo: "Se l'albero se ne

fosse rimasto nel bosco, sarebbe stato meglio, per me e per voi". E,

così dicendo, gli diede il denaro e fece per proseguire. Ma non era

nemmeno arrivato sotto la stanga, che già un'altra voce gli urlava

dietro "Alto là, sensale!", dalla torre di guardia; e lui vide il

castaldo sbattere una finestra e precipitarsi verso di lui.

"Be', che novità è questa?", si domandò Kohlhaas fra sé, fermandosi

con i suoi cavalli. Il castaldo arrivò, allacciandosi ancora il

panciotto sulla figura corpulenta, e, piantato di traverso contro le

raffiche di vento, chiese il lasciapassare. "Lasciapassare?", chiese

Kohlhaas. E disse, un po' confuso, che, per quanto ne sapesse, non

l'aveva: ma se solo avessero voluto descrivergli, bontà divina, che

specie di roba era, quel lasciapassare, magari poteva anche darsi che

per caso lo avesse.

Il castaldo, guardandolo storto, replicò che, senza un permesso

scritto del sovrano, a nessun sensale era permesso di superare il

confine con i suoi cavalli. Il sensale assicurò che per diciassette

volte, nel corso della sua vita, aveva passato il confine senza un

permesso simile; e che lui conosceva perfettamente tutte le

disposizioni sovrane che riguardavano la sua attività; non poteva

trattarsi, dunque, che di un errore; pregava, perciò, che volessero

ripensarci, e non trattenerlo ancora laggiù senza ragione, visto che

la sua giornata di viaggio era assai lunga. Ma il castaldo ribatté che

la diciottesima non l'avrebbe fatta franca, che proprio per questo era

stata recentemente emanata quella nuova ordinanza, e che, se non si

fosse procurato lì per lì il lasciapassare, avrebbe dovuto

ritornarsene di dove era venuto. Il mercante, che cominciava a

irritarsi per quelle estorsioni illegali, scese, dopo una breve

riflessione, da cavallo, lo affidò a un servo, e disse che ne avrebbe

parlato di persona con il barone di Tronka. E salì infatti al

castello; il castaldo gli andò dietro, borbottando di affaristi

spilorci e di giusti salassi; e, misurandosi a vicenda con lo sguardo,

i due entrarono insieme nella sala.

Il barone stava bevendo in mezzo a un'allegra brigata di amici, e una

facezia aveva appena fatto esplodere fra loro un'interminabile risata,

quando Kohlhaas gli si avvicinò per fargli le sue rimostranze. Il

barone gli chiese che cosa volesse; i cavalieri, quando videro lo

sconosciuto, ammutolirono; ma non appena questi ebbe iniziato a

esporre le sue richieste, riguardo ai cavalli, tutta la brigata saltò

su, gridando "Cavalli? Dove sono?", e corse alle finestre per

guardarli. Quando videro quella splendida mandria, scesero di corsa,

su proposta del barone, nel cortile; la pioggia era cessata; il

castaldo, il fattore, i servi si radunarono intorno a loro, e tutti

passarono in rassegna gli animali. Uno lodava il sauro fulvo con la

macchia bianca, a un altro piaceva il baio, il terzo accarezzava il

pomellato a macchie gialle e nere; e tutti dicevano che quei cavalli

sembravano dei cervi, e in tutto il paese non se ne allevavano di più

belli. Kohlhaas ribatté allegramente che i cavalli non erano migliori

dei cavalieri che li avrebbero montati; e li invitò a comperare. Il

barone, molto attirato dal poderoso stallone sauro, gli chiese il

prezzo; il fattore gli consigliò di acquistare un paio di morelli che

pensava di poter utilizzare nei lavori agricoli, perché cavalli ce

n'erano pochi; ma, quando il sensale tirò fuori i prezzi, i cavalieri

li trovarono troppo cari, e il barone disse che, se pretendeva tanto

per quelle bestie, doveva cavalcare fino alla Tavola Rotonda, e andare

alla ricerca di Re Artù.

Kohlhaas, vedendo il castaldo e il fattore bisbigliare tra loro, e

lanciare ai morelli delle occhiate eloquenti, fece, per un oscuro

presentimento, di tutto, perché si tenessero quei due animali. Disse

al barone: "Signore, i morelli li ho acquistati sei mesi fa, per

venticinque fiorini d'oro; datemene trenta, e li avrete". Due

cavalieri che stavano vicino al barone dissero apertamente che i

cavalli li valevano sicuramente; ma il barone dichiarò che era

disposto a spendere per il sauro, casomai, non per i morelli, e fece

per andarsene. Allora Kohlhaas disse che forse avrebbe concluso un

affare con lui la prossima volta, quando fosse ripassato con i suoi

cavallucci, fece al barone i suoi rispetti, e afferrò le briglie della

sua cavalcatura, per ripartire. Ma in quel momento il castaldo uscì

dal crocchio, dicendo che senza un lasciapassare, l'aveva sentito, non

avrebbe potuto andarsene.

Kohlhaas si girò, e chiese al barone se fosse proprio vera quella

faccenda, che rovinava tutta la sua attività. Il barone rispose, con

aria imbarazzata, allontanandosi: "Sì, Kohlhaas, devi procurarti il

lasciapassare. Parlane con il castaldo, e va' per la tua via".

Kohlhaas gli assicurò che non aveva nessuna intenzione di eludere le

ordinanze sull'esportazione dei cavalli, qualsiasi fossero, promise

che, passando da Dresda, sarebbe andato a prendere il lasciapassare

alla Cancelleria, e lo pregò di lasciarlo passare solo per quella

volta, visto che non aveva saputo proprio niente di una richiesta di

quel genere.

"E va bene!", disse il barone, mentre il temporale, proprio in quel

momento, riprendeva, e il vento sibilando gli passava da parte a parte

le membra rinsecchite. "Lasciate andare questo poveraccio. Venite!",

disse rivolto ai cavalieri, si girò e si accinse a rientrare al

castello. Il castaldo, rivolto al barone, disse che il mercante doveva

almeno lasciare un pegno, per essere certi che andasse a ritirare il

documento. Il barone si fermò di nuovo, sotto il portone del castello.

Kohlhaas chiese quale valore, in denaro o in oggetti, dovesse

lasciare, come pegno per i morelli. Il fattore, masticando le parole

nella barba, disse che poteva lasciare per l'appunto i morelli.

"Sicuro", disse il castaldo; "è la cosa più conveniente; quando ha

ritirato il lasciapassare, può venire a riprenderseli in qualsiasi

momento".

Kohlhaas, sconcertato da una richiesta così sfacciata, disse al

barone, che si stringeva addosso intirizzito il giustacuore, che i

morelli li voleva vendere. Ma questi, mentre in quell'attimo una

raffica lanciava attraverso il portone uno scroscio di pioggia mista a

grandine, gridò, per mettere fine alla cosa: "Se non vuol mollare i

cavalli, ributtatelo al di là dello sbarramento", e se ne andò. Il

sensale, rendendosi conto che doveva pur cedere alla violenza, decise

di accogliere la richiesta, visto che non gli rimaneva altro da fare;

sciolse i morelli, e li portò in una stalla indicatagli dal castaldo.

Lasciò con le bestie un servo, gli diede del denaro, gli raccomandò di

tenere ben d'occhio i cavalli fino al suo ritorno, e proseguì, con il

resto della mandria, il suo viaggio verso Lipsia, dove voleva andare

alla fiera; rimuginando, incerto, fra sé e sé, se forse, alla fine, in

Sassonia non potesse essere stato emanato un tale ordine, per

proteggere qualche nuovo allevamento di cavalli.

A Dresda, dove possedeva, nei sobborghi, una casa con alcune stalle,

perché quella era la base dei suoi commerci sui mercati minori della

regione, andò subito, appena arrivato, alla Cancelleria; e qui venne a

sapere dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva, che, come aveva

sospettato, in realtà, fin dal primo momento, la storia del

lasciapassare era inventata di sana pianta. Kohlhaas, dopo che i

consiglieri, controvoglia, gli ebbero rilasciato, su sua richiesta,

una dichiarazione scritta che ne attestava l'infondatezza, sorrise

allo scherzo dell'allampanato barone, anche se non capiva ancora bene

a che cosa avesse potuto mirare; e, venduto con soddisfazione, poche

settimane dopo, il branco di cavalli che aveva con sé, senza portarsi

ormai dietro più amarezza se non quella sulla generale miseria del

mondo, fece ritorno al castello di Tronka.

Il castaldo, al quale mostrò la dichiarazione, non aggiunse parola

sull'argomento; e quando il sensale gli chiese se ora poteva riavere i

cavalli, rispose che scendesse, e andasse a prenderseli. Ma già

attraversando il cortile Kohlhaas ebbe la spiacevole sorpresa di

venire a sapere che il suo servo, solo pochi giorni dopo essere stato

lasciato nel castello, per il suo contegno sconveniente, a quanto

dicevano, era stato bastonato e cacciato via. Al ragazzo che gli aveva

dato la notizia Kohlhaas chiese che cosa avesse fatto, e chi si fosse

occupato, nel frattempo, dei cavalli; al che il ragazzo rispose di non

saperlo, mentre apriva davanti a lui, che aveva già il cuore pieno di

presentimenti, la stalla in cui si trovavano. Quale fu però il suo

stupore, quando, al posto dei suoi due morelli lucidi e ben pasciuti,

vide un paio di allampanati e smagriti ronzini; ossa che sarebbero

potute servire per appenderci i panni, pelo e criniere intrecciate,

che nessuno aveva pulito e rigovernato: il vero ritratto dello

squallore nel regno animale!

Kohlhaas, al quale le bestie nitrirono, con un debole movimento, era

al culmine dell'indignazione, e chiese che cosa fosse successo ai suoi

poveri cavalli. Il ragazzo, che stava al suo fianco, rispose che no,

alle bestie non era successa nessuna disgrazia, e avevano sempre

ricevuto la loro razione di biada, ma dato che era appunto il tempo

del raccolto, e mancavano animali da tiro, erano stati adoperati un

po' nei campi. Kohlhaas inveì contro quell'infame sopruso, di certo

progettato con cura, ma, sentendosi impotente, ingoiò la sua rabbia, e

stava già preparandosi visto che non gli rimaneva altro, ad andarsene

con i suoi cavalli da quel covo di briganti, quando comparve il

castaldo, richiamato dal battibecco, e chiese che cosa stava

accadendo. "Che cosa succede?", rispose Kohlhaas. "Chi ha dato al

barone di Tronka e alla sua gente il permesso di servirsi per il

lavoro dei campi dei miei morelli, che avevo lasciato presso di lui? -

Era umano", aggiunse, "comportarsi così?". E provò a scuotere gli

animali esausti con un colpo di frusta, facendogli vedere che non si

muovevano nemmeno. Il castaldo, dopo averlo squadrato per un po', con

aria di sfida, replicò: "Vedi un po' il tanghero! Come se non dovesse

ringraziare Iddio, il villano, che i suoi ronzini sono ancora vivi. E

chi avrebbe dovuto prendersene cura", chiese, "dopo che il suo servo

se n'era scappato? Non era stato forse giusto che i cavalli si

guadagnassero sui campi il foraggio che avevano ricevuto?". E chiuse

il discorso dicendo che la smettesse di fare storie, o avrebbe

chiamato i cani, e con essi avrebbe saputo come riportare la calma nel

cortile.

Al mercante batteva il cuore contro la giacca. Faceva fatica a non

buttare quell'ignobile grassone in mezzo al letame e a non calpestare

col piede la sua faccia di bronzo. Ma il suo senso di giustizia, che

era come la bilancia dell'orafo, oscillava ancora; davanti al

tribunale del suo cuore, non era ancora sicuro che il suo avversario

fosse colpevole; e, mentre ingoiando gli insulti si avvicinava ai

cavalli e, soppesando in silenzio le circostanze, ravviava alle bestie

la criniera, chiese a voce bassa per quale mancanza il suo servo fosse

stato allontanato dal castello. "Perché quella lenza si è messo a fare

il gradasso, qui nel cortile!", rispose il castaldo. "Perché si è

rifiutato di accettare un cambio di stalla di cui non si poteva fare a

meno, e pretendeva che i cavalli di due gentiluomini arrivati al

castello di Tronka passassero la notte sulla strada maestra, per amore

dei suoi ronzini!".

Kohlhaas avrebbe dato il valore dei cavalli per avere a portata di

mano il suo servo, e poter confrontare il suo racconto con quello che

usciva dalla boccaccia del castellano. Era sempre là in piedi,

districando i crini arruffati dei morelli, e riflettendo sul da farsi,

nella situazione in cui si trovava, quando la scena cambiò di colpo, e

il barone Venceslao di Tronka, con una frotta di cavalieri, di servi e

di cani, tornando dalla caccia alla lepre entrò nel piazzale del

castello. Il castaldo, quando gli venne chiesto che cosa fosse

successo, prese subito la parola, e, mentre i cani, vedendo il

forestiero, scatenavano contro di lui dei latrati d'inferno, e i

cavalieri a loro volta gridavano per farli star zitti, riferì al suo

padrone, mettendo il fatto nella luce peggiore, che specie di rivolta

avesse messo su quel cavallaro, perché si erano fatti lavorare un po'

i suoi morelli. E disse, fra risate di scherno, che rifiutava di

riconoscere i cavalli come suoi.

"NON SONO i miei cavalli, signore illustrissimo!", gridò Kohlhaas.

"Non sono i CAVALLI che valevano trenta fiorini d'oro! Voglio riavere

i miei cavalli sani e ben nutriti!".

Il barone per un attimo impallidì, e disse, scendendo di sella: "Se

mastro Bertoldo non vuole riprendersi i cavalli che li lasci pure qui.

Vieni qua, Guntiero!", gridò. "Gianni! Venite qua!", e intanto si

spazzolava con la mano la polvere dai pantaloni. "Portate del vino!",

gridò ancora, quando fu sulla soglia con i cavalieri; ed entrò in

casa. Kohlhaas disse che avrebbe preferito chiamare lo scortichino, e

portare i suoi cavalli al macello, piuttosto che riportarseli nella

sua stalla a Pontekohlhaas così come erano. Lasciò le bestie sul

piazzale, senza occuparsene più, saltò sul suo baio, assicurando che

avrebbe saputo farsi giustizia, e se ne andò.

Correva già, a spron battuto, sulla strada di Dresda; ma, ripensando

al suo servo, e alle accuse che avevano mosso contro di lui al

castello, si mise al passo; e, prima di averne fatti mille, girò il

cavallo, e, per interrogare innanzi tutto il suo servo, cosa che gli

sembrava prudente e giusta, girò verso Pontekohlhaas. Perché un

sentimento di giustizia, al quale era ben conosciuto l'ordine

imperfetto delle cose umane, lo rendeva propenso, malgrado le offese

subite, se soltanto il suo servo avesse commesso una colpa qualsiasi,

come diceva il castaldo, a rassegnarsi, come se fosse stata una

giusta conseguenza, alla perdita dei cavalli. Ma se, di contro, gli

diceva un sentimento non meno imperioso, un sentimento che metteva in

lui radici sempre più profonde, man mano che egli continuava nella sua

cavalcata, e, dovunque entrasse, sentiva parlare delle ingiustizie

quotidianamente commesse al castello di Tronka, a danno dei

viaggiatori: se l'intera storia, come tutte le apparenze facevano

credere, non era altro che una macchinazione, allora egli aveva, di

fronte al mondo, il dovere di procurarsi, con tutte le sue forze,

soddisfazione per l'offesa subita, e ai suoi concittadini sicurezza

contro offese future.

Non appena, arrivato a Pontekohlhaas, ebbe abbracciato Lisabetta, la

sua fedele moglie, e baciato i suoi figli, che gli facevano festa

intorno alle ginocchia, chiese subito di Ersiano, il capo della

servitù: se ne era saputo qualcosa?

"Già, Michele carissimo, proprio Ersiano!", disse Lisabetta. "Pensa un

po', quel poveraccio, saranno quindici giorni, arriva qui tutto pesto

da far pietà; no, ti dico, così conciato da non riuscire neppure a

respirare. Lo mettiamo a letto, dove non fa che sputare sangue, e a

forza di domande veniamo a sapere una storia che nessuno capisce. Che

è stato lasciato indietro da te a Castel Tronka, con dei cavalli che

non hanno lasciato passare; che l'hanno costretto, con i

maltrattamenti più vergognosi, a lasciare il castello; e che non ha

potuto portarsi via i cavalli".

"Ah sì?", disse Kohlhaas, togliendosi il mantello. "E si è già

rimesso?".

"Metà e metà; ma sputa ancora sangue", rispose lei. "Volevo mandare

subito un servo a Castel Tronka, perché si prendesse cura dei cavalli,

fino al tuo ritorno. Perché Ersiano si è sempre dimostrato così

sincero con noi, e così fedele, sì, più di tutti gli altri servi, che

non mi è nemmeno venuto in mente di dubitare del suo racconto,

confermato da tanti particolari; e di credere, per esempio, che avesse

perso i cavalli in un altro modo. Ma lui mi scongiurò di non

pretendere da nessuno di metter piede in quel covo di briganti, e di

rinunciare alle bestie, se non volevo, per loro, sacrificare degli

uomini".

"E' ancora a letto?", domandò Kohlhaas, liberandosi della sciarpa.

"E' già da qualche giorno che ha ricominciato a uscire nel cortile.

Insomma, vedrai", continuò Lisabetta, "che è proprio tutto come lui ha

detto, e che questa faccenda è una delle angherie che, da un po' di

tempo, quelli di Castel Tronka si permettono contro i forestieri".

"Prima di tutto vedrò coi miei occhi", replicò Kohlhaas. "Fallo venire

un po' qua, Lisabetta, se è in piedi!". E con queste parole si

sedette, mentre la donna, molto contenta che la prendesse così calma,

andò a chiamare il servo.

"Che cosa hai combinato a Castel Tronka?", gli domandò Kohlhaas,

quando Lisabetta rientrò con lui nella stanza. "Non sono troppo

contento di te".

Il servo, il cui viso pallido si coprì di macchie rosse, a queste

parole, restò per un po' in silenzio, e poi rispose:

"Avete ragione, padrone! Perché la miccia che, per volontà di Dio,

avevo con me, per dare fuoco a quel covo di briganti da cui ero stato

scacciato, la buttai, quando sentii piangere un bambino nel castello,

nelle acque dell'Elba, e pensai: possa ridurlo in cenere la folgore

divina! Io non lo farò".

Impressionato, Kohlhaas disse: "E in che modo ti sei fatto cacciare da

Castel Tronka?". E Ersiano:

"Con un tiro mancino, padrone!". E si asciugò il sudore dalla fronte.

"Ma cosa fatta capo ha. Non volevo che rovinassero i cavalli nel

lavoro dei campi; ho detto che erano giovani, che non erano ancora mai

stati aggiogati".

Kohlhaas, cercando di nascondere il suo turbamento, rispose che qui

non aveva detto tutta la verità, perché all'inizio della primavera

scorsa i cavalli, qualche volta, erano stati messi al tiro. "Al

castello", continuò, "dove, in fondo, eri una specie di ospite,

avresti dovuto farti vedere compiacente, almeno qualche volta, quando

c'era proprio bisogno, per portare alla svelta il raccolto al

coperto".

"E' quello che ho fatto, padrone", disse Ersiano. "Ho pensato, visto

che mi guardavano male, che i morelli non sarebbero morti per questo.

La mattina del terzo giorno li attaccai, e portai dentro tre carichi

di grano".

Kohlhaas, al quale il cuore stava per scoppiare, chinò gli occhi a

terra, e commentò: "Di questo non mi hanno detto niente, Ersiano!".

Ersiano lo assicurò che era andata così. "La mia poca compiacenza è

stata questa: che non volli più riaggiogarli a mezzogiorno, quando i

cavalli non avevano neppure finito la biada. E quando il castaldo e il

fattore mi proposero, in cambio, il foraggio, e mi dissero di mettere

in tasca il denaro che voi mi avevate lasciato per il mantenimento

delle bestie, io risposi 'vi faccio vedere io,' gli girai le spalle, e

me ne andai".

"Ma non è stato per questa poca compiacenza", disse Kohlhaas, "che ti

hanno scacciato da Castel Tronka".

"Dio ne guardi!", gridò il servo. "Per un'azione che grida vendetta a

Dio. Perché quella sera portarono nella stalla i cavalli di due

cavalieri, arrivati a Castel Tronka, e i miei vennero legati fuori,

alla porta della stalla. E quando levai i morelli di mano al castaldo,

che ce li legava personalmente, e gli chiesi dove dovevano stare,

adesso, le mie bestie, lui mi indicò un porcile, fatto di assi e di

tavole, accostato al muro di cinta.

"Vuoi dire", lo interruppe Kohlhaas, "che era un così brutto riparo,

per dei cavalli, che assomigliava più a un porcile che a una stalla".

"Era un porcile, padrone", rispose Ersiano "Un porcile vero e proprio,

dove i maiali correvano avanti e indietro, e io non potevo stare in

piedi".

"Forse non c'era nessun altro posto, dove mettere al riparo i

morelli", replicò Kohlhaas. "In un certo senso i cavalli degli ospiti

avevano la precedenza".

"Lo spazio", continuò il servo, abbassando la voce, "era poco. In

tutto allora c'erano sette cavalieri che alloggiavano al castello. Se

foste stato voi, avreste fatto stringere un po' i cavalli. Dissi che

mi sarei cercato una stalla da affittare nel villaggio; ma il castaldo

mi rispose che i morelli non doveva perderli d'occhio, e non mi

azzardassi a portarli via dal cortile".

"Hm", fece Kohlhaas; "e tu che hai risposto?".

"Dato che il fattore disse che i due ospiti avrebbero passato soltanto

la notte, e il mattino dopo avrebbero proseguito, rinchiusi i cavalli

nel porcile. Ma il giorno seguente passò, e non partirono; e quando

venne il terzo giorno, dissero che i signori si sarebbero trattenuti

al castello per qualche settimana".

"Alla fin fine non si stava poi così male nel porcile, come ti era

sembrato quando ci avevi messo il naso la prima volta", disse

Kohlhaas.

"E' vero", rispose il servo. "Quando l'ebbi spazzato un po', il posto

poteva andare. Ho dato due soldi alla sguattera, perché andasse a

mettere i maiali da qualche altra parte. E il giorno dopo mi

preoccupai anche che le bestie potessero stare in piedi; alla prima

luce dell'alba, tolsi le tavole del soffitto, e ce le rimisi la sera.

Così allungavano il collo, come le oche, sopra il tetto, e si

guardavano intorno, cercando Pontekohlhaas, o qualche altro posto,

dove stare meglio di là".

"Ma insomma", domandò Kohlhaas, "per quale motivo ti hanno cacciato

via?".

"Padrone, ve lo dico io", rispose il servo. "Perché volevano liberarsi

di me. Perché, finché c'ero io, non potevano sfiancare del tutto i

cavalli. Da tutte le parti mi guardavano in cagnesco, in cortile, nei

locali della servitù. E dato che io pensavo, mi storcete la bocca? vi

si sloghino le mascelle!, hanno preso il primo pretesto che gli è

venuto a tiro, e mi hanno buttato fuori".

"Ma il motivo!", gridò Kohlhaas. "Avranno pur avuto qualche motivo!".

"Oh, sicuro", rispose Ersiano, "un motivo giustissimo. La sera del

secondo giorno che avevo passato nel porcile, presi i cavalli, che si

erano tutti insudiciati, e volevo portarli allo stagno. E quando sono

giù, sotto il portone principale, e sto per girare, sento il castaldo

e il fattore, con servi, cani e randelli, precipitarsi dietro di me

dalle stanze della servitù, gridando: 'Ferma, furfante! Ferma,

pendaglio da forca!', come se fossero invasati. Il guardaportone mi

sbarra la strada; io chiedo a lui, e a quel mucchio di forsennati che

mi corrono dietro, che cosa succede. 'che cosa succede?' risponde il

castaldo, e prende per le briglie i miei due morelli. 'Dove vuole

andarsene, questo, coi cavalli?'. E mi agguanta per la camicia. 'Dove

voglio andarmene, dico io? Fulmini del cielo! Allo stagno me ne voglio

andare. Ma pensate che io...?'. 'Allo stagno?', grida il castaldo. 'Ti

insegno io a fare il bagno sulla strada maestra, imbroglione, dalla

parte di Pontekohlhaas!' E con un colpo vigliacco a tradimento lui e

il fattore, che mi aveva preso per una gamba, mi tirano giù da

cavallo, e finisco nel fango lungo disteso. Morte e dannazione!,

grido: ma se i finimenti e le coperte sono nella stalla, e c'è anche

il mio fagotto della biancheria! Ma lui e i servi, mentre il fattore

si porta via i cavalli, mi danno tutti addosso, coi calci, e le fruste

e i randelli, finché cado, mezzo morto, al di là del portone. E visto

che io grido: Briganti! Dove mi portate i cavalli?, e mi tiro su,

'Fuori di qui!', urla il castaldo; 'Dai, Cesare! Dai, Bracco!', si

sente gridare, e: 'Dai, Lupo!'; e mi piomba addosso una muta di una

dozzina di cani, e più. Allora io prendo, non so che cosa, un palo

doveva essere, dalla staccionata, e tre cani li stendo giù vicino a

me, morti stecchiti; ma il dolore per i morsi e i tagli, che fanno

spavento a vedersi, mi costringe a indietreggiare; e allora, fiuu!,

sibila un fischio, i cani rientrano, il portone chiude i battenti,

mettono il catenaccio: e io cado svenuto sulla strada".

Kohlhaas, pallido in viso, fece ancora, con malizia un po' forzata:

"Ma proprio non te la volevi filare, Ersiano?". E poiché lui,

paonazzo, fissava per terra, davanti a sé: "Via, confessa", continuò,

"non ti piaceva stare nel porcile, pensavi che nella stalla di

Pontekohlhaas si sta meglio".

"Tuoni e fulmini!", gridò Ersiano. "Non ho forse lasciato laggiù, nel

porcile, le coperte e i finimenti, e un fagotto di biancheria? E non

mi sarei messo in tasca i tre fiorini imperiali che avevo nascosto

dietro la mangiatoia, nel fazzoletto di seta rossa? Per tutti i

diavoli dell'inferno! Quando parlate così, mi viene voglia di

riaccendere subito quella miccia che ho buttato via!".

"Su, su!", disse il mercante. "Non intendevo offenderti. Quello che

hai detto, guarda, lo credo parola per parola. E se qualcuno lo mette

in dubbio, sono pronto a prenderci su l'ostia consacrata. Mi dispiace

che, per servirmi, non ti sia andata meglio. Vai, Ersiano, vattene a

letto, fatti dare un fiasco di vino, e consolati: ti sarà fatta

giustizia!".

E, così dicendo, si alzò, fece un elenco delle cose che il suo

sottoposto aveva lasciato nel porcile, ne specificò il valore, gli

chiese, anche, quanto valutasse le spese per la cura, e lo congedò,

dopo avergli dato, ancora una volta, la mano.

Poi raccontò a Lisabetta, sua moglie, per filo e per segno, come erano

andate le cose, e cosa c'era sotto, e le dichiarò di essere fermamente

intenzionato a ricorrere alla pubblica giustizia; ed ebbe la gioia di

vedere che lei lo incoraggiava con tutta l'anima nel suo proposito.

Lei disse, infatti, che molti altri viaggiatori, forse meno pazienti

di lui, sarebbero passati per quel castello, che sarebbe stata

un'opera benedetta mettere un freno a tali disordini, e che ci avrebbe

pensato lei a mettere insieme la somma necessaria per affrontare le

spese del processo. Kohlhaas la chiamò la sua brava moglie, passò

felicemente con lei e con i suoi figli quel giorno e quello seguente,

e, non appena gli affari gliene diedero modo, si mise in viaggio per

Dresda, per portare in giudizio la sua querela.

Qui, con l'aiuto di un avvocato che conosceva, stese un ricorso, nel

quale, dopo una descrizione dettagliata del sopruso compiuto dal

barone Venceslao di Tronka, contro lui stesso, e contro il suo servo

Ersiano, chiedeva che il colpevole fosse punito secondo la legge, che

i cavalli fossero riportati nelle condizioni originarie, e che fossero

risarciti i danni che sia egli, sia il suo servo, avevano subìto da

tutto ciò. La causa, infatti, era chiara. La circostanza che i cavalli

fossero stati trattenuti in modo illegittimo gettava su tutto il resto

una luce decisiva; e, anche se si fosse voluto supporre che i cavalli

si fossero ammalati per puro caso, la richiesta del sensale di

riaverli indietro in buona salute sarebbe stata comunque giustificata.

E, mentre Kohlhaas si guardava intorno nella città di residenza del

principe, non gli mancarono amici che gli promisero di sostenere a

spada tratta le sue ragioni; il suo commercio di cavalli, molto

esteso, la conoscenza e l'onestà con cui lo portava avanti, gli aveva

procurato la benevolenza degli uomini più importanti del paese. Più

volte egli sedette allegramente a tavola, in casa del suo avvocato,

che era a sua volta una persona in vista; depositò presso di lui una

somma per far fronte alle spese processuali, e, passate poche

settimane, completamente tranquillizzato da quello riguardo all'esito

della causa, se ne tornò a Pontekohlhaas da Lisabetta, sua moglie.

Eppure i mesi passarono, e l'anno era quasi finito, senza che egli

ricevesse dalla Sassonia neanche una dichiarazione sulla querela da

lui intentata, per non parlare della sentenza. Dopo aver inoltrato più

volte ripetuti solleciti al tribunale, egli scrisse al suo avvocato

una lettera confidenziale, in cui gli chiedeva la causa di un ritardo

così eccessivo; e venne a sapere che, per un intervento molto

altolocato, presso il tribunale di Dresda, la sua querela era stata

definitivamente cassata. Quando il mercante riscrisse, sbalordito,

chiedendone le ragioni, questi gli comunicò che il barone Venceslao di

Tronka era parente di due nobiluomini, Enzo e Corrado di Tronka, che

facevano parte del seguito personale del principe, coppiere l'uno, e

l'altro addirittura camerlengo. E gli consigliava di mettere da parte

ogni sforzo, dal punto di vista legale, e cercare solo di tornare in

possesso dei suoi cavalli, rimasti nel castello di Tronka; gli faceva

capire, infatti, che il barone, che al momento soggiornava nella

capitale, sembrava aver dato disposizione alla sua gente di

consegnargli i cavalli; e concludeva pregandolo, se non voleva

accontentarsi di una simile soluzione, di dispensare almeno lui da

ogni ulteriore incarico.

Kohlhaas, in quel periodo, si trovava per l'appunto a Brandeburgo,

dove il prefetto Enrico di Geusau, della cui giurisdizione faceva

parte anche Pontekohlhaas, era in quel momento impegnato a organizzare

un certo numero di istituti per l'assistenza ai poveri e agli

ammalati, grazie a un lascito sostanzioso che era toccato alla città.

E soprattutto si dava da fare per adattare ad uso degli infermi una

fonte minerale che scaturiva in un villaggio della regione, e dalle

cui virtù salutari ci si riprometteva molto di più di quanto il futuro

poi mantenesse. Poiché Kohlhaas l'aveva conosciuto e frequentato,

durante il periodo in cui aveva soggiornato presso la corte, questi

permise a Ersiano, il capo dei servi, al quale, da quei brutti giorni

al castello di Tronka, era rimasto un dolore al petto, ogni volta che

respirava, di sperimentare l'efficacia della piccola fonte

medicamentosa, nella quale era stato costruito un recinto coperto.

Accadde che, proprio mentre Kohlhaas riceveva, dalle mani di un

messaggero, mandato da sua moglie, la lettera scoraggiante del suo

avvocato di Dresda, il prefetto fosse presente, per dare alcune

disposizioni, vicino a bordo della vasca nella quale il mercante aveva

fatto adagiare Ersiano. Il prefetto, che, parlando con il medico,

aveva notato che Kohlhaas faceva cadere una lacrima sulla lettera che

aveva ricevuto e aperto, gli si avvicinò, con fare gentile e

premuroso, e gli chiese quale sventura lo avesse colpito. E quando il

mercante, senza rispondere, gli tese la lettera, quell'uomo per bene,

che era al corrente della ributtante ingiustizia commessa contro di

lui al castello di Tronka, per le cui conseguenze Ersiano appunto

soffriva, e avrebbe sofferto forse per tutta la vita, gli batté sulla

spalla, e gli disse di non perdersi d'animo: l'avrebbe aiutato lui a

ottenere soddisfazione!

Quella sera, quando il mercante, dietro suo ordine, andò da lui al

castello, questi gli disse di stendere soltanto una supplica

all'Elettore del Brandeburgo, con una breve esposizione dell'accaduto,

di allegarvi la lettera dell'avvocato, e di invocare la protezione del

principe, a causa della violenza che si erano permessi contro di lui

in territorio sassone. Egli promise di rimettere la petizione, che

avrebbe aggiunto a un altro plico, già pronto, nelle mani

dell'Elettore: il quale da parte sua, senza fallo, se le circostanze

lo consentivano, sarebbe intervenuto presso il principe Elettore di

Sassonia. Un passo simile sarebbe stato più che sufficiente a fargli

ottenere giustizia presso il tribunale di Dresda, a dispetto delle

arti del barone e delle sue conoscenze. Kohlhaas, vivamente

rallegrato, ringraziò di tutto cuore il prefetto per quella nuova

dimostrazione della sua benevolenza; aggiunse che gli dispiaceva solo

di non essersi rivolto fin dall'inizio a Berlino, per trattare la sua

faccenda, senza compiere a Dresda passi di alcun tipo; e, dopo aver

redatto nella Cancelleria del tribunale cittadino la sua lagnanza,

seguendo fedelmente le istruzioni, e averla consegnata al prefetto,

fece, più tranquillizzato che mai sull'esito della sua causa, ritorno

a Pontekohlhaas. Ma già poche settimane dopo, per mezzo di un

magistrato che andava a Potsdam per seguire alcune faccende del

prefetto, ebbe il cruccio di sapere che il principe Elettore aveva

rimesso la supplica al suo cancelliere, il conte Kallheim, e questi

non si era direttamente rivolto alla corte di Dresda, come sembrava

opportuno, per l'inchiesta e la punizione del sopruso, bensì al barone

di Tronka, per avere innanzitutto da lui maggiori informazioni. Il

magistrato, che, nella sua carrozza, che aveva fermato davanti

all'abitazione di Kohlhaas, sembrava aver avuto l'incarico di fare al

mercante quella comunicazione, alla sua stupefatta domanda come mai si

fosse proceduto in quel modo, non seppe dare una risposta

soddisfacente. Aggiunse solo che il prefetto gli faceva dire di avere

pazienza; sembrava avere molta fretta di proseguire il suo viaggio, e

solo alla fine del breve colloquio, da alcune parole buttate là,

Kohlhaas indovinò che il conte Kallheim era imparentato con la casa

dei Tronka.

Kohlhaas, al quale non davano più gioia né l'allevamento dei cavalli,

né la casa e la fattoria, e quasi neppure la moglie e i figli, tenne

duro, pieno di cupi presentimenti per il futuro, fino alla luna

successiva; e, proprio come si aspettava, passato quel periodo,

Ersiano, al quale le cure termali avevano procurato un po' di

sollievo, ritornò da Brandeburgo, con una lettera del prefetto, che

accompagnava un lungo scritto. In essa il prefetto si diceva spiacente

di non poter fare niente per la sua causa; gli inviava una risoluzione

della Cancelleria di Stato, che gli era stata rimessa; e gli

consigliava di andare a riprendersi i cavalli che erano rimasti nel

castello di Tronka, e per il resto lasciare le cose come stavano.

La risoluzione suonava: "Egli era, secondo il rapporto del tribunale

di Dresda, un querelante ozioso; il barone presso il quale egli aveva

lasciato i cavalli non li tratteneva in nessun modo; che mandasse

qualcuno a riprenderli al castello, o almeno facesse sapere al barone

dove avrebbe dovuto mandarglieli; ma in ogni caso risparmiasse alla

Cancelleria di Stato simili beghe fastidiose".

Kohlhaas, per il quale non era questione di cavalli - avrebbe provato

lo stesso dolore se si fosse trattato di due cani Kohlhaas ribollì di

furore, quando ricevette la lettera. Ogni volta che nel cortile si

faceva sentire un rumore, guardava, nell'attesa più odiosa che gli

avesse mai agitato il petto, verso il viottolo dell'ingresso, se mai

comparissero gli uomini del barone, per riportargli, forse addirittura

con le sue scuse, i cavalli sfiniti dalla fame e dalla fatica; era la

prima volta che la sua anima, così ben temprata alla scuola della

vita, si aspettava qualcosa che non corrispondeva completamente ai

suoi sentimenti. Ma già poco tempo dopo sentì dire, da un conoscente

che era passato per quella strada, che al castello di Tronka i suoi

cavalli continuavano come prima, come tutti gli altri cavalli del

barone, a essere adoperati nel lavoro dei campi; e, attraverso il

dolore di scorgere il mondo in un simile stato di mostruoso disordine,

batté con forza l'intima gioia di vedere ormai l'ordine nel suo cuore.

Invitò a casa sua un balivo, suo vicino, che da tempo accarezzava il

progetto di ingrandire i suoi possedimenti, acquistando i terreni

confinanti; e, quando questi si fu accomodato, gli chiese quanto

sarebbe stato disposto a dargli per le sue proprietà in Sassonia e nel

Brandeburgo; tutto compreso, casa e podere, beni mobili e immobili.

Lisabetta, sua moglie, sbiancò a queste parole. Si girò, tirò su il

figlio più piccolo, che dietro di lei si trastullava per terra, e,

sfiorando le guance rosse del fanciullo, che giocava con le sue

collane, lanciò sul mercante, e su un foglio che questi teneva in

mano, degli sguardi nei quali era dipinta la morte. Il balivo gli

chiese, osservandolo con stupore, che cosa gli avesse fatto venire di

colpo in mente un'idea così strana. Ma egli rispose, con tutta

l'allegria che riuscì a imporre a se stesso, che l'idea di vendere la

sua masseria sulle rive della Havel non era completamente nuova. Non

avevano forse già più volte fatto trattative sull'argomento? Quanto

alla casa nei sobborghi di Dresda, quella non era, in confronto, che

un accessorio, del quale non metteva conto parlare. In breve, se

voleva fare la sua volontà, e prendersi tutti e due i terreni, egli

era pronto a concludere il relativo contratto. E aggiunse, con un tono

scherzoso alquanto sforzato, che Pontekohlhaas non era poi il mondo;

che potevano esserci degli scopi in confronto ai quali dirigere, da

buon padre di famiglia, l'azienda domestica era una cosa secondaria e

poco onorevole; che, in breve, la sua anima, doveva dirgli, era

rivolta a cose grandi, delle quali, forse, avrebbe presto sentito

parlare.

Tranquillizzato da queste parole, il balivo disse allegramente,

rivolto alla donna, che baciava e ribaciava il bambino: "Non

pretenderà mica il pagamento immediato?", posò sulla tavola cappello e

bastone, che teneva fra le ginocchia, e prese il foglio che il

mercante aveva in mano, per leggerlo tutto. Kohlhaas, facendosi più

vicino, gli spiegò che si trattava di un ipotetico contratto di

acquisto, a nome suo, con una scadenza di quattro settimane; gli

mostrò che non vi mancava niente, se non le firme, e l'indicazione

delle somme, cioè il prezzo d'acquisto da un lato, e dall'altro la

penale, cioè la somma che egli si impegnava a pagare se, entro le

quattro settimane, si fosse tirato indietro; e lo invitò ancora una

volta, allegramente, a fare un'offerta, assicurando che le sue pretese

erano modeste, e non avrebbe fatto difficoltà. La donna andava avanti

e indietro per la stanza; il petto le ansimava, tanto che il

fazzoletto, che il bambino aveva tirato per gioco, stava per caderle

del tutto dalla spalla. Il balivo disse di non essere in nessun modo

in grado di giudicare il valore della proprietà di Dresda; al che

Kohlhaas rispose, porgendogli alcune lettere che erano state scambiate

al tempo dell'acquisto, che la valutava cento fiorini d'oro; anche se

da quelle carte risultasse che gli era costata quasi la metà in più.

Il balivo rilesse ancora una volta il contratto di acquisto; e vedendo

che, stranamente, includeva anche da parte sua la facoltà di recedere,

disse, già a metà deciso, che però non sapeva che farsene degli

stalloni che si trovavano nelle sue stalle; ma poiché Kohlhaas replicò

che non intendeva affatto disfarsene, e voleva anche tenere per sé

alcune armi, che erano appese nell'armeria, questi allora esitò, esitò

ancora, e alla fine ripeté un'offerta che gli aveva già fatto, mezzo

per scherzo, mezzo sul serio, poco tempo prima, durante una

passeggiata, e che era ridicola, rispetto al valore dei possedimenti.

Kohlhaas spinse verso di lui la penna e l'inchiostro, perché

scrivesse; e quando il balivo, non credendo ai suoi occhi, gli chiese

ancora una volta se faceva sul serio, e il mercante gli ebbe risposto,

un po' risentito, se credeva forse che si stesse prendendo gioco di

lui, questi prese sì in mano la penna, con espressione pensierosa, e

cominciò a scrivere; ma cancellò il punto nel quale si parlava della

penale che il venditore avrebbe pagato, se si fosse pentito, si

impegnò a versare, a titolo di prestito, cento fiorini d'oro,

garantiti da un'ipoteca sul possedimento di Dresda che, con quella

somma, egli non intendeva affatto comprare, e lasciò al mercante piena

libertà, per due mesi, di recedere dal negozio. Il mercante, toccato

da questo modo di agire, gli strinse calorosamente la mano; e, dopo

che si furono accordati sul punto, che era una delle condizioni

principali, che un quarto del prezzo di acquisto sarebbe stato pagato

subito in contanti, e il resto, entro tre mesi, presso la banca di

Amburgo, egli gridò che si portasse del vino, per festeggiare un

affare così felicemente concluso. Disse a una ragazza, che era entrata

con le bottiglie, che Sternbald, il garzone, gli sellasse il sauro,

spiegando che doveva andare nella capitale, dove aveva da fare; e

lasciò capire che in poco tempo, quando fosse tornato, avrebbe parlato

a cuore aperto di quello che, per il momento, doveva tenere per sé.

Poi, riempiendo i bicchieri, chiese dei Polacchi e dei Turchi, che

proprio allora erano in guerra, trascinò il balivo in una serie di

ipotesi politiche sulla questione, brindò ancora una volta, alla fine,

alla felice conclusione del loro affare, e lo congedò.

Quando il balivo ebbe lasciato la stanza, Lisabetta gli cadde in

ginocchio davanti. "Se hai ancora nel cuore", gridò, "me, e i bambini

che ti ho partorito, se non ne siamo già stati banditi, ormai, per un

qualche motivo, che io non so: dimmi che cosa significano questi

orribili preparativi!".

"Moglie carissima", disse Kohlhaas, "niente che, finché le cose stanno

così, ti debba impensierire. Ho ricevuto una risoluzione, in cui mi si

dice che la mia querela contro il barone Venceslao di Tronka è una

bega oziosa. E poiché deve trattarsi di un malinteso, ho deciso di

presentare ancora una volta la mia querela, personalmente al principe

Elettore.

"E perché vuoi vendere la casa?", gridò lei, alzandosi, con il viso

sconvolto.

Il mercante la strinse teneramente al petto, e rispose: "Perché in un

paese, mia carissima Lisabetta, in cui non mi vogliono proteggere nei

miei diritti, io non voglio restare.

Meglio essere un cane, se devo essere preso a calci, che un uomo!

Sono sicuro che in questo mia moglie la pensa come me".

"Chi ti dice", chiese lei con violenza, "che non ti proteggeranno nei

tuoi diritti? Se ti presenti al sovrano umilmente, come ti si addice,

con la tua supplica, chi ti dice che sarà messa da parte, o che ti

risponderanno rifiutandosi di ascoltarti?".

"Ebbene", rispose Kohlhaas, "se in questo il mio timore è infondato,

neanche la mia casa, per adesso, è venduta. Il sovrano, lo so, è

giusto; e se solo riesco, attraverso tutti quelli che lo circondano,

ad arrivare fino alla sua persona, non dubito di ottenere giustizia, e

di tornare felicemente, ancor prima che sia finita la settimana, a te

e alle mie vecchie occupazioni. E che da allora in poi io possa",

aggiunse, baciandola, "restare sempre con te, fino alla fine dei miei

giorni! Ma è consigliabile", continuò, "che io sia pronto a ogni

eventualità; per questo desideravo che tu, per qualche tempo, se è

possibile, ti allontanassi, e andassi con i bambini a Schwerin, da tua

zia, alla quale del resto già da un pezzo volevi far visita".

"Come", gridò la donna, "devo andare a Schwerin? Passare il confine

con i bambini, e andare a Schwerin da mia zia?". E l'orrore le soffocò

la voce.

"Proprio così", rispose Kohlhaas, "e subito, se è possibile, affinché,

nei passi che intendo fare per la mia causa, io non sia disturbato da

alcun riguardo".

"Oh, ti capisco!", gridò lei. "Adesso non hai più bisogno di niente,

se non di armi e di cavalli; tutto il resto, se lo prenda chi vuole!".

E con queste parole si girò, si buttò su una sedia e pianse.

"Lisabetta carissima", disse Kohlhaas, turbato, "che fai? Dio mi ha

benedetto, dandomi una moglie, dei figli e dei beni; devo oggi, per la

prima volta, desiderare che non fosse così?...". E si sedette

affettuosamente vicino a lei, che, a quelle parole, gli aveva gettato

le braccia al collo, arrossendo. "Dimmi tu", disse, scostandole i

riccioli dalla fronte, "che devo fare? Devo tirarmi indietro? Devo

andare a Castel Tronka, e pregare il cavaliere che mi restituisca i

cavalli, saltarci su, e portarteli qui?".

Lisabetta non osò dire "Sì! Sì! Sì!"... scosse il capo piangendo, si

strinse forte a lui, e gli coprì il petto di baci ardenti. "E dunque",

gridò Kohlhaas, "se tu senti che, perché io possa continuare la mia

attività, mi deve essere resa giustizia, concedimi anche la libertà

che mi è necessaria per procurarmela!". E dicendo queste parole si

alzò, e disse al garzone, che veniva ad avvertirlo che il sauro era

sellato, che l'indomani dovevano essere attaccati i bai, per portare

sua moglie a Schwerin.

Lisabetta disse che le era venuta un'idea! Si alzò in piedi, si

asciugò gli occhi pieni di lacrime, e chiese al marito, che si era

seduto a uno scrittoio, se voleva dare a lei la supplica, e lasciare

andare lei, al posto suo, a Berlino, a porgerla al principe. Kohlhaas,

commosso, per più di una ragione, dalla proposta inattesa, se l'attirò

sulle ginocchia, e disse: "Moglie carissima, non è possibile! Il

principe ha molta gente intorno; chi gli si avvicina si espone a

numerose situazioni spiacevoli". Lisabetta obbiettò che c'erano mille

circostanze in cui per una donna sarebbe stato più facile avvicinarsi

a lui, che non per un uomo. "Dammi la supplica", ripeté; "e se non

vuoi altro, se non essere sicuro che finisca nelle sue mani, ti do la

mia parola: la riceverà!".

Kohlhaas, che del suo coraggio, come della sua prudenza, aveva avuto

più di una prova, le chiese come pensasse di comportarsi; e lei,

guardando davanti a sé, con gli occhi bassi per la vergogna, rispose

che il castaldo del palazzo del principe Elettore, tempo prima, quando

era in servizio a Schwerin, aveva chiesto la sua mano; adesso era

ormai sposato, e aveva numerosi figli; ma non l'aveva ancora del tutto

dimenticata; insomma, lasciasse a lei di approfittare di questa

circostanza, e di alcune altre che sarebbe stato troppo lungo

descrivere. Kohlhaas la baciò con grande gioia, disse che accettava la

sua proposta, le spiegò che non serviva altro che procurarsi alloggio

presso la moglie del castaldo, per potersi avvicinare al principe nel

suo stesso palazzo, le diede la supplica, fece aggiogare i bai, e la

lasciò partire, ben equipaggiata, con Sternbald, il suo fedele servo.

Quel viaggio fu però, fra tutti i passi infruttuosi che aveva fatto

per la sua causa, il più infelice. Dopo pochi giorni, infatti,

Sternbald rientrava già nel cortile, guidando, al passo, la carrozza,

nella quale era adagiata la donna, con una pericolosa contusione al

petto. Kohlhaas, che, pallido, si avvicinò alla vettura, non riuscì a

ottenere una spiegazione coerente di quello che aveva causato la

disgrazia. Il castaldo, a quanto disse il servo, non era in casa; e

dunque erano stati costretti a scendere in una locanda che si trovava

nelle vicinanze del palazzo; il mattino dopo Lisabetta aveva lasciato

la locanda, ordinando al servo di restare presso i cavalli, ed era

tornata soltanto a sera, in quello stato. Sembrava che si fosse spinta

con troppa foga verso la persona del sovrano, e, senza sua colpa, solo

per lo zelo brutale di una delle guardie che lo circondavano, avesse

ricevuto sul petto un colpo, con l'asta di una lancia. Almeno, così

riferirono le persone che, verso sera, la riportarono, priva di sensi,

nella locanda; perché lei stessa, impedita dagli sbocchi di sangue,

poco poteva parlare. La supplica le era stata poi ritirata da un

cavaliere. Sternbald disse che egli avrebbe voluto saltare subito su

un cavallo e portargli la notizia del disgraziato incidente; ma lei,

malgrado le rimostranze del chirurgo che era stato chiamato, aveva

insistito per essere riportata, senza farsi precedere dalla notizia,

da suo marito a Pontekohlhaas.

Kohlhaas la portò, ridotta in fin di vita dal viaggio, su un letto,

dove, tra sforzi dolorosi per respirare, visse ancora qualche giorno.

Si cercò inutilmente di farla tornare in sé, per trarre qualche

conclusione su quanto era accaduto; ma lei restava distesa, con gli

occhi fissi, e già spenti, e non rispondeva. Solo poco prima di morire

riprese i sensi, ancora una volta. Infatti, mentre un sacerdote di

religione luterana (fede che stava allora prendendo piede, e alla

quale, seguendo l'esempio del marito, si era convertita), in piedi

vicino al suo letto, le leggeva, con voce alta, commossa e solenne, un

capitolo della Bibbia, lei lo guardò, d'improvviso, con espressione

cupa, gli prese, come se in quel punto non ci fosse niente da

leggerle, la Bibbia di mano, la sfogliò a lungo, come se vi cercasse

qualcosa, e a Kohlhaas, che stava seduto vicino al suo letto, mostrò

con l'indice il versetto: "Perdona ai tuoi nemici, e fai del bene

anche a coloro che ti odiano". Gli strinse allora la mano, guardandolo

con tutta l'anima, e morì. "Così non mi perdoni mai Iddio, come io

perdonerò al barone!", pensò Kohlhaas, la baciò, mentre gli scorrevano

copiose le lacrime, le chiuse gli occhi, e lasciò la stanza.

Prese i cento fiorini d'oro che il balivo gli aveva già versato, per

le stalle di Dresda, e diede disposizioni per un funerale che non

sembrava destinato a lei, ma a una principessa: una bara di quercia

con pesanti ornamenti metallici, cuscini di seta con nappe d'oro e

d'argento, e una fossa profonda otto braccia, rivestita di pietre e di

calce. Egli stesso, con il figlio più piccolo in braccio, restò in

piedi accanto alla cripta, a sorvegliare il lavoro. Venuto il giorno

del funerale, la salma, bianca come la neve, fu esposta in una sala

che egli aveva fatto tappezzare di drappi neri. Il sacerdote aveva

appena finito una commovente orazione accanto alla bara, quando gli fu

consegnata la risoluzione sovrana, in risposta alla supplica che era

stata consegnata dalla defunta: doveva andare a prendere i cavalli al

castello di Tronka, e, sotto pena di essere messo in prigione, non

presentare ulteriori ricorsi sull'argomento. Kohlhaas mise in tasca la

lettera, e ordinò di mettere la bara sul carro. Non appena fu alzato

il tumulo, piantata in cima la croce, e congedati gli ospiti che

avevano accompagnato la salma, egli si gettò ancora una volta sul

letto di lei, ora deserto, e subito si preparò a intraprendere la

vendetta.

Si sedette, e stese un'ordinanza, nella quale condannava, in virtù del

suo innato potere, il barone Venceslao di Tronka a riportare a

Pontekohlhaas, entro tre giorni dal ricevimento, i morelli che gli

aveva sottratto, e sfiancato nel lavoro dei campi, e a ingrassarli di

persona nelle sue stalle. Gli inviò l'intimazione con un messo a

cavallo, al quale diede istruzioni, non appena consegnato il

documento, di tornare di gran carriera a Pontekohlhaas. Poiché i tre

giorni passarono senza che fossero consegnati i cavalli, mandò a

chiamare Ersiano; gli confidò che cosa aveva intimato al barone,

riguardo all'ingrasso degli animali, e gli chiese due cose: era

disposto ad andare con lui a cavallo a Castel Tronka, a prendere il

barone, e poi, quando l'avessero portato là, se si fosse dimostrato

pigro nell'adempiere all'ordinanza, nelle stalle di Pontekohlhaas, ad

adoperare la frusta? E poiché Ersiano, non appena l'ebbe capito,

"Padrone, oggi stesso!", gridò esultante, e, lanciando in aria il

berretto, lo assicurò che si sarebbe fatto intrecciare uno staffile a

dieci nodi, per insegnargli a strigliare! Kohlhaas vendette la casa,

spedì i bambini, ben sistemati in una carrozza, oltre confine, radunò,

sul far della notte, anche gli altri servi, sette di numero, ognuno

dei quali gli era fedele come oro puro, li armò, li fece salire a

cavallo, e si mosse verso il castello di Tronka.

E già al calare della terza notte irrompeva, con questo piccolo

drappello, travolgendo il gabelliere e il portiere, che stavano

chiacchierando sotto il portone, nel castello; e, mentre di colpo

tutte le baracche, all'interno del muro di cinta, si incendiavano e

crepitavano, infiammate dalle torce che vi erano state lanciate, ed

Ersiano, su per la scala a chiocciola, correva nella torre di guardia,

e si avventava, con fendenti di taglio e di punta, contro il castaldo

e l'amministratore, che, mezzo svestiti, erano seduti a tavola a

giocare, Kohlhaas si precipitava nel castello alla ricerca del barone

Venceslao. Così scende dal cielo l'Angelo del Giudizio; e il barone,

che per l'appunto, fra grandi risate, stava leggendo alla brigata di

giovani amici che era con lui l'ordinanza che il mercante di cavalli

gli aveva fatto recapitare, non appena ne ebbe sentita la voce, nel

cortile del castello, divenuto, d'improvviso, bianco come un cadavere:

"Fratelli, salvatevi!", urlò a quei signori, e sparì. Kohlhaas, che,

entrando nella sala, aveva preso per il collo un barone Giovanni di

Tronka, che gli veniva contro, e l'aveva scaraventato nell'angolo,

così da farne schizzare sulle pietre il cervello, mentre i servi

sopraffacevano e disperdevano gli altri cavalieri, che avevano messo

mano alle armi, chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka. E,

poiché quegli uomini, storditi, non lo sapevano, dopo aver sfondato

con un calcio le porte di due stanze che davano nelle ali del

castello, e percorso in tutte le direzioni il vasto edificio, senza

trovare nessuno, scese imprecando nel cortile, per far presidiare le

uscite.

Intanto, raggiunto dal fuoco delle baracche, anche il castello era

ormai in fiamme, con tutti gli edifici attigui, sprigionando contro il

cielo un fumo spesso, e, mentre Sternbald, con tre servi indaffarati,

portava giù tutto ciò che non era intrasportabile o attaccato ai muri,

e lo ammassava in mezzo ai cavalli, come buon bottino, dalle finestre

spalancate della torre di guardia volavano giù, con giubilo di

Ersiano, i cadaveri del castaldo e del fattore, con mogli e figli.

Kohlhaas, al quale, mentre scendeva la scala del castello, si era

gettata ai piedi la vecchia economa, tormentata dalla gotta, che aveva

il governo della casa, le chiese, fermandosi sul gradino, dove fosse

il barone Venceslao di Tronka; e poiché lei, con voce debole e

tremante, gli disse in risposta che credeva che fosse fuggito nella

cappella, chiamò due servi con le torce, fece scardinare, in mancanza

di chiavi, l'ingresso con leve di ferro e con le asce, rovesciò le

panche e gli altari, ma, con suo rabbioso dolore, non trovò il barone.

Accadde che un giovane garzone, che apparteneva alla servitù del

castello, nel momento in cui Kohlhaas ritornava dalla cappella,

accorresse per tirare fuori da una grande stalla in pietra, minacciata

dalle fiamme, gli stalloni da battaglia del barone. Kohlhaas, che

proprio in quel momento, in una piccola rimessa coperta di paglia,

vide i suoi due morelli, chiese al servo perché non mettesse in salvo

i morelli; e poiché questi, infilando la chiave nella porta della

grande stalla, rispose che ormai la rimessa era in fiamme, Kohlhaas

gettò la chiave, dopo averla strappata con violenza dalla porta della

stalla, al di là del muro, spinse, con una grandinata di piattonate,

il servo fin dentro la baracca in fiamme, e lo costrinse, tra le

orribili risate degli astanti, a salvare i morelli. Tuttavia, quando

il garzone pallido di terrore, pochi istanti prima che la rimessa

crollasse dietro di lui, ne uscì con i cavalli alla cavezza, non trovò

più Kohlhaas; e quando raggiunse i servi sul piazzale del castello, e

chiese al mercante, che più volte gli voltò le spalle, che cosa

dovesse fare, adesso, con quelle bestie, questi d'un tratto levò il

piede, con una mossa così terribile, che, se il calcio l'avesse

raggiunto, sarebbe stata la sua morte, montò, senza rispondergli, il

suo baio, si piantò sotto il portone del castello, e aspettò, mentre i

servi continuavano ad affaccendarsi, in silenzio, il giorno.

Quando giunse il mattino, tutto il castello, tranne le mura, era in

cenere, e non vi si trovava più nessuno, se non Kohlhaas e i suoi

sette servi. Egli scese da cavallo, e setacciò ancora una volta, alla

chiara luce del sole, che ora ne illuminava ogni angolo, l'intero

posto, e poiché, per quanto difficile gli fosse ammetterlo, dovette

convincersi che l'impresa contro il castello era fallita, inviò, con

il cuore oppresso dalla pena e dal dolore, Ersiano e alcuni servi a

cercare informazioni sulla direzione che il barone aveva preso nella

sua fuga.

Soprattutto lo preoccupava un ricco educandato per fanciulle nobili,

chiamato Erlabrunn, che sorgeva sulle rive della Molda, e la cui

badessa, Antonia di Tronka, era conosciuta nella regione come una

donna pia, benefica e santa; poiché all'infelice Kohlhaas pareva fin

troppo probabile che il barone, privo com'era di tutto il necessario,

si fosse rifugiato in quell'istituto, dato che che la badessa era sua

zia carnale, e l'aveva allevato nella prima infanzia. Kohlhaas, dopo

essersi informato su questa circostanza, salì alla torre del corpo di

guardia, al cui interno aveva ancora una stanza abitabile, e scrisse

quello che lui chiamò "Bando Kohlhaasiano", nel quale intimava al

paese di non prestare nessun aiuto al barone Venceslao di Tronka,

contro il quale egli era sceso in giusta guerra, e anzi faceva obbligo

a ogni abitante, non esclusi i suoi parenti e amici, sotto pena di

morte, e dell'immancabile incenerimento di tutto quello che si potesse

chiamare proprietà, di consegnarlo nelle sue mani.

Egli diffuse quella dichiarazione nella contrada, per mezzo di

viaggiatori e forestieri, e ne diede anche una copia al suo servo

Waldmann, con il preciso incarico di consegnarla a Erlabrunn, nelle

mani di donna Antonia. Subito dopo, trattò con alcuni servi del

castello di Tronka, che erano scontenti del barone, e, attirati dalla

speranza di bottino, volevano entrare al suo servizio; li armò, alla

maniera dei fanti, di daga e balestra, e li istruì a tenersi in groppa

dietro gli uomini a cavallo; poi, quando ebbe venduto tutto quello che

la sua gente aveva predato, e distribuito fra loro il ricavato, riposò

alcune ore, sotto il portone del castello, dai suoi tristi impegni.

Verso mezzogiorno arrivò Ersiano, e gli confermò quello che il suo

cuore, sempre propenso ai più cupi presentimenti, gli aveva già detto:

che per l'appunto il barone si trovava a Erlabrunn nell'educandato,

presso l'anziana donna Antonia di Tronka, sua zia. Si era salvato, a

quanto sembrava, attraverso una porticina che, nel muro posteriore del

castello, dava sul vuoto, e per una stretta scala di pietra che,

coperta da un piccolo tetto, scendeva fino ad alcune barche sull'Elba.

Ersiano, almeno, riferiva che, in un villaggio lungo l'Elba, con

grande stupore della gente, che si era radunata a causa dell'incendio

di Castel Tronka, egli era arrivato, verso la mezzanotte, in un

canotto senza timone e senza remi, e aveva proseguito poi per

Erlabrunn in un carro di contadini.

Kohlhaas, a quella notizia, mandò un profondo sospiro, chiese se i

cavalli avevano mangiato, e poiché gli fu risposto di sì, fece montare

il drappello, e in tre ore era già davanti a Erlabrunn. Stava proprio

entrando con la sua schiera, al brontolio di un lontano temporale

all'orizzonte, con le fiaccole, che aveva fatto accendere alle porte,

nel cortile del convento, e Waldmann, il suo servo, gli veniva

incontro, per comunicargli che il bando era stato consegnato come si

deve, quando vide la badessa e il castaldo, in un concitato colloquio,

farsi avanti sotto il portale del monastero; e, mentre questi, il

castaldo, un uomo piccolo, anziano, candido come la neve, lanciando a

Kohlhaas degli sguardi torvi, si faceva allacciare la corazza, e ai

servi che lo circondavano gridava, con voce ardita, di suonare a

martello, lei, la superiora del monastero, con un crocifisso d'argento

in mano, scese, pallida come un lenzuolo di lino, la scalinata, e si

gettò con tutte le sue ragazze in ginocchio davanti al cavallo di

Kohlhaas.

Kohlhaas, mentre Ersiano e Sternbald riducevano all'impotenza il

castaldo, che non aveva in pugno la spada, e lo portavano prigioniero

tra i cavalli, le chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e

poiché lei, sciogliendosi dalla cintura un grande anello di chiavi,

rispondeva: "A Vittemberga, Kohlhaas, uomo dabbene"; e aggiungeva, con

voce tremante: "Abbi timor di Dio, non commettere ingiustizia!",

Kohlhaas girò, ricacciato nell'inferno della vendetta inappagata, il

cavallo, e stava per gridare: "Appiccate il fuoco!", quando un fulmine

spaventoso cadde al suolo proprio vicino a lui. Kohlhaas, girando di

nuovo il cavallo verso di lei, le chiese se avesse ricevuto il suo

bando: e poiché la nobildonna, con voce flebile, quasi impercettibile,

rispose: "Proprio ora!", "Quando?", "Due ore fa, così mi aiuti Iddio,

dopo che il barone, mio nipote, era ormai partito!", e Waldmann, il

suo servo, al quale Kohlhaas si era rivolto con sguardo bieco,

confermò, balbettando, questa circostanza, perché, disse, le acque

della Molda, gonfiate dalla pioggia, gli avevano impedito di giungere

se non pochissimo tempo prima, allora Kohlhaas riprese il controllo di

sé; all'improvviso un tremendo rovescio di pioggia, che spazzò il

selciato del cortile, spegnendo le fiaccole, sciolse il dolore nel suo

petto infelice; girò, sollevando di poco il cappello davanti alla

nobildonna, il suo cavallo, gli diede, con le parole: "Seguitemi,

fratelli! Il barone è a Vittemberga!", di sprone, e lasciò la badìa.

Egli entrò, allo scendere della notte, in una locanda sulla strada

maestra, nella quale dovette, per la grande stanchezza dei cavalli,

riposare un giorno, e, rendendosi conto che con un drappello di dieci

uomini (tanti ne aveva in quel momento) non poteva sfidare una

località come Vittemberga, stilò un nuovo bando, nel quale, dopo un

breve racconto di quello che gli era toccato nel paese, invitava "ogni

buon cristiano", così si espresse, "con la promessa di una paga, e di

altri vantaggi di guerra, ad abbracciare la sua causa contro il barone

di Tronka, nemico comune di tutti i cristiani". In un altro bando, che

apparve poco dopo, egli si definiva "libero signore, non soggetto né

al mondo né all'Impero, ma soltanto a Dio"; una millanteria folle e di

cattiva lega, che però, con il suono del suo denaro e con la

prospettiva del bottino, gli procurò un gran mucchio di gente, fra la

marmaglia che la pace con la Polonia aveva lasciato senza pane: così

che egli contava trenta uomini e più, quando ripassò sulla riva destra

dell'Elba, per ridurre in cenere Vittemberga.

Egli si accampò, con i cavalli e i fanti, al riparo di una vecchia

fornace diroccata, nella solitudine e nell'oscurità del bosco che a

quel tempo circondava la località, e, non appena ebbe saputo da

Sternbald, che aveva inviato travestito in città, con il suo bando,

che esso vi era già noto, subito si mosse con il suo drappello, la

santa vigilia della Pentecoste, e, mentre gli abitanti erano immersi

in un sonno profondo, appiccò l'incendio alla città, in più punti

contemporaneamente. Poi, mentre la sua truppa metteva a sacco i

sobborghi, attaccò al pilastro di una chiesa un foglio di questo

tenore: "Egli, Kohlhaas, aveva dato fuoco alla città: e, se non gli

fosse stato consegnato il barone, l'avrebbe a tal punto ridotta in

cenere, che", così si espresse, "non avrebbe avuto bisogno di guardare

dietro a nessun muro per trovarlo". L'orrore degli abitanti per

l'inaudito misfatto fu indescrivibile; e non appena le fiamme, che in

quella notte d'estate, per fortuna non molto ventosa, non avevano raso

al suolo più di diciannove case, fra le quali, tuttavia, c'era una

chiesa, furono, verso il sorgere del giorno, almeno in parte domate,

il vecchio prefetto, Ottone di Gorgas, inviò lì per lì una piccola

compagnia di cinquanta uomini per spazzare via l'orribile flagello.

Ma il capitano che la guidava, di nome Gerstenberg, si comportò così

male nell'impresa, che la spedizione, invece di sconfiggere Kohlhaas,

gli diede una pericolosissima gloria militare, poiché, quando l'uomo

d'armi divise le sue forze in plotoni, per circondarlo, così pensava,

e quindi sopraffarlo, fu invece attaccato da Kohlhaas, che aveva

tenuto compatto il suo drappello, nei diversi punti, e battuto: tanto

che, già la sera del giorno dopo, nemmeno uno degli uomini della

truppa nella quale erano riposte le speranze del paese restava più in

campo contro di lui. Kohlhaas, che in quei combattimenti aveva subìto

alcune perdite, il mattino del giorno seguente appiccò di nuovo

l'incendio alla città, e le sue crudeli istruzioni furono così

efficaci, che questa volta un gran numero di case e quasi tutti i

fienili dei sobborghi furono ridotti in cenere. Nel frattempo egli

affisse di nuovo, questa volta agli angoli dello stesso Municipio, il

bando già noto, aggiungendovi le novità sulla sorte del capitano

Gerstenberg, inviato contro di lui dal prefetto, e da lui sbaragliato.

Il prefetto, al culmine dell'indignazione davanti a tanta arroganza,

si mise lui stesso, con molti cavalieri, alla testa di uno squadrone

di centocinquanta uomini. Diede al barone Venceslao di Tronka, che

l'aveva sollecitata per iscritto, una scorta che lo proteggesse dalle

violenze del popolo, che pretendeva che egli fosse allontanato senza

indugio dalla città, e, dopo aver inviato dei presìdi in tutti i

villaggi dei dintorni, e guarnito di sentinelle anche le mura di cinta

della città, per difenderle da un colpo di mano, uscì di persona dalle

porte, il giorno di san Gervasio, per catturare il drago che devastava

il paese.

Il mercante di cavalli fu così abile da evitare lo squadrone; e, dopo

aver attirato il prefetto, con abili marce, a cinque miglia dalla

città, e averlo indotto, con una serie di stratagemmi, nella falsa

convinzione che lui, incalzato da forze troppo superiori, stesse per

cercare scampo nel Brandeburgo, fece bruscamente dietro front, allo

scendere della terza notte, ritornò di gran carriera a Vittemberga, e

per la terza volta diede alle fiamme la città. Ersiano si era

intrufolato in città travestito, e aveva realizzato l'orribile colpo

maestro; e un vento teso di tramontana rese il divampare dell'incendio

così funesto e divorante che, in meno di tre ore, quarantadue case,

due chiese, numerosi conventi e scuole e lo stesso edificio della

prefettura furono ridotti in cenere e macerie.

Il prefetto, che, allo spuntar del giorno credeva il suo avversario in

territorio brandeburghese, quando, informato di quello che era

successo, ebbe fatto, a marce forzate, ritorno, trovò la città intera

in rivolta; il popolo era accampato, a migliaia, davanti alla casa,

barricata con pali e tronchi, del barone, e chiedeva, con urla

furibonde, che fosse portato via dalla città. Due borgomastri, di nome

Genziano e Ottone, che erano andati sul posto con le divise e le

insegne, alla testa di tutta la magistratura cittadina, spiegarono

inutilmente che bisognava in ogni caso aspettare il ritorno di un

messo inviato d'urgenza al presidente della Cancelleria di Stato, per

chiedere l'autorizzazione a portare il barone a Dresda, dove lui

stesso desiderava, per più di una ragione, andare; la folla

irragionevole, armata di spiedi e di spranghe, non se ne dava per

inteso, e già stava malmenando alcuni consiglieri, che proponevano di

impiegare le maniere forti, e si preparava a dare l'assalto alla casa

in cui si trovava il barone, e raderla al suolo, quando il prefetto,

Ottone di Gorgas, alla testa del suo squadrone di cavalieri, apparve

in città.

A quell'uomo per bene, che era abituato a infondere nel popolo, con la

sua sola presenza, obbedienza e rispetto, era riuscito, quasi come

compenso per l'impresa fallita dalla quale ritornava, di catturare, a

poca distanza dalle porte della città, tre fanti sbandati della banda

dell'incendiario; e poiché egli, mentre quei ribaldi venivano, al

cospetto del popolo, incatenati, assicurò i magistrati, con un accorto

discorso, che in poco tempo contava di portare in città in catene lo

stesso Kohlhaas, del quale era già sulle tracce, riuscì, grazie a

queste circostanze rassicuranti, a disarmare l'angoscia del popolo

radunato, e a calmarlo un po', circa la presenza del barone fino al

ritorno del messaggero da Dresda. Egli smontò, accompagnato da alcuni

cavalieri, da cavallo, e andò, fatta rimuovere la barricata, nella

casa, dove trovò il barone, che passava da uno svenimento all'altro,

nelle mani di due medici, che cercavano di farlo rinvenire con essenze

e stimolanti; e poiché Ottone di Gorgas si rendeva perfettamente conto

che non era quello il momento per chiacchierare con lui su tutto ciò

che era successo per causa sua, gli disse solo, con uno sguardo di

muto disprezzo, che per favore si vestisse, e, per la sua stessa

sicurezza, lo seguisse nelle stanze della prigione dei nobili. Quando

ebbero fatto indossare al barone un panciotto, e gli ebbero messo un

elmo in testa, ed egli, ancora a metà sbottonato, visto che gli

mancava il respiro, apparve, al braccio del prefetto e del conte di

Gerschau, suo cognato, sulla strada, salirono fino al cielo

maledizioni e bestemmie orribili contro di lui. Il popolo, trattenuto

a fatica dalla truppa, lo chiamava sanguisuga, infame, aguzzino,

flagello del paese, maledizione della città di Vittemberga e rovina

della Sassonia; dopo un pietoso tragitto per la città ridotta in

macerie, durante il quale egli più volte, senza accorgersene, perse

l'elmo, che un cavaliere gli rimetteva in testa da dietro, si

raggiunse finalmente la prigione, dove egli sparì in una torre, sotto

la protezione di una buona scorta.

Intanto il ritorno del messaggero con la decisione del principe

Elettore suscitava in città nuove preoccupazioni. Infatti il governo

dello Stato, al quale la cittadinanza di Dresda si era immediatamente

rivolta con una supplica, non voleva saperne di un soggiorno del

barone nella capitale, prima che l'incendiario fosse ridotto

all'impotenza; e anzi obbligava il prefetto di difenderlo, dovunque

fosse, poiché in qualche posto doveva pur stare, con le forze che

aveva sotto il suo comando; ma annunciava contemporaneamente alla

buona città di Vittemberga, per sua tranquillità, che un battaglione

di cinquecento uomini, al comando del principe Federico di Meissen,

era già in marcia, per difenderla da ulteriori molestie. Il prefetto,

che ben capiva come una decisione simile non potesse in nessun modo

rassicurare la popolazione, poiché non solo numerose piccole

scaramucce, che il mercante di cavalli aveva combattuto con successo,

in diversi punti, davanti alla città, avevano diffuso le voci più

incresciose su un aumento delle sue forze, ma, per di più, la guerra

che egli conduceva, con pece, paglia e zolfo, nell'oscurità della

notte, per mezzo di gentaglia travestita, avrebbe potuto rendere

inefficace, inaudita e senza esempio com'era, una difesa anche

maggiore di quella con la quale il principe di Meissen si stava

avvicinando: il prefetto, dunque, dopo una rapida riflessione, decise

di tenere completamente nascosta l'ordinanza che aveva ricevuto. Fece

solo affiggere, agli angoli della città, una lettera nella quale il

principe di Meissen gli annunciava il suo arrivo; una carrozza chiusa,

che uscì sul fare del giorno dal cortile del carcere dei nobili,

prese, scortata da quattro cavalieri pesantemente armati, la strada di

Lipsia, mentre i cavalieri della scorta facevano capire, con vaghi

accenni, che andavano al castello sulla Pleisse; e, dopo aver così

tranquillizzato il popolo riguardo all'infausto barone, la cui

presenza significava ferro e fuoco, si mosse egli stesso, con una

schiera di trecento uomini, per unirsi al principe Federico di

Meissen.

Nel frattempo Kohlhaas, grazie alla singolare posizione che aveva

assunto nel mondo, era salito, in effetti, alla forza di cento e nove

uomini; e, dopo aver anche scoperto, a Jessen, un deposito di armi, e

averne rifornito di tutto punto le sue schiere, prese, informato della

doppia tempesta che si stava addensando, la decisione di andare

incontro a tutte e due con la rapidità del vento, prima che si

scatenassero sula sua testa. E infatti il giorno dopo attaccava già il

principe di Meissen, in un assalto notturno, nei pressi di Muhlberg;

in quel combattimento perse sì, con suo grande dolore, Ersiano, che

fin dai primi colpi cadde morto al suo fianco: ma, esasperato da

quella perdita, in tre ore di battaglia ridusse il principe, incapace

di riordinarsi nel borgo, così a mal partito, che, allo spuntare del

giorno, a causa di molte gravi ferite e del completo disordine della

sua truppa, fu costretto a ritirarsi in direzione di Dresda. Reso

temerario da questo successo, Kohlhaas si rivolse, prima che potesse

essere informato dell'accaduto, contro il prefetto, lo assalì, vicino

al villaggio di Damerow, in campo aperto, in pieno mezzogiorno, e si

batté con lui, con perdite sanguinose, ma con uguale successo, fino

allo scendere della notte. E di sicuro il mattino dopo, con il resto

della sua schiera, egli avrebbe senza dubbio attaccato di nuovo il

prefetto, che si era ritirato nel camposanto di Damerow, se questi,

attraverso degli esploratori, non fosse stato informato della disfatta

subita dal principe presso Muhlberg, e non avesse perciò ritenuto più

prudente ritornare, a sua volta, a Vittemberga, in attesa di tempi

migliori.

Cinque giorni dopo aver distrutto questi due contingenti, Kohlhaas era

davanti a Lipsia, e da tre lati appiccava il fuoco alla città. - Nel

bando che diffuse in quella circostanza egli si definiva "luogotenente

dell'Arcangelo Michele, venuto a punire col ferro e col fuoco, su

tutti quelli che nella contesa prendessero le parti del barone, il

male in cui era caduto il mondo intero". Dal castello di Lutzen, di

cui si era impadronito di sorpresa, e in cui si era insediato, egli

chiamava il popolo a unirsi a lui, per dare alle cose un migliore

ordinamento, e il bando era sottoscritto, con gesto quasi folle, in

questo modo: "Dato nel regale castello di Lutzen, sede provvisoria del

nostro governo universale". La fortuna degli abitanti di Lipsia fu che

il fuoco, a causa di una pioggia insistente che cadeva dal cielo, non

si propagasse, così che, grazie alla rapidità d'intervento

dell'organizzazione antincendio locale, solo alcune botteghe che

sorgevano intorno alla rocca sulla Pleisse furono divorate dalle

fiamme. E tuttavia la costernazione della città per la presenza del

forsennato incendiario, e per la sua falsa idea che il barone fosse a

Lipsia, era indescrivibile; e, quando un reparto di cento e ottanta

uomini a cavallo, che era stato inviato contro di lui, ritornò

sbaragliato in città, ai magistrati, che non volevano mettere a

repentaglio le ricchezze della città, non restò altro da fare che

chiudere del tutto le porte, e ordinare che la cittadinanza facesse,

giorno e notte, la guardia fuori delle mura.

Inutilmente i magistrati fecero affiggere, nei villaggi delle zone

circostanti, manifesti con la precisa assicurazione che il barone non

si trovava nel castello sulla Pleisse; il mercante di cavalli

insisteva, su manifesti analoghi, che egli era nella rocca, e

dichiarava che, se non vi si fosse trovato, egli avrebbe comunque

proceduto come se ci fosse, finché non gli venisse indicato, con tanto

di nome, il posto in cui si trovava. Il principe Elettore, informato

per mezzo di un corriere veloce della situazione gravissima in cui si

trovava la città di Lipsia, dichiarò che stava già radunando un

esercito di duemila uomini, e che si sarebbe messo alla sua testa, per

catturare Kohlhaas. Egli rivolse al signor Ottone di Gorgas un severo

rimprovero per l'astuzia ambigua e sconsiderata della quale si era

servito per allontanare l'incendiario dalla regione di Vittemberga; e

nessuno può descrivere il turbamento che invase l'intera Sassonia, e

soprattutto la capitale, quando laggiù si venne a sapere che, nei

villaggi intorno a Lipsia, era stata affissa, da parte di chi non si

sapeva, una dichiarazione diretta a Kohlhaas, secondo la quale

"Venceslao, il barone, si trovava presso i cugini Enzo e Corrado, a

Dresda".

In quel momento, il dottor Martin Lutero prese su di sé il compito,

sostenuto dal prestigio che la sua posizione nel mondo gli dava, di

riportare Kohlhaas, con la forza di parole pacate, dentro gli argini

dell'ordine umano; e, facendo affidamento su quanto di onesto c'era

ancora nel cuore dell'incendiario, gli indirizzò un manifesto di

questo tenore, che venne affisso in ogni città e in ogni borgo del

principato:

"Kohlhaas, tu che ti spacci per inviato a brandire la spada della

giustizia, che cosa mai ardisci, temerario, nel delirio di una cieca

passione, tu che di ingiustizia sei pieno dalla punta dei capelli alle

piante dei piedi? Poiché il sovrano al quale sei suddito ha negato il

tuo diritto, il tuo diritto nella contesa per una cosa da niente, tu

ti sollevi, o sciagurato, col ferro e col fuoco, e irrompi, come il

lupo del deserto, nella pacifica comunità di cui egli è scudo. Tu, che

seduci gli uomini con i tuoi proclami, pieni di falsità e di malizia,

credi tu, peccatore, di trovare scampo davanti a Dio in questo modo,

nel giorno che getterà luce dentro le pieghe di tutti i cuori? Come

puoi dire che ti è stato negato il tuo diritto, tu, il cui cuore

rabbioso, eccitato dal prurito di un'ignobile brama di vendetta, dopo

i primi, avventati tentativi che ti fallirono, ha lasciato cadere ogni

sforzo per guadagnartelo? E' la panca occupata dagli uscieri e dagli

sgherri del tribunale, che intercettano la lettera che hanno ricevuto,

o trattengono la sentenza che dovrebbero consegnare, è questa la tua

autorità? E devo io dirti, uomo dimentico di Dio, che la tua autorità

non sa nulla della tua causa - che cosa dico? che il sovrano, contro

il quale tu ti rivolti, non conosce nemmeno il tuo nome, di modo che,

quando tu comparirai un giorno davanti al trono di Dio, e penserai di

accusarlo, egli potrà dire, con il viso sereno: a quest'uomo, Signore,

io non feci nessun torto, poiché della sua esistenza l'anima mia non

sa nulla? La spada che tu impugni, sappilo, è la spada della rapina e

della strage; un ribelle tu sei, e non un soldato del giusto Iddio; la

tua meta sulla terra è la ruota e la forca, e nell'al di là la

dannazione che pende sul misfatto e sull'empietà.

Vittemberga, eccetera.

Martin Lutero".

Kohlhaas stava proprio allora, nel castello di Lutzen, meditando un

nuovo piano per incenerire Lipsia, nel suo petto lacerato egli non

dava, infatti, nessun credito alla notizia affissa nei villaggi che il

barone Venceslao si trovasse a Dresda, visto che non era firmata da

nessuno, e tanto meno dai magistrati, come egli aveva richiesto -,

quando Sternbald e Waldmann notarono, con la più profonda

costernazione, il manifesto, che, di notte, era stato affisso al

portone del castello. Invano sperarono, per diversi giorni, che

Kohlhaas, poiché preferivano non essere loro a rivolgergli la parola a

quel proposito, ci lasciasse cadere lo sguardo: cupo e ripiegato su se

stesso, egli si faceva sì vedere, verso sera, ma solo per dare i suoi

brevi ordini, e non vedeva niente; tanto che essi, un mattino, in cui

lui voleva fare impiccare un paio dei suoi fanti, che, contro la sua

volontà, avevano saccheggiato nei dintorni, si decisero ad attirarne

l'attenzione. Egli tornava appunto, mentre il popolo si faceva da

parte, intimidito, da entrambi i lati, dal luogo dell'esecuzione, con

il seguito che, dall'ultimo bando, gli era abituale - lo precedeva una

grande spada da cherubino, adagiata su un cuscino di cuoio rosso

adornato di nappe d'oro, e lo seguivano dieci fanti con le fiaccole

accese -, quando i due uomini, con le spade sottobraccio, girarono, in

un atteggiamento che non poteva non colpirlo, intorno al pilastro sul

quale era affisso il manifesto. Kohlhaas, quando, con le mani

intrecciate dietro la schiena, immerso nei suoi pensieri, arrivò sotto

il portone, alzò gli occhi e si fermò di colpo; e quando i servi,

vedendolo, si tirarono con deferenza da parte, egli si avvicinò al

pilastro, guardandoli distrattamente, a passi veloci.

Ma come descrivere quello che avvenne nella sua anima quando vi vide

il foglio che lo accusava di ingiustizia, sottoscritto dal nome più

caro e più venerando che conoscesse: dal nome di Martin Lutero!

Un cupo rossore gli salì al viso; egli lo lesse due volte, togliendosi

l'elmo, dal principio alla fine; si girò indietro, con sguardi

incerti, ai suoi uomini, come se volesse dire qualcosa, e non disse

niente; staccò il foglio dalla parete, lo lesse tutto ancora una

volta, e gridò: "Waldmann! Fai sellare il mio cavallo!", e poi:

"Sternbald! Seguimi nel castello!", e sparì. Quelle poche parole erano

bastate, con tutto l'alone di terrore che lo circondava, a disarmarlo

di colpo. Egli indossò, come travestimento, le vesti di un fittavolo

della Turingia, disse a Sternbald che un affare di notevole importanza

lo costringeva ad andare a Vittemberga, gli affidò, alla presenza di

alcuni dei suoi migliori soldati, il comando della schiera rimasta a

Lutzen, e partì, assicurando che entro tre giorni, durante i quali non

c'era da temere nessun attacco, sarebbe stato di ritorno, per

Vittemberga.

Si introdusse, sotto falso nome, in una locanda, e, non appena fu

scesa la notte, avvolto nel suo mantello, e munito di un paio di

pistole che erano bottino del castello di Tronka, andò nella stanza di

Lutero. Lutero, che sedeva al suo leggìo, fra libri e manoscritti,

vedendo quello strano sconosciuto aprire la porta, e richiuderla col

catenaccio dietro di sé, gli chiese chi fosse e che cosa volesse; e

l'uomo, che teneva con deferenza il cappello in mano, aveva appena

timidamente risposto, già presentendo quale spavento stesse per

provocare, che egli era Michele Kohlhaas, il mercanti di cavalli, che

già Lutero gridava: "Via, lontano da me!", aggiungendo, mentre si

alzava dal leggìo, e si precipitava verso un campanello: "Il tuo alito

è peste, la tua vicinanza è perdizione!".

Kohlhaas disse, mentre, senza muoversi dal suo posto, tirava fuori la

pistola: "Reverendo signore, questa pistola, se voi toccate il

campanello, mi stenderà senza vita ai vostri piedi! Sedetevi, e

ascoltatemi; fra gli angeli dei quali trascrivete i salmi non siete

più sicuro che vicino a me".

Lutero, sedendosi, gli chiese: "Che vuoi?".

"Confutare", rispose Kohlhaas, "la vostra opinione di me, che io sia

un uomo ingiusto! Mi avete detto, nel vostro manifesto, che la mia

autorità non sa niente della mia causa: ebbene, procuratemi un

salvacondotto, e io andrò a Dresda, e gliela sottoporrò".

"Uomo empio e spaventevole!", esclamò Lutero, confuso e

tranquillizzato insieme da quelle parole. "Chi ti ha dato il diritto

di aggredire, eseguendo una tua arbitraria ingiunzione, il barone di

Tronka, e, non avendolo trovato nel suo castello, di mettere a ferro e

fuoco la comunità intera che lo difende?".

"Reverendo signore", rispose Kohlhaas, "nessuno, finora! Una notizia

che ricevetti da Dresda mi ha tratto in inganno, e fuorviato! La

guerra che conduco contro la comunità degli uomini è un delitto, se è

vero che io, come voi mi avete assicurato, non ne sono stato

ripudiato".

"Ripudiato!", gridò Lutero, guardandolo. "Quale pensiero folle ti ha

preso? Chi ti avrebbe ripudiato dalla comunità dello Stato nel quale

vivevi? Dove si ebbe mai, da quando esistono Stati, che qualcuno,

chiunque egli fosse, sia stato da esso ripudiato?".

"Ripudiato", rispose Kohlhaas, stringendo a pugno la mano, "chiamo

colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa

protezione, per la prosperità del mio pacifico commercio, io ho

bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto quello che

mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi

ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, potete forse

negarlo?, la clava che mi protegge".

"Chi ti ha negato la protezione delle leggi?", gridò Lutero. "Non ti

scrissi che dell'accusa che avevi presentato il sovrano, al quale

l'avevi presentata, non sa niente? Se i servitori di Stato, alle sue

spalle, annullano i processi, o si fanno altrimenti beffe, a sua

insaputa, del suo nome consacrato, chi, tranne Dio, può chiedergli

conto della scelta di simili servitori, e sei tu, uomo orribile e

maledetto da Dio, autorizzato a giudicarlo per questo?".

"Ebbene", disse allora Kohlhaas, "se il sovrano non mi ripudierà,

anch'io ritornerò nella comunità che da lui è difesa. Procuratemi, lo

ripeto, un salvacondotto per Dresda: e io scioglierò la gente che ho

raccolto nel castello di Lutzen, e presenterò di nuovo, davanti al

tribunale di Stato, l'accusa che mi è stata respinta".

Lutero, con aria contrariata, scompigliò le carte che aveva sullo

scrittoio, e tacque. L'atteggiamento di sfida allo Stato che

quell'uomo strano assumeva lo contrariava, e, ripensando

all'ingiunzione che egli, da Pontekohlhaas, aveva emanato contro il

barone, gli chiese che cosa pretendesse, insomma, dal tribunale di

Dresda.

"La punizione del barone, conforme alla legge", rispose Kohlhaas; "il

ristabilimento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento

del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano, caduto a Muhlberg,

abbiamo subìto, a causa della violenza commessa contro di noi".

"Il risarcimento del danno!", gridò Lutero. "Somme a migliaia, da

ebrei e da cristiani, su tratte e su pegni, hai preso a prestito, per

far fronte alle spese della tua selvaggia vendetta. Metterai nel conto

anche il loro valore, se si farà l'inchiesta?".

"Dio ne scampi!", rispose Kohlhaas. "Casa e podere, e l'agiatezza che

è stata mia, io non li richiedo; e neppure le spese del funerale di

mia moglie! La vecchia madre di Ersiano farà un conto delle spese per

la sua cura, e un elenco delle cose che suo figlio perse nel castello

di Tronka; e il danno che io ho subìto per la mancata vendita dei

morelli lo faccia valutare il governo, per mezzo di un esperto".

"Uomo folle, incomprensibile e spaventoso!", disse Lutero, e lo fissò.

"Dopo che la tua spada si è presa sul barone la vendetta più feroce

che si possa immaginare, che cosa ti spinge a insistere su una

sentenza il cui rigore, quando fosse, alla fine, pronunciata, lo

colpirebbe con un peso di così scarso rilievo?".

"Reverendo signore", replicò Kohlhaas, mentre una lacrima gli rigava

le guance, "mi è costata mia moglie; Kohlhaas farà vedere al mondo che

non è morta in una causa ingiusta. Adattatevi, su questo, alla mia

volontà, e fate che la corte pronunci la sua sentenza; in tutto il

resto, su cui possa ancora esservi contesa, io mi adatterò alla

vostra".

"Vedi", disse Lutero, "quello che tu chiedi, se davvero le circostanze

sono come la voce pubblica le riferisce, è giusto, e se tu avessi

saputo portare la lite, prima di passare arbitrariamente alla vendetta

privata, fino alla decisione del principe, la tua richiesta, non ho

dubbi, ti sarebbe stata accolta punto per punto. Ma, ben considerata

ogni cosa, non avresti fatto meglio, se tu, per amore del tuo

Redentore, avessi perdonato il barone, avessi preso per la cavezza i

morelli, secchi e sfiniti com'erano, fossi salito in sella e avessi

cavalcato fino a casa tua, a ingrassarli nelle tue stalle di

Pontekohlhaas?".

"Forse sì", rispose Kohlhaas, avvicinandosi alla finestra; "forse sì,

e forse no! Se avessi saputo che mi sarebbe toccato rimetterli in

piedi con il sangue e il cuore della mia cara moglie, forse sì, avrei

fatto come dite voi, reverendo signore, e non sarei stato a guardare

uno staio di avena! Ma poiché, ormai, mi sono venuti a costare tanto,

le cose vadano, così la penso, per il loro verso: lasciate che sia

pronunciata la sentenza che mi spetta, e che il barone mi ingrassi i

morelli".

Lutero, mettendo, tra vari pensieri, di nuovo le mani tra le sue

carte, disse che avrebbe avviato per lui una trattativa con il

principe Elettore. Intanto, che egli restasse tranquillo nel castello

di Lutzen; se il principe avesse consentito al salvacondotto, glielo

si sarebbe fatto sapere per via di pubblici manifesti. "A dire il

vero", continuò, mentre Kohlhaas si chinava per baciargli la mano, "se

l'Elettore vorrà usare clemenza, anziché giustizia, non so; poiché ha

raccolto, ho saputo, un esercito, ed è in procinto di coglierti nel

castello di Lutzen; ma nel frattempo, come ti ho già detto, non

risparmierò i miei sforzi". E con queste parole si alzò, mostrando di

volerlo congedare.

Kohlhaas disse che la sua intercessione lo tranquillizzava

completamente, su quel punto; al che Lutero lo salutò con la mano, ma

egli, improvvisamente, piegò un ginocchio davanti a lui, e disse di

avere ancora una preghiera sul cuore. A Pentecoste, infatti, quando

era solito accostarsi alla mensa del Signore, egli, a causa di quella

sua impresa guerresca, non era andato in chiesa: voleva avere la

compiacenza di ricevere, senza altra preparazione, la sua confessione,

e impartirgli, in cambio, il beneficio del santo sacramento?

Lutero, dopo una breve riflessione, lo fissò severamente e disse: "Sì,

Kohlhaas, lo farò. Ma il Signore, del quale desideri il corpo, perdonò

il suo nemico. Vuoi tu", aggiunse, mentre egli lo guardava turbato,

"perdonare allo stesso modo il barone che ti ha offeso: andare al

castello di Tronka, montare sui tuoi morelli, e portarteli a casa a

Pontekohlhaas, per ingrassarli?".

"Reverendo signore", disse Kohlhaas arrossendo, e gli prese la mano.

"Ebbene?".

"Neppure il Signore perdonò tutti i suoi nemici. Lasciate che io

perdoni i due principi Elettori, miei sovrani, il castaldo e il

fattore, i signori Enzo e Corrado, e chiunque altro mi abbia offeso in

questa circostanza: ma che, se è possibile, io costringa il barone a

farmi tornare grassi i morelli".

A queste parole Lutero gli girò, con uno sguardo dispiaciuto, le

spalle, e tirò il campanello. Kohlhaas, mentre un domestico, da esso

chiamato, si annunciava, portando una lampada, nell'anticamera, si

alzò confuso da terra, asciugandosi gli occhi; e poiché il domestico,

essendo tirato il catenaccio, si affaccendava invano alla porta,

mentre Lutero si era di nuovo seduto davanti alle sue carte, Kohlhaas

aprì la porta a quell'uomo. Lutero, lanciando un breve sguardo, di

lato, al forestiero, disse al domestico: "Fa' luce!", e questi, un po'

sorpreso da quel visitatore, verso il quale lanciò un'occhiata, staccò

dalla parete la chiave di casa, e, aspettando che l'ospite se ne

andasse, si ritirò nel vano della porta semiaperta.

"E così, signore reverendissimo", disse Kohlhaas, tenendo il cappello

con tutte e due le mani, che tremavano, "non mi può essere impartito

il beneficio della riconciliazione, che vi ho supplicato di

concedermi?".

"Con il tuo Salvatore, no", rispose brevemente Lutero; "con il tuo

sovrano... questo dipenderà dal tentativo che ti ho promesso!". E con

ciò fece al domestico il cenno di eseguire, senz'altro indugio,

l'incarico che gli aveva affidato. Kohlhaas si portò, con

un'espressione di dolore, le mani al petto, seguì l'uomo, che gli

faceva lume giù per le scale, e scomparve.

Il mattino dopo Lutero inviò una lettera al principe Elettore di

Sassonia, nella quale, dopo un'amara allusione ai signori Enzo e

Corrado di Tronka, ciambellano e coppiere addetti alla sua persona, i

quali, come a tutti era noto, avevano intercettato la querela,

dichiarava al sovrano, con la franchezza che gli era propria, che in

così spiacevoli circostanze non restava altro da fare che accogliere

la proposta del mercante di cavalli, e concedergli, al fine di

riaprire il suo processo, l'amnistia per quanto era accaduto.

L'opinione pubblica, osservava, era pericolosamente incline a prendere

le parti di quell'uomo, tanto che persino a Vittemberga, da lui tre

volte incendiata, si alzavano voci in suo favore; e poiché

immancabilmente, nel caso fosse stata respinta, egli avrebbe portato

la sua offerta, con odiosi commenti, a conoscenza del popolo, questo

avrebbe facilmente potuto essere sobillato tanto che, con la forza

dello Stato, niente più si sarebbe potuto intraprendere contro di lui.

E concludeva che, in quel caso fuori dell'ordinario, bisognava passare

sopra lo scrupolo di aprire una trattativa con un cittadino che aveva

impugnato le armi; egli, in effetti, per colpa dei procedimenti

seguiti contro di lui, era stato posto, in certo modo, al di fuori del

consorzio statale; e, in breve, per uscire da quella situazione,

bisognava considerarlo più come una potenza straniera, come, in un

certo senso, il suo stesso essere forestiero lo qualificava, penetrata

nel paese, che come un ribelle sollevatosi contro il trono.

Il principe Elettore ricevette questa lettera proprio mentre il

principe Cristiano di Meissen, generalissimo dell'Impero, zio del

principe Federico di Meissen, battuto a Muhlberg, e ancora a letto per

le ferite, il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, il conte

Kallheim, presidente della Cancelleria di Stato, e i due signori Enzo

e Corrado di Tronka, ciambellano questi, coppiere l'altro, amici

d'infanzia e confidenti entrambi del sovrano, erano presenti a

palazzo. Il ciambellano, il nobile Corrado, che, in qualità di

consigliere segreto, sbrigava la corrispondenza privata del principe,

con facoltà di servirsi del suo nome e del suo sigillo, prese per

primo la parola, e, dopo aver spiegato ancora una volta, per filo e

per segno, che mai e poi mai egli avrebbe messo da parte, di propria

iniziativa, la querela che il mercante di cavalli aveva sporto presso

il Tribunale contro il barone, suo cugino, se, ingannato da false

informazioni, non l'avesse ritenuta una bega oziosa e priva di

qualunque fondamento, arrivò a parlare della situazione attuale.

Osservò che né in base alle leggi divine né in base a quelle umane il

mercante di cavalli era autorizzato a prendersi, per quello sbaglio,

una vendetta personale tanto mostruosa come quella che si era

permesso; descrisse la gloria che una trattativa con lui, come se

fosse stato una potenza militare in piena regola, avrebbe fatto cadere

sul suo capo maledetto da Dio; e la vergogna che ne sarebbe ricaduta

sulla sacra persona del principe gli sembrò così insopportabile, che,

nella foga della sua perorazione, affermò che avrebbe preferito

soffrire l'estremo, e vedere eseguita l'ordinanza del pazzo ribelle, e

il barone, suo cugino, portato a Pontekohlhaas, a ingrassare i

morelli, piuttosto di sapere che era stata accettata la proposta del

dottor Lutero.

Il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, espresse, rivolto a

metà verso di lui, il proprio dispiacere per il fatto che una così

delicata sollecitudine, come quella che egli mostrava, per il buon

nome del sovrano, nella conclusione di quella faccenda, certamente

incresciosa, non l'avesse ispirato fin dal momento del suo inizio.

Egli espose all'Elettore le sue riserve a fare ricorso alla forza

dello Stato per dare esecuzione a una misura chiaramente ingiusta;

osservò, con una significativa allusione al grande seguito che il

mercante di cavalli continuava a incontrare nel paese, che in questo

modo il filo dei delitti minacciava di dipanarsi all'infinito; e

dichiarò che solo una schietta azione di giustizia, che desse,

immediatamente e senza riguardi, riparazione all'errore al quale era

stato colpevolmente dato corso avrebbe potuto strapparlo, e tirar

fuori felicemente il governo da quel brutto impiccio.

Il principe Cristiano di Meissen, richiesto dal sovrano di dire che

cosa pensasse di tutto ciò, affermò, rivolgendosi con deferenza verso

il Gran Cancelliere, che la linea di pensiero da lui esposta gli

ispirava, sì, il massimo rispetto; ma, volendo aiutare Kohlhaas a

ottenere i suoi diritti, egli non rifletteva che così veniva a ledere

Vittemberga e Lipsia, e tutto il paese da lui devastato, nella giusta

pretesa di un risarcimento dei danni, o almeno della loro punizione.

L'ordinamento dello Stato era, in rapporto a quell'uomo, così

sconvolto, che difficilmente lo si sarebbe potuto raddrizzare con un

principio fatto derivare dalla scienza del diritto. Perciò egli era

del parere, secondo l'opinione del ciambellano, di fare ricorso ai

mezzi previsti per questi casi: radunare un esercito di grandezza

sufficiente, e con esso sloggiare o schiacciare il mercante di cavalli

che si era insediato a Lutzen.

Il ciambellano, mentre toglieva dalla parete due sedie, per lui e per

l'Elettore, e le sistemava con fare premuroso al centro della stanza,

disse di rallegrarsi che un uomo della sua probità e intelligenza

fosse d'accordo con lui sui mezzi per risolvere l'intricata questione.

Il principe, tenendo ancora, senza sedersi, la mano appoggiata sulla

sedia, e guardandolo fisso, gli assicurò che non aveva nessun motivo

di rallegrarsi per questo: poiché la misura necessariamente collegata

a questo era di spiccare, prima, un ordine di cattura contro di lui, e

metterlo sotto processo per abuso del nome del sovrano. Poiché, se la

necessità esigeva di calare il velo, davanti al trono della giustizia,

su una serie di delitti che, continuando a perdita d'occhio, non

trovavano ormai posti sufficienti per comparire davanti al suo

tribunale, questo non valeva per il primo, che li aveva causati; e

solo un'accusa capitale portata contro di lui avrebbe potuto

autorizzare lo Stato a schiacciare il mercante di cavalli, la causa

del quale era, come noto, più che giusta, e al quale essi stessi

avevano messo in mano la spada che brandiva. Il principe, mentre a

queste parole il barone lo guardava sgomento, si girò, facendosi rosso

su tutto il viso, e andò alla finestra.

Il conte Kallheim, dopo una pausa d'imbarazzo generale, disse che in

quella maniera non si usciva dal cerchio stregato di cui erano

prigionieri. Con lo stesso diritto si sarebbe potuto mettere sotto

processo il nipote del Generalissimo, il principe Federico; poiché

anche lui, nel corso della poco ortodossa campagna intrapresa contro

Kohlhaas, aveva in vari modi travalicato le istruzioni ricevute: di

modo che, se si fosse voluto fare l'elenco della lunga schiera di

quelli che avevano causato l'imbarazzante situazione in cui ci si

trovava, anch'egli sarebbe stato del numero, e il sovrano avrebbe

dovuto chiedergli conto di ciò che era avvenuto presso Muhlberg.

Il coppiere, il nobile Enzo di Tronka, mentre il principe, con sguardi

indecisi, andava verso il suo tavolo, prese la parola, e disse di non

capire come la decisione di Stato che doveva essere adottata potesse

sfuggire a uomini di tanta saggezza, come quelli lì riuniti. Il

mercante di cavalli, a quanto gli risultava, aveva promesso, in cambio

di un semplice salvacondotto per Dresda, e di una nuova indagine sulla

sua causa, di sciogliere la banda con la quale era penetrato nel

paese. Non ne seguiva, però, che gli si dovesse concedere l'amnistia

per la sua delittuosa vendetta personale: due concetti giuridici che

tanto il dottor Lutero quanto il Consiglio di Stato sembravano

confondere. "Quando", proseguì, toccandosi il naso con il dito, "il

Tribunale di Dresda avrà pronunciato, non importa come, la sentenza a

proposito dei morelli, niente impedirà di gettare Kohlhaas in prigione

per i suoi incendi e le rapine: soluzione politicamente opportuna, che

unisce i vantaggi di quelle dei due statisti che mi hanno preceduto, e

alla quale non potrà mancare il plauso dei contemporanei e dei

posteri".

Il principe Elettore, poiché sia egli, sia il Gran Cancelliere avevano

risposto solo con uno sguardo a questo discorso del coppiere, il

nobile Enzo, e con ciò la discussione sembrava terminata, disse che

avrebbe riflettuto per conto suo, fino alla prossima seduta del

Consiglio di Stato, sulle diverse opinioni che gli erano state

esposte. Sembrava che la misura preliminare da lui stesso suggerita

gli avesse tolto dal cuore, molto sensibile all'amicizia, la voglia di

mettere in atto la spedizione contro Kohlhaas, per la quale tutto era

già pronto. In ogni caso, trattenne presso di sé il Gran Cancelliere,

conte Wrede, la cui opinione gli sembrava la più praticabile; e,

quando questi gli ebbe mostrato delle lettere dalle quali risultava

che, in effetti, le forze del mercante di cavalli erano già cresciute

a quattrocento uomini, e anzi, per via della generale scontentezza

che, a causa delle prevaricazioni del ciambellano, regnava nel paese,

egli avrebbe potuto in breve contare su forze raddoppiate e

triplicate, il principe Elettore si decise, senza ulteriori

esitazioni, ad accettare il consiglio che il dottor Lutero gli aveva

dato. Affidò dunque al conte Wrede tutta la direzione dell'affare

Kohlhaas e già pochi giorni dopo compariva un manifesto, del quale

riassumiamo l'essenziale nel modo seguente:

"Noi, eccetera, eccetera, Principe Elettore di Sassonia, concediamo,

avendo preso in particolare e benigna considerazione l'intercessione

del dottor Martin Lutero presso di Noi, a Michele Kohlhaas, mercante

di cavalli del Brandeburgo, a condizione che, entro tre giorni dalla

visione della presente, abbia deposto le armi da lui impugnate, il

salvacondotto per recarsi a Dresda, al fine di replicare l'esame della

sua causa: affinché, nel caso in cui, come non è da attendersi, il

Tribunale di Dresda respinga la sua querela, a proposito dei morelli,

si proceda contro di lui, a causa della sua arbitraria impresa di

farsi giustizia da sé, con tutta la severità della legge; ma, nel caso

contrario, sia concessa a lui e a tutta la sua banda grazia in luogo

di giustizia, e completa amnistia per le violenze da lui commesse in

Sassonia".

Kohlhaas, non appena ebbe ricevuto, per mezzo del dottor Lutero, un

esemplare di quel manifesto, che era stato affisso in tutte le piazze

del paese, sciolse immediatamente, per quanto condizionate fossero le

espressioni in esso contenute, tutta la sua banda, con regali,

ringraziamenti e raccomandazioni opportune. Depose tutto quello che

aveva predato, denaro, armi e masserizie, presso il tribunale di

Lutzen, come proprietà del principe Elettore; e, dopo aver inviato

Waldmann a Pontekohlhaas, dal balivo, con una sua lettera, per il

riacquisto, se era possibile, della sua fattoria, e Sternbald a

Schwerin, a riprendere i suoi bambini, che desiderava avere di nuovo

con sé, lasciò il castello di Lutzen, e, in incognito, portandosi

dietro, sotto forma di documenti, il resto del suo piccolo patrimonio,

andò a Dresda.

Spuntava il giorno, e tutta la città dormiva ancora, quando egli bussò

alla porta della sua piccola proprietà nel sobborgo di Pirna, che

grazie all'onestà del balivo gli era rimasta, e disse a Tommaso, il

vecchio portiere al quale era affidata, che gli aveva aperto con

stupore e sgomento, di andare al palazzo del Governo e annunciare al

principe di Meissen che egli, Kohlhaas, il mercante di cavalli, era

arrivato. Il principe di Meissen, che, a questo annuncio, ritenne

opportuno informarsi immediatamente di persona della situazione nella

quale ci si trovava, riguardo a quell'uomo, trovò le strade che

portavano all'abitazione di Kohlhaas, quando, poco tempo dopo, vi

apparve, con il suo seguito di cavalieri e di fanti, già gremite, a

perdita d'occhi, dalla folla radunata. La notizia che era arrivato

l'Angelo sterminatore, che cacciava gli oppressori del popolo col

ferro e col fuoco, aveva richiamato tutta Dresda, città e sobborghi;

si dovette sbarrare il portone di casa davanti alla folla dei curiosi

che premeva, e i ragazzi si arrampicarono fino alle finestre, per

vedere coi loro occhi l'incendiario che faceva colazione.

Non appena il principe, con l'aiuto delle guardie, che gli facevano

largo, riuscì a entrare in casa, e giunse nella stanza di Kohlhaas,

chiese all'uomo che stava in piedi vicino a un tavolo, in maniche di

camicia, se fosse Kohlhaas, il mercante di cavalli; al che Kohlhaas,

tirando fuori dalla cintura un portafogli con varie carte, che

attestavano la sua identità, e porgendoglielo rispettosamente, rispose

di sì, e aggiunse di esser venuto, dopo aver sciolto le sue truppe, a

Dresda, secondo l'immunità concessagli dal sovrano, per sporgere

davanti al tribunale la sua querela, a proposito dei morelli, contro

il barone Venceslao di Tronka. Il principe, dopo un rapido sguardo,

con il quale lo squadrò da capo a piedi, diede una scorsa alle carte

che si trovavano nel portafogli; si fece spiegare da lui che cosa

volesse dire una ricevuta che vi trovò, redatta dal tribunale di

Lutzen, a proposito dei beni depositati a beneficio del tesoro

dell'Elettore; e, dopo aver ulteriormente saggiato con domande di

varie specie, sui suoi bambini, il suo patrimonio e la vita che

pensava di condurre in futuro, che tipo di uomo fosse, e averlo

trovato sotto ogni punto di vista tale che si poteva essere tranquilli

sul suo conto, gli restituì le carte e gli disse che niente si

opponeva al suo processo, e che, per avviarlo, si rivolgesse pure

direttamente al Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede.

"Nel frattempo", disse il principe dopo una pausa, avvicinandosi alla

finestra e osservando con stupore il popolo radunato davanti alla

casa, "dovrai, per i primi giorni, accettare una scorta che ti

protegga, sia in casa tua, sia quando esci".

Kohlhaas, turbato, guardava a terra davanti a sé, e taceva. Il

principe disse: "Fa lo stesso!", e lasciò la finestra. "Di ciò che

sarà, dovrai fare carico a te stesso"; e con ciò si girò verso la

porta, con l'intenzione di lasciare la casa.

Kohlhaas, che aveva riflettuto, disse: "Vostra Grazia, fate ciò che

volete. Datemi la vostra parola di ritirare la scorta, non appena io

lo desideri, e non avrò niente da obbiettare circa questo

provvedimento".

Il principe replicò che non c'era bisogno di dirlo; e, dopo aver

spiegato a tre lanzi, che gli erano stati presentati a quello scopo,

che l'uomo nella casa del quale si trattenevano era libero, e che solo

per sua difesa dovevano, quando usciva, seguirlo, salutò il mercante

di cavalli con un cenno condiscendente della mano, e si allontanò.

Verso mezzogiorno Kohlhaas, accompagnato dai suoi tre lanzi, e seguito

da una folla sterminata che, tuttavia, messa sull'avviso dalla

polizia, non gli fece nessun male, andò dal Gran Cancelliere del

tribunale, conte Wrede. Il Gran Cancelliere, che lo ricevette

gentilmente e con indulgenza nella sua anticamera, si intrattenne con

lui per due ore intere; e, dopo essersi fatto raccontare dal principio

alla fine come si erano svolte le cose, gli disse di rivolgersi, per

l'immediata stesura e presentazione della querela, a un noto avvocato

cittadino, che esercitava presso il tribunale. Kohlhaas, senza

ulteriori indugi, andò nell'abitazione di questi; e dopo che la

querela fu redatta, in tutto e per tutto uguale alia prima che era

stata cassata, chiedendo la punizione del barone secondo le leggi, la

reintegrazione dei cavalli nello stato precedente e il risarcimento

dei danni suoi propri, e anche di quelli subiti dal suo servo Ersiano,

caduto presso Muhlberg, a favore della vecchia madre, fece,

accompagnato dalla folla, che continuava a guardarlo con tanto

d'occhi, ritorno a casa, ben deciso a non lasciarla più, a meno che

non fosse chiamato da affari improcrastinabili.

Nel frattempo anche il barone era stato rilasciato dalla sua custodia,

a Vittemberga, e, dopo essere guarito da una pericolosa risipola, che

gli aveva infiammato un piede, aveva ricevuto dal tribunale dello

Stato l'ingiunzione perentoria di presentarsi a Dresda, per rispondere

dell'accusa, sollevata contro di lui dal mercante di cavalli Kohlhaas,

di avere illegalmente trattenuto e sfiancato i suoi morelli. I due

fratelli, il ciambellano e il coppiere di Tronka, cugini del barone e

feudatari come lui, che prese alloggio da loro, lo ricevettero pieni

di indignazione e di disprezzo; lo chiamarono sciagurato, buono a

nulla, vergogna e disonore di tutta la famiglia, gli annunciarono che,

ormai, avrebbe perduto senza alcun dubbio il processo, e lo invitarono

a darsi da fare per rintracciare subito i morelli, poiché, fra le

risate di scherno del mondo, sarebbe stato condannato a ingrassarli.

Il barone disse, con voce debole e tremante, di essere l'uomo più

miserevole di questo mondo. Giurò e spergiurò di aver saputo

pochissimo di tutta la sventurata faccenda, che lo stava portando alla

rovina, e che di tutto avevano colpa il castaldo e il fattore, che, a

sua completa insaputa, e senza l'ombra del suo consenso, avevano usato

i cavalli per il raccolto, e con fatiche eccessive, in parte sui loro

stessi campi li avevano sfiancati. E, così dicendo, si sedette,

pregandoli di non farlo ricadere di proposito, con le insinuazioni e

le offese, nella malattia dalla quale si era appena riavuto.

Il giorno dopo i signori Enzo e Corrado, che avevano dei possedimenti

nella regione del castello incendiato di Tronka, su preghiera del

barone loro cugino, poiché non restava altro da fare, scrissero ai

loro affittuari e amministratori che si trovavano in zona, per

ottenere notizie dei morelli che quel giorno disgraziato erano andati

perduti, e che erano da allora del tutto svaniti. Ma tutto quello che,

a causa della completa devastazione del posto, e della strage di quasi

tutti gli abitanti, poterono venire a sapere fu che un servo, spinto a

piattonate dall'incendiario, li aveva tratti in salvo dalla baracca in

fiamme in cui si trovavano, ma in seguito, avendo chiesto dove dovesse

portarli, e che dovesse fare di loro, da quell'uomo sanguinario e

feroce aveva ricevuto una pedata per tutta risposta. La vecchia

governante del barone, tormentata dalla gotta, che si era rifugiata a

Meissen, interrogata per lettera assicurò al barone che il servo, il

mattino dopo quella notte di orrore, era andato con i cavalli verso il

confine del Brandeburgo; ma tutte le indagini fatte laggiù furono

vane, e quella notizia sembrò basata su un errore, poiché il barone

non aveva nessun servo che abitasse nel Brandeburgo, e neppure lungo

la strada che vi portava. Alcuni uomini di Dresda, che erano stati a

Wilsdruf pochi giorni dopo l'incendio dei castello di Tronka,

raccontarono che, più o meno nel periodo indicato, vi era giunto un

servo che tirava due cavalli per la cavezza, e, poiché le bestie erano

assai mal ridotte, e non avrebbero potuto proseguire, le aveva

lasciate nella stalla di un pecoraio, che era disposto a rimetterle in

piedi. Sembrava molto probabile, per varie ragioni, che si trattasse

proprio dei morelli oggetto dell'inchiesta; ma il pastore di Wilsdruf,

così assicuravano alcuni viaggiatori che giungevano da lì, li aveva di

nuovo rivenduti, non si sapeva a chi; e una terza diceria, di cui non

si riuscì a scoprire la fonte, diceva persino che i cavalli avessero

reso l'anima a Dio, e fossero sepolti nella fossa di Wilsdruf.

I signori Enzo e Corrado, per i quali questa piega degli avvenimenti

era, come è facile capire, la più gradita, dal momento che veniva a

liberarli, mancando al barone loro cugino una stalla propria, dalla

necessità di nutrire i morelli nelle loro, volevano tuttavia, per

essere pienamente sicuri, accertare la circostanza. Il barone

Venceslao di Tronka mandò perciò uno scritto, nella sua qualità di

titolare del feudo, con diritti giurisdizionali, al tribunale di

Wilsdruf, in cui lo pregava con il massimo zelo, dopo una minuziosa

descrizione dei morelli che come egli diceva, gli erano stati

affidati, ed erano andati smarriti per un incidente, di fare indagini

sul posto dove ora si trovassero, e di intimare al proprietario,

chiunque fosse, di farli recapitare, dietro generoso rimborso di tutte

le spese, nelle stalle del ciambellano, il nobile Corrado, a Dresda.

In seguito a ciò, pochi giorni dopo, comparve davvero l'uomo al quale

il pastore di Wilsdruf li aveva ceduti, e li portò, secchi e

vacillanti, legati al montante del suo carro, sulla piazza del mercato

della città; ma la cattiva sorte del nobile Venceslao, e ancor più

dell'onesto Kohlhaas, volle che egli fosse lo scortichino di Dobbeln.

Non appena il nobile Venceslao, alla presenza del ciambellano suo

cugino, venne a sapere, da voci vaghe, che era arrivato in città un

uomo con due cavalli neri, scampati all'incendio del castello di

Tronka, tutti e due si recarono accompagnati da alcuni servi radunati

in fretta nella casa, sulla piazza principale, dove l'uomo si trovava,

per rilevarli, nel caso fossero quelli appartenenti a Kohlhaas, previo

rimborso delle spese, e portarli a casa. Ma quale fu l'imbarazzo dei

due nobili quando videro già, intorno al carro al quale erano legate

le bestie, un mucchio di persone, attratte dallo spettacolo, che

andavano crescendo di momento in momento e gridavano le une alle

altre, fra sonore risate, che ormai i cavalli che avevano fatto

tremare lo Stato erano finiti nelle mani dello scortichino!

Il barone, che aveva fatto il giro del carretto, e aveva osservato

quelle povere bestie, che sembravano dover morire da un momento

all'altro, disse, imbarazzato, che non erano i cavalli che aveva

ritirato a Kohlhaas; ma il nobile Corrado, il ciambellano,

lanciandogli un'occhiata piena di muto furore, che, se fosse stata di

ferro, lo avrebbe schiacciato, andò, gettando indietro il mantello, e

scoprendo il collare e le insegne del suo grado, vicino allo

scortichino, e gli chiese se si trattava dei morelli che il pastore di

Wilsdruf si era tenuto, e che il barone Venceslao di Tronka, al quale

appartenevano, aveva fatto cercare per mezzo del tribunale.

Lo scortichino, che, con un secchio d'acqua in mano, era occupato a

dar da bere a uno stallone grosso e ben pasciuto, che tirava il

barroccio, disse: "I neri?", tolse al cavallo, dopo aver posato il

secchio a terra, il morso di bocca, e disse che i morelli legati al

montante glieli aveva venduti il porcaro di Hainichen. Di dove quello

li avesse avuti, e se venissero dal pecoraio di Wilsdruf, lui non lo

sapeva. A lui, disse riprendendo il secchio, appoggiandolo contro la

stanga e tenendolo fermo col ginocchio, a lui il messo del tribunale

di Wilsdruf aveva detto di portarli a Dresda, a casa di quelli di

Tronka; ma il barone al quale doveva rivolgersi si chiamava Corrado. E

a queste parole si girò, rovesciando sul selciato della strada l'acqua

che il suo cavallo aveva avanzato nel secchio.

Il ciambellano, sul quale erano beffardamente puntati tutti gli occhi

della folla, e che non riusciva a ottenere da quell'uomo, intento, con

zelo imperturbabile, alle sue faccende, di farsi guardare in faccia,

disse di essere lui il ciambellano, Corrado di Tronka; i morelli che

egli doveva ritirare appartenevano, però, a suo cugino; erano arrivati

al pecoraio di Wilsdruf per mezzo di un servo, che era fuggito in

occasione dell'incendio del castello di Tronka; ma originariamente

erano due cavalli di proprietà del mercante di cavalli Kohlhaas! Egli

chiese all'uomo, che stava a gambe larghe, e si tirava su i pantaloni,

se non sapesse niente di tutto questo; e se il porcaro di Hainichen

non se li fosse magari procurati, tutto dipendeva da questa

circostanza, dal pecoraio di Wilsdruf, oppure da un terzo, che a sua

volta li aveva acquistati da lui.

Lo scortichino, che, messosi contro il carro, vi aveva fatto un po'

d'acqua, disse che gli era stato ordinato di venire a Dresda con i

morelli, e di andare a prendere in casa di quelli di Tronka il denaro

che in cambio gli spettava. Di quel che gli andava raccontando, lui

non capiva niente; e se prima del porcaro di Hainichen li aveva avuti

Tizio, o Caio, o il pecoraio di Wilsdruf, questo per lui, dal momento

che non erano rubati, era uguale. E con questo si diresse, gettatasi

la frusta di traverso sulle ampie spalle, verso una bettola che si

trovava sulla piazza, col proposito, affamato com'era, di mangiare un

boccone. Il ciambellano, che non sapeva che farsene dei cavalli che il

porcaro di Hainichen aveva venduto allo scortichino di Dobbeln, se non

erano quelle le bestie sulle quali il diavolo cavalcava per la

Sassonia, chiese al barone di pronunciarsi; ma quando costui, con

labbra pallide e tremanti, ebbe detto che la cosa più consigliabile

era comprare i morelli, che appartenessero a Kohlhaas oppure no, il

ciambellano maledisse il padre e la madre che l'avevano messo al mondo

e, tiratosi giù il mantello del tutto incerto su ciò che bisognava

fare o non fare, uscì dalla ressa. Chiamò il barone di Wenk, suo

conoscente, che passava a cavallo per la strada, e, ostinandosi a non

lasciare la piazza, proprio perché la marmaglia lo fissava con

scherno, e, premendosi i fazzoletti sulla bocca, sembrava non

aspettare altro che se ne andasse per scoppiare in risate, lo pregò di

scendere dal Gran Cancelliere, conte Wrede, e, tramite lui, far venire

laggiù Kohlhaas, a esaminare i morelli.

Capitò che Kohlhaas, mandato a chiamare da un messo del tribunale, si

trovasse appunto nella stanza del Gran Cancelliere, per via di certe

spiegazioni che gli erano state richieste a proposito del deposito di

Lutzen, quando il barone di Wenk fu introdotto presso di lui con

l'incarico che sappiamo; e, mentre il Gran Cancelliere si alzava dalla

poltrona con il viso contrariato, e il mercante di cavalli, la cui

persona era sconosciuta al barone, rimaneva in disparte, con le carte

che teneva in mano, questi riferì l'imbarazzante situazione in cui si

trovavano i signori di Tronka. Lo scortichino di Dobbeln, a causa di

indagini troppo sommarie del tribunale di Wilsdruf, era comparso con

dei cavalli in condizioni così disperate, che il barone Venceslao

esitava a riconoscerli come quelli appartenenti a Kohlhaas; e di

conseguenza, se si volevano rilevare lo stesso dallo scortichino, per

fare il tentativo di rimetterli in forze nelle stalle dei cavalieri,

era prima necessaria un'ispezione oculare da parte di Kohlhaas, per

eliminare ogni dubbio dalla suddetta circostanza. "Abbiate pertanto la

bontà", concluse, "di mandare a prendere da una scorta il mercante, e

farlo portare al mercato, dove si trovano i cavalli".

Il Gran Cancelliere, togliendosi gli occhiali dal naso, rispose che

egli era incorso in un duplice errore: in primo luogo, se riteneva che

la circostanza in questione non si potesse accertare in altro modo, se

non con un'ispezione oculare del Kohlhaas; e poi se immaginava che

egli, il Cancelliere, fosse autorizzato a far portare Kohlhaas da una

scorta dovunque piacesse al barone. Quindi gli presentò il mercante,

che era in piedi alle sue spalle, e lo pregò, sedendosi e rimettendosi

gli occhiali, di rivolgersi direttamente a lui per quella faccenda.

Kohlhaas, il cui viso non dava a vedere niente di ciò che accadeva nel

suo cuore, disse di essere pronto a seguirlo al mercato, per esaminare

i morelli che lo scortichino aveva portato in città. Mentre il barone

si girava, confuso, verso di lui, egli si avvicinò di nuovo al tavolo

del Gran Cancelliere, e, dopo avergli dato, tirandole fuori dalle

carte del suo portafogli, una serie di informazioni riguardanti il

deposito di Lutzen, prese congedo da lui; il barone, che, rosso su

tutto il viso, si era avvicinato alla finestra, fece egualmente i suoi

rispetti; e tutti e due, accompagnati dai tre lanzi assegnati dal

principe di Meissen, si avviarono, col seguito di una gran folla,

verso la piazza principale.

Il ciambellano, il nobile Corrado, che nel frattempo, sfidando i

consigli di parecchi amici che gli si erano radunati intorno, era

rimasto fermo al suo posto, in mezzo al popolo, di fronte allo

scortichino di Dobbeln, non appena apparve il barone con il mercante

di cavalli si avvicinò a quest'ultimo, e gli chiese, tenendo la spada,

con superbia e ostentazione, sotto il braccio, se i cavalli che

stavano dietro il carro erano i suoi. Il mercante, dopo essersi tolto,

con gesto rispettoso, il cappello, di fronte al signore che gli aveva

rivolto la domanda, che lui non conosceva, si avvicinò, senza

rispondergli, seguito da tutti i cavalieri, al carretto dello

scortichino; e, dopo aver osservato di sfuggita, da una distanza di

dodici passi, dove si fermò, gli animali, che se ne stavano là sulle

gambe malferme, con le teste chine verso terra, senza toccare il fieno

che lo scortichino aveva messo loro davanti, si rivolse di nuovo al

ciambellano: "Vostra Grazia, lo scortichino ha proprio ragione; i

cavalli legati al suo barroccio mi appartengono". E con questo,

girando gli occhi tutt'intorno sul cerchio dei signori, alzò un'altra

volta il cappello e, accompagnato dalla sua scorta, lasciò la piazza.

A quelle parole il ciambellano si avvicinò a passi rapidi, che gli

fecero ondeggiare il cimiero, allo scortichino, e gli lanciò una borsa

di denaro; e mentre questi, con la borsa in mano, si ravviava i

capelli dalla fronte con un pettine di piombo, e contava i soldi, egli

ordinò a un servo di slegare i cavalli e di portarli a casa. Il servo,

che, al richiamo del padrone, si era staccato da un crocchio di amici

e parenti che aveva tra la folla, si avvicinò infatti, un po' rosso in

viso, ai cavalli, saltando una larga pozza di liquami che si era

formata accanto a loro; ma ne aveva appena toccato la cavezza, per

slegarli, quando mastro Himboldt, suo cugino, lo afferrò per un

braccio, e gridandogli: "Tu non toccherai quelle carogne!", lo

scaraventò via dal barroccio. E, saltando, con qualche esitazione, la

pozza di liquame, si girò indietro verso il ciambellano, che a

quell'incidente era rimasto senza parole, aggiungendo che doveva

procurarsi un garzone di scortichino, per fargli quel servizio!

Il ciambellano, che aveva squadrato per un momento mastro Himboldt,

schiumando di rabbia, si girò, e chiamò, al di sopra delle teste dei

cavalieri che lo circondavano, la scorta; e quando, su richiesta del

barone di Wenk, un ufficiale e alcuni armigeri del principe Elettore

furono giunti dal palazzo, esortò questi, dopo aver brevemente esposto

quali vergognose sobillazioni si permettessero i borghesi della città,

ad arrestare mastro Himboldt, il caporione. E, afferratolo per il

collo, lo accusò di aver scaraventato via dal carretto e malmenato il

suo servo, che, per suo ordine, stava slegando i morelli. Il mastro,

sfuggendo alla presa del ciambellano con un agile movimento, che lo

liberò, rispose: "Vostra Grazia! Far capire a un giovanotto di

vent'anni quel che deve fare non significa sobillarlo! Chiedetegli se,

contro l'uso e la decenza, è disposto a occuparsi dei cavalli legati

al carretto. Se è disposto a farlo, dopo quello che ho detto, sia

pure! Per quel che mi riguarda può anche squartarli e scorticarli!".

A queste parole il ciambellano si girò verso il servo, e gli chiese se

aveva qualche obiezione a eseguire il suo ordine, e a slegare i

cavalli che appartenevano a Kohlhaas e a portarli a casa; e poiché

questi rispose timidamente, cercando di confondersi fra i borghesi,

che bisognava ridare l'onore ai cavalli, prima di pretendere questo da

lui, il ciambellano gli corse dietro, gli strappò il cappello, ornato

dallo stemma della casata, e, dopo averlo calpestato, trasse dal

fodero la spada e con furibondi colpi di piatto cacciò il servo, sui

due piedi, dalla piazza e dal suo servizio. "Addosso! Buttate a terra

quell'assassino!", urlò mastro Himboldt; e, mentre i borghesi,

indignati da quella scena, stringevano le file e respingevano le

guardie, afferrò da dietro il ciambellano, lo gettò a terra, gli

strappò il mantello, l'elmo e il colletto, gli tolse di mano la spada

e la scaraventò lontano, con rabbia, attraverso la piazza. Invano il

barone Venceslao, mentre si metteva in salvo dal tumulto, gridò ai

cavalieri di correre in aiuto del cugino; prima di aver fatto un

passo, essi erano già dispersi dalla folla che premeva, così che il

ciambellano, che si era ferito alla testa cadendo, rimase

completamente in balìa del furore popolare.

Soltanto la comparsa di uno squadrone di lanzi a cavallo che passavano

per caso nella piazza, e che l'ufficiale degli armigeri del palazzo

chiamò in suo soccorso, poté salvare il ciambellano. L'ufficiale,

ricacciata la folla, afferrò l'artigiano inferocito e, mentre questi

veniva portato in prigione da alcuni soldati a cavallo, due amici

sollevarono da terra il disgraziato ciambellano, coperto di sangue, e

lo portarono a casa. Così disastroso fu l'esito dell'onesto e

benintenzionato tentativo di dare soddisfazione al mercante di cavalli

per il torto che gli era stato fatto. Lo scortichino di Dobbeln, per

il quale l'affare era concluso, e che non voleva trattenersi più a

lungo, quando la gente cominciò a disperdersi legò i cavalli a un

lampione, dove le bestie rimasero, senza che nessuno se ne curasse, a

ludibrio dei ragazzi di strada e dei perdigiorno, per tutta la

giornata; tanto che, in assenza di ogni altra cura e custodia, dovette

farsene carico la polizia, che, al calare della notte, andò a chiamare

lo scortichino di Dresda, per farli ricoverare, fino a nuove

disposizioni, nello scorticatoio fuori le mura cittadine.

Questo incidente, per quanto poco, in realtà, il mercante ne avesse

colpa, suscitò tuttavia nel paese, anche fra gli uomini migliori e più

moderati, uno stato d'animo estremamente pericoloso per il buon esito

della sua causa. Si trovava del tutto intollerabile il suo rapporto

con lo Stato e, nelle case private e sulle pubbliche piazze, si fece

strada l'opinione che fosse meglio commettere contro di lui una palese

ingiustizia, e mettere di nuovo tutto quanto a tacere, piuttosto che

rendergli una giustizia estorta con azioni violente, in una questione

così insignificante, soltanto per soddisfare la sua folle ostinazione.

E, a completare la rovina del povero Kohlhaas, lo stesso Gran

Cancelliere dovette contribuire, per eccessiva probità, e per l'odio

contro la famiglia dei Tronka che ne derivava, a confermare e a

diffondere questo stato d'animo. Era quanto mai improbabile che i

cavalli, dei quali adesso si occupava lo scortichino di Dresda,

potessero mai essere riportati allo stato in cui si trovavano quando

erano usciti dalle stalle di Pontekohlhaas; ma, ammesso pure che

questo, con estrema perizia e cure assidue, fosse possibile, la

vergogna che nelle circostanze attuali ne sarebbe ricaduta sulla

famiglia del barone era tanto grande, che, dato il peso che essa

rivestiva nello Stato e nel paese, come una delle prime e più nobili,

niente pareva più ragionevole e opportuno che cercare di procurare un

indennizzo dei cavalli in denaro. Come che fosse, a una lettera, nella

quale il presidente del tribunale, conte Kallheim, a nome del

ciambellano, trattenuto in casa dalla sua indisposizione, faceva al

Gran Cancelliere, pochi giorni dopo questa proposta, quest'ultimo

rispose sì inviando a Kohlhaas uno scritto in cui lo esortava a non

respingere una simile offerta, nel caso gli venisse fatta, ma al

presidente stesso replicò con un biglietto breve e poco cerimonioso,

in cui lo pregava di risparmiargli incarichi privati in quella

faccenda, e invitava il ciambellano a rivolgersi direttamente al

mercante di cavalli, che gli dipinse come uomo ragionevole e modesto.

Il mercante di cavalli, la cui volontà era stata realmente spezzata

dall'incidente avvenuto sulla piazza del mercato, non aspettava per

l'appunto altro, secondo il consiglio del Gran Cancelliere, che un

passo da parte del barone, o di uno dei suoi parenti, per venire loro

incontro con tutta la buona volontà, perdonando quanto era accaduto;

ma proprio compiere questo passo era penoso per gli orgogliosi

cavalieri; i quali, profondamente amareggiati dalla risposta che

avevano ricevuto dal Gran Cancelliere, la mostrarono al principe

Elettore che, il mattino del giorno seguente, aveva fatto visita al

ciambellano, nella stanza dove egli giaceva indisposto per le ferite

riportate. Il ciambellano, con una voce che il suo stato rendeva

flebile e toccante, gli chiese se egli, dopo aver messo a repentaglio

la vita per risolvere quella faccenda secondo i suoi desideri, doveva

ancora esporre il suo onore al biasimo del mondo, e farsi avanti con

una preghiera di accomodamento e di accondiscendenza verso un uomo che

aveva riversato ogni onta e vergogna immaginabile su di lui e sulla

sua famiglia. Il principe Elettore, dopo aver letto la lettera,

domandò imbarazzato al conte Kallheim se il tribunale non fosse

autorizzato, senza ulteriori colloqui con Kohlhaas, a basarsi sulla

circostanza che i cavalli non potevano essere ristabiliti, e a

pronunciare quindi, come se fossero morti, una sentenza di semplice

risarcimento in denaro.

"Sono morti, Vostra Grazia", rispose il conte; "sono morti in senso

giuridico, poiché non hanno nessun valore, e lo saranno anche

fisicamente, prima che siano condotti dallo scorticatoio alle stalle

dei cavalieri"; al che il principe Elettore, mettendosi in tasca la

lettera, disse che ne avrebbe parlato di persona con il Gran

Cancelliere, tranquillizzò il ciambellano, che si tirò su a metà, per

stringergli, riconoscente, la mano, e, dopo avergli raccomandato

ancora una volta di aver cura della sua salute, si alzò, con

espressione di grande benevolenza, dalla poltrona, e lascio la stanza.

Così stavano le cose a Dresda, quando sul povero Kohlhaas si addensò

un'altra e più grave tempesta, proveniente da Lutzen, le cui folgori

gli astuti cavalieri furono abbastanza abili da dirigere sul suo capo

sfortunato. Giovanni Nagelschmidt, infatti, uno dei servi arruolati

dal mercante, e poi congedati dopo la pubblicazione dell'amnistia del

principe Elettore, aveva pensato bene, poche settimane dopo, ai

confini della Boemia, di riunire nuovamente una parte di quella

marmaglia, rotta a tutte le infamie, e di continuare per conto suo il

mestiere al quale Kohlhaas lo aveva avviato. Questo poco di buono, sia

per incutere spavento agli sbirri, dai quali era inseguito, sia per

indurre, secondo un metodo già sperimentato, la gente delle campagne a

unirsi alle sue ribalderie, si proclamava luogotenente di Kohlhaas;

con l'astuzia appresa dal suo padrone, egli sparse la voce che nei

confronti di molti servi che erano pacificamente ritornati alle loro

case l'amnistia non era stata rispettata, e che Kohlhaas stesso, con

spergiuro che gridava vendetta al cielo, al suo arrivo a Dresda era

stato arrestato, e consegnato alle guardie; fino al punto che, su

manifesti in tutto simili a quelli di Kohlhaas, la sua masnada di

incendiari era presentata come un esercito insorto a sola gloria di

Dio, e destinato a vigilare sull'osservanza dell'amnistia a loro

concessa dal principe Elettore; tutto questo, come si è già detto,

niente affatto a gloria di Dio, né per attaccamento a Kohlhaas, la cui

sorte era loro del tutto indifferente, ma per poter, ammantati da

simili finzioni, tanto più impunemente e comodamente incendiare e

saccheggiare.

I nobili, non appena arrivarono a Dresda le prime notizie di ciò, non

seppero soffocare la loro gioia per l'incidente, che dava all'intera

faccenda un aspetto ben diverso. Con sapienti e velenose allusioni

essi ricordarono quale passo falso fosse stato, a dispetto dei loro

pressanti e ripetuti ammonimenti, concedere a Kohlhaas l'amnistia,

quasi si fosse avuta l'intenzione di dare con questa ai ribaldi di

tutte le specie l'autorizzazione a mettersi sulla stessa strada; e,

non contenti di prestar fede alla pretesa del Nagelschmidt di aver

preso le armi solo in difesa e per la sicurezza del suo perseguitato

padrone, manifestarono perfino l'opinione ben precisa che la comparsa

di costui altro non fosse che una trama ordita dallo stesso Kohlhaas,

per mettere paura al governo, affrettare la pronuncia della sentenza e

ottenerla punto per punto conforme alla sua folle ostinazione. Il

coppiere, il nobile Enzo, andò addirittura tanto oltre da proclamare,

di fronte ad alcuni gentiluomini di caccia e cortigiani, che, dopo il

banchetto, si erano radunati intorno a lui nell'anticamera

dell'Elettore, che lo scioglimento della banda di masnadieri a Lutzen

non era stato altro che una perfida commedia; e, facendosi beffe

dell'amore di giustizia del Gran Cancelliere, mostrò, con una serie di

elementi astutamente collegati, come la banda fosse presente come

prima nei boschi dei principato, e aspettasse solo un cenno del

mercante di cavalli per irrompere ancora una volta, col ferro e col

fuoco.

Il principe Cristiano di Meissen, molto contrariato dalla piega che

prendevano le cose, che minacciava di macchiare in modo

spiacevolissimo il buon nome del suo signore, andò immediatamente da

lui a palazzo; e, ben intuendo che i nobili avevano interesse a

rovinare Kohlhaas, se era possibile, a causa dei nuovi delitti, chiese

al signore il permesso di sottoporre subito il mercante a un

interrogatorio. Il mercante, portato, non senza stupore, da uno

sgherro, al palazzo del governo, apparve portando in braccio Enrico e

Leopoldo, i suoi due piccini; poiché Sternbald, il suo servo, era

giunto presso di lui il giorno prima con i suoi cinque figli dal

Meclemburgo, dove essi erano rimasti fino a quel momento, e vari

pensieri, che sarebbe troppo lungo esporre, l'avevano indotto a

prendere in braccio i due marmocchi, i quali, quando stava per uscire,

l'avevano chiesto versando lacrime infantili, e a portarseli dietro

all'interrogatorio.

Il principe, dopo aver osservato benevolmente i bambini, che Kohlhaas

aveva fatto sedere accanto a sé, e avere chiesto con gentilezza quanti

anni avevano e come si chiamavano, gli fece presenti gli abusi che il

Nagelschmidt, già suo servo, stava commettendo nelle valli dei monti

Metalliferi; e, porgendogli i sedicenti mandati di costui, lo esortò a

esporre quello che poteva dire a propria giustificazione. Il mercante,

per quanto realmente spaventato da quei fogli svergognati e proditori,

non ebbe tuttavia, di fronte a un uomo retto qual era il principe,

molta pena a dimostrare in modo soddisfacente l'infondatezza delle

accuse che gli venivano contestate. Non solo, egli fece osservare, per

come stavano andando le cose egli non aveva nessun bisogno di aiuto da

parte di un terzo per la decisione della sua causa, che procedeva nel

migliore dei modi; ma da alcune lettere che aveva con sé, e che mostrò

al principe, emergeva come del tutto inverosimile che il Nagelschmidt

potesse avere in animo di prestargli un aiuto simile, poiché, poco

prima dello scioglimento, a Lutzen, della banda, egli era sul punto di

far impiccare quel ribaldo, a causa degli stupri e di altre violenze

da lui commesse nelle campagne; tanto che solo la pubblicazione

dell'amnistia concessa dal principe, eliminando tra loro ogni

rapporto, lo aveva salvato, e il giorno dopo i due si erano separati

come nemici mortali.

Kohlhaas, su sua proposta, che il principe accettò, si sedette, e

scrisse una lettera per il Nagelschmidt, nella quale dichiarava che la

pretesa di costui di aver preso le armi per salvaguardare l'amnistia

violata a lui e alla sua banda era un'infame e scellerata invenzione;

gli diceva che al suo arrivo a Dresda egli non era stato arrestato, né

consegnato alle guardie, e che anche la sua causa procedeva in modo

del tutto conforme ai suoi desideri; e, per gli incendi e le stragi da

lui commesse nei monti Metalliferi dopo la pubblicazione

dell'amnistia, lo abbandonava, ad ammonimento della banda raccolta

intorno a lui, al pieno rigore della legge. A questo furono allegati

alcuni estratti del procedimento criminale che il mercante di cavalli

aveva istruito contro di lui nel castello di Lutzen, a causa delle

ribalderie di cui si è detto, affinché il popolo fosse istruito sul

conto di quel buono a nulla, fin da allora destinato alla forca, che,

come si è già detto, solo il provvedimento di clemenza del principe

aveva salvato. In seguito a ciò il principe tranquillizzò Kohlhaas a

proposito del sospetto che, costretti dalle circostanze, avevano

dovuto avanzare contro di lui nell'interrogatorio; gli assicurò che,

finché egli fosse stato a Dresda, l'amnistia che gli era stata

concessa non sarebbe stata in alcun modo violata, diede ancora una

volta la mano ai bambini, regalando loro della frutta che si trovava

sulla tavola, salutò Kohlhaas e lo congedò.

Il Gran Cancelliere, che però vedeva il pericolo che incombeva sul

mercante di cavalli, fece l'impossibile per portarne a conclusione,

prima che da nuovi avvenimenti venisse complicata e confusa, la causa;

ma proprio questo era il desiderio e il fine dei cavalieri, che, da

politici consumati, anziché limitare, come prima, con tacita

ammissione della loro colpa, la loro opposizione al raggiungimento di

una sentenza mite, cominciarono ora, con argomentazioni speciose e

cavillose, a negare quella colpa completamente. Ora davano a intendere

che i morelli di Kohlhaas erano stati trattenuti al castello di Tronka

in seguito a decisioni arbitrarie del castaldo e del fattore, delle

quali il barone non aveva avuto nessuna conoscenza, oppure incompleta;

ora assicuravano che, fin dal momento del loro arrivo nel castello,

gli animali soffrivano già di una violenta e pericolosa tosse,

appellandosi a testimoni che si impegnavano a citare al momento

opportuno; e quando, dopo lunghe indagini e discussioni, questi loro

argomenti vennero a cadere, essi esibirono addirittura un editto del

principe Elettore, con il quale, dodici anni prima, a causa di

un'epidemia del bestiame, era stata, in effetti, vietata

l'importazione dei cavalli dal Brandeburgo in Sassonia: prova lampante

che il barone non soltanto era autorizzato, ma era tenuto a trattenere

i cavalli che Kohlhaas portava oltre confine.

Kohlhaas, che nel frattempo aveva ricomprato dall'onesto balivo di

Pontekohlhaas, in cambio di un modesto risarcimento del danno da lui

subìto, la sua fattoria, voleva, a quanto sembra allo scopo di

perfezionare giuridicamente quel contratto, lasciare per qualche

giorno Dresda, e recarsi nella sua patria; risoluzione nella quale

tuttavia, non ne dubitiamo, ebbe un ruolo, ancora più di quell'affare,

per quanto urgente fosse, la necessità di provvedere alle semine

invernali, l'intenzione di saggiare la sua posizione, in circostanze

tanto singolari e preoccupanti: e alla quale contribuirono, forse,

anche ragioni di altra specie, che preferiamo lasciar indovinare a

chiunque sappia vedere nel proprio cuore. Andò dunque, lasciando a

casa la guardia che gli era stata assegnata, presso il Gran

Cancelliere, e gli fece sapere, le lettere del balivo in mano, che era

sua intenzione, nel caso che il tribunale non avesse, come sembrava,

necessità della sua presenza, lasciare la città, e, per un periodo di

otto o dodici giorni, trascorsi i quali prometteva di essere di

ritorno, compiere un viaggio nel Brandeburgo. Il Gran Cancelliere,

guardando a terra con il volto scontento e preoccupato, obiettò che, a

dire il vero, la sua presenza era proprio allora più necessaria che

mai, poiché il tribunale, a causa delle insidiose e tortuose eccezioni

della controparte, aveva bisogno delle sue dichiarazioni e

chiarificazioni in mille casi imprevedibili; ma poiché Kohlhaas diceva

di rivolgersi al suo avvocato, perfettamente al corrente della causa,

e ritornava con rispettosa insistenza, promettendo di limitarsi a otto

giorni, sulla sua richiesta, il Gran Cancelliere, dopo una pausa, gli

disse brevemente, congedandolo, di sperare che egli richiedesse, a

tale scopo, il permesso scritto al principe Cristiano di Meissen.

Kohlhaas, che sapeva leggere in volto al Gran Cancelliere si mise, più

che mai confermato nella sua decisione, immediatamente a sedere, e

pregò, senza addurre alcuna ragione, il principe di Meissen, in quanto

capo del Governo, di concedergli un permesso di otto giorni per andare

a Pontekohlhaas e fare ritorno. In risposta al suo scritto, egli

ricevette una risoluzione governativa, firmata dall'intendente di

Palazzo, barone Sigfrido di Wenk, che suonava così: "La sua richiesta

di un permesso per recarsi a Pontekohlhaas sarebbe stata presentata a

Sua Altezza il principe Elettore, e, non appena fosse pervenuto il suo

alto consenso, il permesso gli sarebbe stato inviato". Quando Kohlhaas

si informò, presso il suo avvocato, come mai la risoluzione

governativa fosse firmata da un certo barone Sigfrido di Wenk, anziché

dal principe Cristiano di Meissen, al quale egli si era rivolto,

ottenne questa risposta: il principe era partito, tre giorni prima,

per i suoi possedimenti, e durante la sua assenza gli affari di

Governo erano stati affidati all'intendente di Palazzo, il barone

Sigfrido di Wenk, cugino del nobile, di cui si è detto sopra, che

portava lo stesso nome.

Kohlhaas, al quale tutti questi contrattempi cominciavano a far

battere il cuore con inquietudine, attese per parecchi giorni la

decisione relativa alla sua richiesta, trasmessa alla persona del

sovrano con singolare lentezza; ma una settimana passò e passarono

altri giorni, senza che la decisione giungesse, né ii tribunale, per

quanto gli fosse stato dato per sicuro, pronunciasse la sentenza:

tanto che, il dodicesimo giorno, fermamente deciso a far venire alla

luce le intenzioni del Governo nei suoi confronti, fossero quelle che

fossero, Kohlhaas sedette e pregò di nuovo il governo di fargli avere,

sottolineandone l'urgenza, il permesso che aveva richiesto.

Ma quale fu il suo turbamento, quando egli, la sera del giorno dopo,

anch'esso passato senza che arrivasse l'attesa risposta, mentre,

immerso nei suoi pensieri, rifletteva sulla sua situazione, e in

particolare sull'amnistia che gli aveva fatto ottenere il dottor

Lutero, si avvicinò alla finestra dello stanzino che dava sul retro,

e, nel piccolo fabbricato annesso che si trovava sul cortile, e che

egli aveva riservato alla scorta, per sua dimora, non vide più la

guardia che il principe di Meissen, al suo arrivo, gli aveva

assegnato.

Tommaso, il vecchio custode, da lui chiamato, interrogato su che cosa

questo significasse, rispose sospirando: "Padrone! Non tutto va come

dovrebbe; i lanzi, che oggi sono più numerosi del solito, allo

scendere della notte si sono distribuiti tutto intorno alla casa; due

stanno, con lancia e scudo, davanti alla porta esterna, che dà sulla

strada; due a quella interna, sul giardino; e altri due sono distesi

nell'anticamera, su un fascio di paglia, e dicono che dormiranno lì".

Kohlhaas, che impallidì a quelle parole, si girò, e rispose che era lo

stesso, purché ci fossero; e lo pregò, quando scendeva al piano terra,

di portare ai lanzi una lampada, perché potessero vederci. Poi, dopo

aver aperto, con il pretesto di vuotare un recipiente, le imposte di

una finestra esterna, ed essersi convinto che ciò che il vecchio gli

aveva detto rispondeva a verità, poiché proprio allora avveniva, senza

nessun rumore, il cambio della guardia, misura alla quale, fino a quel

momento, da quando essa era stata istituita, nessuno aveva pensato,

andò, con poca voglia di dormire, a coricarsi, e la decisione per

l'indomani fu subito presa. Niente, infatti, rimproverava, al Governo

con cui aveva a che fare, se non l'apparenza della giustizia, nel

momento in cui, di fatto, esso violava nei suoi confronti l'amnistia

che gli era stata giurata; e se, in realtà, doveva essere prigioniero,

come non c'erano ormai più dubbi, voleva almeno costringerlo a

dichiarare in modo franco ed esplicito che era così.

Perciò, non appena arrivò il mattino del giorno seguente, egli ordinò

a Sternbald, il suo servo, di attaccare e condurre davanti a casa la

carrozza, per recarsi, così disse, a Lockewitz dal fattore, il quale,

suo vecchio conoscente, gli aveva parlato, a Dresda, alcuni giorni

prima, invitandolo a fargli visita con i suoi bambini. I lanzi, che,

tutti in crocchio, assistevano in casa a quei preparativi, mandarono

di nascosto uno di loro in città; e in pochi minuti apparve un

ufficiale del Governo, alla testa di numerosi armigeri, che, come se

avesse qualche affare da sbrigarvi, entrò nella casa di fronte.

Kohlhaas, che, occupato a vestire i ragazzi, aveva però notato quei

movimenti, e a appositamente aveva fatto sostare la carrozza davanti a

casa più a lungo di quanto fosse necessario, non appena vide che i

preparativi della polizia erano terminati, uscì con i bambini, senza

curarsene, davanti a casa, passò davanti al crocchio dei lanzi, in

piedi sotto il portone, dicendo loro che non occorreva che lo

seguissero, mise i bambini nella carrozza, e baciò e consolò le

bambine, che piangevano perché, secondo le sue disposizioni, dovevano

restare presso la figlia del vecchio portiere.

Era appena salito anche lui nella carrozza, quando l'ufficiale del

Governo, con il suo seguito di armigeri, uscì dalla casa di fronte,

gli si avvicinò e gli chiese dove aveva intenzione di andare. Alla

risposta di Kohlhaas che voleva recarsi a Lockewitz, da un amico, il

balivo, che alcuni giorni prima l'aveva invitato a raggiungerlo in

campagna, con i suoi due figli, l'ufficiale del Governo rispose che,

in tal caso, egli doveva aspettare qualche minuto, poiché alcuni lanzi

a cavallo, secondo gli ordini del principe di Meissen, l'avrebbero

accompagnato. Kohlhaas chiese sorridendo, sporgendosi dalla carrozza,

se credeva che la sua persona, in casa di un amico che si era offerto

di ospitarlo per un giorno alla sua mensa, sarebbe stata poco sicura.

L'ufficiale rispose, con tono allegro e amabile, che non c'era, in

effetti, gran pericolo; ma, aggiunse, i soldati, del resto, non

l'avrebbero disturbato in nessun modo. Kohlhaas replicò, serio, che il

principe di Meissen, al suo arrivo a Dresda, lo aveva lasciato libero

di servirsi della scorta oppure no; e, poiché l'ufficiale si

meravigliava di questa circostanza, e con prudenti giri di frase si

richiamava all'abitudine, durata per tutto il tempo del suo soggiorno,

il mercante di cavalli gli raccontò i fatti che erano stati

all'origine dell'insediamento della scorta. L'ufficiale lo assicurò

che gli ordini dell'intendente di Palazzo, barone di Wenk, che era, al

momento, a capo della polizia, lo obbligavano a proteggere

ininterrottamente la sua persona; e lo pregò, se proprio non voleva

accettare la scorta, di andare personalmente al palazzo del Governo,

per rimediare all'errore che doveva essere sorto. Kohlhaas, lanciando

all'ufficiale uno sguardo eloquente disse, deciso a rompere o a

spuntarla, che l'avrebbe fatto, scese, con il cuore che gli batteva,

dalla carrozza, fece portare i bambini in anticamera dal portiere, e,

mentre il servo restava fermo davanti alla porta con il veicolo, andò,

con l'ufficiale e la sua scorta, al palazzo del Governo.

Accadde che l'intendente di Palazzo, barone di Wenk, fosse per

l'appunto occupato a esaminare una banda di accoliti del Nagelschmidt,

portati laggiù la sera precedente, e che i furfanti, che erano stati

catturati nella regione di Lipsia, venissero interrogati dai

cavalieri, che erano là con lui, su un certo numero di particolari che

essi avrebbero voluto sapere da loro, quando il mercante di cavalli,

con i suoi accompagnatori, entrò nella sala. Il barone, non appena lo

vide, andò, mentre i cavalieri, di colpo, ammutolivano, interrompendo

l'interrogatorio dei prigionieri, verso di lui, e gli chiese che cosa

volesse; e, quando il mercante di cavalli gli ebbe esposto, con

deferenza, il suo proposito di recarsi a colazione presso il fattore,

a Lockewitz, e il desiderio di lasciare a casa i lanzi, dei quali non

aveva bisogno, il barone, cambiando colore, rispose, mentre sembrava

inghiottire un altro discorso, che avrebbe fatto bene a restarsene

tranquillo a casa sua, e a rimandare, per il momento, il banchetto

presso il balivo di Lockewitz. E con queste parole, troncando di netto

il discorso, si rivolse all'ufficiale, e gli disse che, per quanto era

degli ordini che gli aveva dato a proposito di quell'uomo, il problema

era chiuso, e che egli non aveva il permesso di allontanarsi dalla

città, se non sotto scorta di sei lanzi a cavallo. Kohlhaas chiese se

fosse prigioniero, e se dovesse credere che l'amnistia, che gli era

stata solennemente giurata, sotto gli occhi di tutto il mondo, fosse

infranta; al che il barone si girò, fattosi, tutto a un tratto, di

porpora, verso di lui, gli andò vicino, lo fissò negli occhi, e, dopo

avergli risposto: "Sì! Sì! Sì!", gli voltò la schiena e, piantandolo

in asso, ritornò agli uomini del Nagelschmidt.

Kohlhaas, a quel punto, lasciò la sala; e, pur rendendosi conto di

essersi resa molto più difficile, con i passi compiuti, l'unica via di

salvezza che gli restasse, vale a dire la fuga, si compiacque,

tuttavia, del suo operato, poiché anch'egli ormai si vedeva liberato,

dalla sua parte, dall'obbligo di rispettare le clausole dell'amnistia.

Fece, giunto a casa, staccare i cavalli, e, accompagnato

dall'ufficiale del Governo, si recò, assai triste e scosso, nella sua

stanza; e, mentre quest'uomo, con modi che ispiravano disgusto al

mercante, assicurava che tutto doveva dipendere solo da un malinteso,

che in breve tempo si sarebbe risolto, gli armigeri, a un suo cenno,

sbarravano tutte le uscite dell'abitazione che davano sul cortile; ma

l'ufficiale assicurò che l'ingresso principale, sul davanti, gli era

aperto, come prima, a suo piacimento.

Intanto il Nagelschmidt, nei boschi dei monti Metalliferi, era tanto

incalzato da ogni parte da armigeri e lanzi, che, completamente privo

com'era di mezzi per sostenere una parte come quella che si era

assunta, ebbe l'idea di tirare davvero Kohlhaas dalla sua parte; e,

poiché, per mezzo di un viandante che passava per quelle strade, era

stato informato in modo abbastanza preciso di come si erano messe le

cose a Dresda per la sua controversia, credette, a dispetto

dell'aperta inimicizia che li divideva, di poter indurre il mercante

di cavalli ad accettare una nuova alleanza con lui. Di conseguenza gli

inviò un servo, con uno scritto redatto in un tedesco appena

leggibile, di questo tenore: "Se voleva recarsi nell'Altenburgo, e

prendere di nuovo la guida della banda che là, con i resti di quella

sciolta, si era radunata, egli si offriva di dargli man forte, con

cavalli, uomini e denaro, per sfuggire alla prigionia di Dresda; e gli

prometteva di essere in futuro più obbediente, e in generale migliore

e più disciplinato che in passato, e, per dimostrare il suo

attaccamento e la sua fedeltà, si impegnava a venire in persona nella

zona di Dresda, per disporre la sua liberazione dal carcere". Ora,

l'uomo incaricato di portare la lettera ebbe la sfortuna di cadere, in

un villaggio assai vicino a Dresda, in preda a gravi convulsioni,

delle quali soffriva dalla giovinezza, e in quell'occasione la

lettera, che teneva nel farsetto, fu trovata da persone che gli erano

venute in aiuto; e perciò,

non appena si fu ripreso, venne arrestato, e, sotto buona scorta,

condotto, con grande accompagnamento di popolo, al palazzo del

Governo.

Non appena l'intendente, barone di Wenk, ebbe letto la lettera, andò

senza indugio dal principe Elettore, a palazzo, dove trovò presenti i

signori Enzo e Corrado, quest'ultimo ristabilito dalle sue ferite, e

il presidente della Cancelleria di Stato, conte Kallheim. I nobili

erano dell'opinione che Kohlhaas dovesse essere senz'altro arrestato,

e processato per le sue intese segrete con il Nagelschmidt; poiché,

argomentavano, una lettera simile non avrebbe potuto essere scritta,

se non fosse stata preceduta da altre, anche da parte del mercante di

cavalli, e, comunque, senza che fosse intercorsa tra loro una

scellerata e criminale intesa, per tramare nuove atrocità. Il principe

Elettore si rifiutò fermamente, sulla semplice base di quella lettera,

di violare il salvacondotto che aveva concesso e giurato; ed era,

anzi, dell'opinione che dalla lettera del Nagelschmidt emergesse, con

una certa probabilità, che fra loro non era intercorsa nessuna

precedente intesa; e tutto ciò a cui, per venire in chiaro della cosa

su proposta del presidente, e non senza molta esitazione, si decise,

fu di far consegnare la lettera a Kohlhaas, per mezzo del servo

inviato da Nagelschmidt, come se questo fosse ancora libero, per

verificare se avrebbe risposto.

Di conseguenza il servo, che era stato gettato in prigione, il mattino

seguente fu portato al palazzo del Governo, dove l'intendente gli

restituì la lettera, e gli ingiunse, con la promessa della libertà e

del condono della pena che si era meritata, di consegnare lo scritto,

come se niente fosse accaduto, al mercante di cavalli; il furfante si

lasciò utilizzare senza difficoltà per quello stratagemma di bassa

lega, e, facendo mostra di grande segretezza, con il pretesto di

vendergli dei gamberi, che l'ufficiale del Governo aveva comperato per

lui al mercato, entrò nella camera di Kohlhaas.

Kohlhaas, che lesse la lettera mentre i bambini giocavano con i

gamberi, in altre circostanze avrebbe certo afferrato il briccone per

il colletto, per consegnarlo ai lanzi di guardia alla sua porta; ma,

poiché la disposizione degli animi era tale che persino quel passo

avrebbe potuto essere interpretato con indifferenza, e lui si era

pienamente convinto che niente al mondo avrebbe potuto salvarlo dal

pasticcio in cui era invischiato, con uno sguardo triste fissò bene in

faccia quell'uomo, che conosceva bene, gli chiese dove abitasse, e lo

invitò a ritornare da lui di lì a qualche ora, che gli avrebbe fatto

sapere le sue decisioni a proposito del suo padrone. Disse a

Sternbald, che entrava per caso, di comprare un po' di gamberi

dall'uomo che si trovava nella stanza, e, quando l'affare fu concluso,

e i due si furono allontanati, senza riconoscersi, si sedette, e

scrisse a Nagelschmidt una lettera del seguente tenore: "Prima di

tutto, accettava la sua proposta, riguardo al supremo comando della

sua banda dell'Altenburgo; e di conseguenza, per liberarlo dalla

momentanea prigionia nella quale, con i suoi cinque figli, era tenuto,

che gli mandasse una carrozza con due cavalli a Neustadt, vicino

Dresda; inoltre aveva bisogno, per proseguire più in fretta, di un

altro tiro di due cavalli sulla strada per Vittemberga, poiché

soltanto attraverso quella deviazione, per ragioni che sarebbe stato

troppo lungo riportare, poteva raggiungerlo; i lanzi che lo

sorvegliavano credeva sì di poterli tirare dalla sua con la

corruzione; ma, nel caso che fosse necessaria la forza, voleva essere

certo che fossero presenti a Neustadt un paio di servi animosi, svegli

e ben armati; per far fronte alle spese richieste da tutti questi

preparativi gli inviava, attraverso il suo servo, un rotolo di venti

corone d'oro, sull'impiego delle quali avrebbe fatto i conti con lui a

cosa finita; e, per finire, gli vietava, poiché non era necessario, di

venire personalmente a Dresda per liberarlo, e anzi gli impartiva

l'ordine tassativo di restare nell'Altenburgo, a comandare

temporaneamente la banda, che non poteva rimanere senza un capo".

Questa lettera la consegnò al servo, quando egli, verso sera, fu di

ritorno, lo ricompensò con larghezza, e gli raccomandò di custodirla

con cura. La sua intenzione era di andare ad Amburgo con i suoi cinque

figli, e imbarcarsi da lì per il Levante, e le Indie Orientali, o

dovunque il sole splendesse su genti diverse da quelle che conosceva:

poiché all'idea di far ingrassare i morelli il suo animo, prostrato

dall'amarezza, anche indipendentemente dalla ripugnanza che sentiva a

far causa comune con il Nagelschmldt, aveva rinunciato.

Non appena il furfante ebbe consegnato questa risposta all'intendente

del Palazzo, il Gran Cancelliere fu destituito, il presidente della

Cancelleria, conte Kallheim, fu nominato, al suo posto, capo del

Tribunale, e Kohlhaas venne arrestato, su mandato del gabinetto del

Principe, e portato, gravato da pesanti catene, nella torre della

città. Il processo fu istruito sulla base dl quella lettera, che venne

affissa a tutti gli angoli della città; e, poiché egli, davanti al

Tribunale, alla domanda se ne riconoscesse la scrittura rispose "Sì!",

al consigliere che l'interrogava, ma alla domanda se avesse qualcosa

da dire a sua difesa rispose "No!", abbassando a terra lo sguardo, fu

condannato a essere straziato dagli aguzzini con tenaglie roventi e

squartato e il suo corpo a essere arso tra la ruota e la forca.

Così stavano le cose a Dresda per il povero Kohlhaas, quando si fece

avanti, per salvarlo dalle mani della prepotenza e dell'arbitrio, il

principe Elettore del Brandeburgo, e, in una nota fatta pervenire

laggiù, presso la Cancelleria di Stato dell'Elettore, ne pretese la

consegna, quale suddito brandeburghese. Infatti l'onesto prefetto,

messer Enrico di Geusau, gli aveva riferito durante una passeggiata

lungo le rive della Sprea, la storia di quell'uomo singolare, ma non

spregevole, e, in quella occasione, incalzato dalle domande del suo

stupito sovrano non poté fare a meno di menzionare la colpa che, a

causa delle scorrettezze del suo Cancelliere supremo, il conte

Sigfrido di Kallheim, gravava sulla sua stessa persona: al che il

principe Elettore, profondamente indignato, dopo aver chiamato il Gran

Cancelliere a rendere conto, e aver constatato che la causa di tutto

era la sua parentela con il casato dei Tronka, immediatamente, e con

molti segni del suo disappunto, lo destituì, nominando Gran

Cancelliere messer Enrico di Geusau.

Accadde che proprio allora la corona di Polonia, che era venuta a

contesa, non sappiamo a causa di quale oggetto con la Casa di

Sassonia, rivolgesse al principe Elettore del Brandeburgo ripetute e

insistenti considerazioni, per indurlo a fare causa comune con essa,

contro la Casa di Sassonia, e, di conseguenza, il Gran Cancelliere,

messer Enrico di Geusau, che sapeva destreggiarsi in simili affari,

era sicuro di poter venire incontro al desiderio del suo sovrano di

rendere giustizia a Kohlhaas, costasse quello che costasse, senza

mettere in gioco la pace universale in modo più rischioso di quanto

fosse consentito per proteggere un solo uomo. In quel frangente il

Gran Cancelliere non soltanto pretese, a causa del procedimento del

tutto arbitrario, spiacente a Dio e agli uomini, al quale era stato

sottoposto, l'incondizionata e immediata consegna di Kohlhaas, perché,

in caso che fosse gravato da colpe, fosse giudicato secondo le leggi

del Brandeburgo, in base ai capi d'accusa che la corte di Dresda

avrebbe potuto presentare a Berlino per mezzo di un avvocato; ma

richiese persino il lasciapassare per un avvocato che il principe

Elettore del Brandeburgo intendeva mandare a Dresda, per far valere i

diritti di Kohlhaas contro il barone Venceslao di Tronka, a causa dei

morelli che gli erano stati sottratti in territorio sassone, e degli

altri maltrattamenti e violenze da lui subiti, che gridavano al cielo.

Il ciambellano, messer Corrado, che nell'avvicendarsi delle cariche

pubbliche in Sassonia era stato nominato presidente della Cancelleria

di Stato, e per varie ragioni, nella spinosa situazione in cui si

trovava, non voleva offendere la corte di Berlino, rispose, a nome del

suo signore, profondamente abbattuto dalla nota brandeburghese

pervenuta, che "si era meravigliati della mancanza di cortesia e di

equità con le quali si negava alla corte di Dresda il diritto di

giudicare il Kohlhaas secondo le leggi, per i delitti che aveva

commesso nel paese, dal momento che era universalmente noto che il

Kohlhaas possedeva un vasto terreno nella capitale, e che nemmeno egli

stesso aveva negato la sua qualità di cittadino sassone". Ma poiché la

corona di Polonia, per sostenere le sue pretese con le armi, aveva già

riunito ai confini della Sassonia un esercito di cinquemila uomini, e

il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, dichiarò che

"Pontekohlhaas, la località dalla quale il mercante di cavalli aveva

preso nome, si trovava nel Brandeburgo, e l'esecuzione della sentenza

di morte pronunciata contro di lui sarebbe stata considerata una

violazione del diritto internazionale", il principe Elettore, dietro

consiglio del ciambellano, messer Corrado in persona, che desiderava

tirarsi fuori dalla faccenda, richiamò dai suoi possedimenti il

principe Cristiano di Meissen, e decise ascoltate poche parole di

quell'uomo ragionevole, di consegnare Kohlhaas, conformemente alla

richiesta, alla corte di Berlino.

Il principe, il quale, benché poco soddisfatto delle scorrettezze

compiute, aveva dovuto sobbarcarsi la direzione dell'affare Kohlhaas

per desiderio del suo angustiato sovrano, gli chiese su quali basi

volesse ora accusare il mercante di cavalli davanti al tribunale

camerale di Berlino, e poiché alla sua infausta lettera al

Nagelschmidt non ci si poteva appellare, a causa delle circostanze

ambigue e poco chiare nelle quali era stata scritta, mentre non si

poteva neppure nominare i saccheggi e gli incendi, per via del

manifesto con il quale gli erano stati perdonati, il principe Elettore

decise di presentare a Sua Maestà l'imperatore, a Vienna, un rapporto

sull'aggressione armata portata da Kohlhaas contro la Sassonia, in cui

si lagnava della rottura della pubblica pace da lui causata, e

supplicava Sua Maestà, non vincolata da alcuna amnistia, di chiederne

conto a Kohlhaas davanti al tribunale di corte di Berlino per mezzo di

un accusatore imperiale. Otto giorni dopo, il cavalier Federico di

Malzahn, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a

Dresda con sei armati a cavallo, caricava il mercante di cavalli,

incatenato com'era, su una carrozza, per tradurlo, con i suoi cinque

figli, che, dietro sua preghiera, erano stati mandati a prendere dagli

orfanotrofi in cui si trovavano, a Berlino.

Ora, accadde che il principe Elettore di Sassonia, su invito del

Governatore, conte Alvise di Kallheim, che aveva allora vasti

possedimenti lungo il confine della Sassonia, fosse partito per il

villaggio di Dahme, in compagnia del ciambellano, messer Corrado, e

della sua consorte, donna Eloisa, figlia del Governatore e sorella del

presidente, senza parlare dello splendido seguito di nobili, dame,

gentiluomini di caccia e dignitari di corte che li accompagnava, per

una grande battuta di caccia al cervo organizzata per svagarlo; e che,

mentre, al riparo di padiglioni imbandierati, eretti su una collina ai

due lati della strada, tutta la compagnia, ancora coperta dalla

polvere della caccia, sedeva a tavola al suono di una musica allegra,

che proveniva dal tronco di una quercia, servita da paggi e da

fanciulli nobili, il mercante di cavalli avanzasse lentamente, con la

sua scorta di uomini a cavallo, per la strada di Dresda. Infatti la

malattia di uno dei figli piccoli di Kohlhaas, di salute cagionevole,

aveva costretto il cavaliere di Malzahn, che lo accompagnava, a

fermarsi a Herzberg per tre giorni; misura della quale egli, tenuto a

risponderne soltanto al principe che serviva, non aveva ritenuto

necessario informare il governo di Dresda.

Il principe Elettore, che sedeva, con il giustacuore slacciato e il

cappello piumato ornato, alla moda dei cacciatori, di rametti d'abete,

vicino a donna Eloisa, che, nella prima giovinezza di lui, era stata

il suo primo amore, disse, lietamente disposto dal gaudio raffinato

della festa: "Andiamo fin là, e porgiamo a quell'infelice, chiunque

esso sia, questo calice di vino!". Donna Eloisa, lanciandogli uno

sguardo affettuoso, si alzò immediatamente, e, saccheggiando la tavola

imbandita, riempì un vassoio d'argento, che un paggio le aveva porto,

di frutta, dolci e pane; e già tutta la compagnia, con rinfreschi

d'ogni genere, era sciamata fuori dalla tenda, quando il Governatore

le si fece incontro, con il viso imbarazzato, e la pregò di fermarsi.

Alla meravigliata domanda del principe Elettore su che cosa fosse

successo, da turbarlo così tanto, il Governatore rispose balbettando,

rivolto al ciambellano, che nella carrozza c'era Kohlhaas; a quella

notizia, per tutti incomprensibile, essendo universalmente noto che

questi era partito già da sei giorni, il ciambellano, messer Corrado,

prese il suo calice di vino e, girandosi indietro, verso la tenda, lo

rovesciò per terra. Il principe Elettore, diventato tutto rosso, posò

il suo sopra un piatto che un paggio nobile, a un cenno del

ciambellano, gli aveva teso a questo scopo; e, mentre il cavaliere

Federico di Malzahn, salutando con deferenza la compagnia, che non

conosceva, passava lentamente fra le due linee di padiglioni che

correvano lungo la strada, e proseguiva per Dahme, i signori, su

invito del Governatore, si ritirarono, senza più curarsene, nella

tenda. Il Governatore, non appena il principe ebbe preso posto, inviò

segretamente a Dahme dei messaggeri, affinché le autorità locali

disponessero che il mercante di cavalli fosse fatto proseguire senza

indugio; ma poiché il cavaliere, essendo il giorno ormai troppo

inoltrato, dichiarò che intendeva assolutamente pernottare nel

villaggio, ci si dovette limitare a portarlo senza rumore in una

fattoria di proprietà del municipio, che sorgeva fuori mano, nascosta

in una fitta macchia.

Ora, accadde che, verso sera, quando i signori, distratti dal vino e

dai cibi di una cena sontuosa, avevano ormai del tutto dimenticato

l'incidente, il Governatore tirò fuori l'idea di rimettersi alla

posta, per via di un branco di cervi che era stato avvistato; tutta la

compagnia accolse con gioia la proposta, e, divisa in coppie, corse,

dopo essersi munita di archibugi, per fossati e per siepi nella

foresta vicina: tanto che il principe Elettore e donna Eloisa, che

l'aveva preso a braccetto, per assistere allo spettacolo, furono

portati, da un domestico che era stato messo al loro servizio, proprio

ad attraversare, con loro meraviglia, il cortile della casa in cui si

trovava Kohlhaas, con i cavalieri brandeburghesi.

La dama, quando lo seppe, disse: "Venite, Vostra Grazia, venite!"; e,

tenera e scherzosa, gli nascose nel gran colletto di seta la catena

che gli pendeva dal collo: "Prima che arrivi tutta la brigata,

entriamo di soppiatto nella fattoria, a vedere lo strano uomo che vi

pernotta!".

Il principe le prese la mano arrossendo, e disse: "Eloisa! Che vi

viene in mente?". Ma poiché lei, guardandolo confusa, aggiungeva che

nessuno, nell'abito da cacciatore che portava, avrebbe potuto

riconoscerlo, e lo trascinava con sé, e, proprio in quell'istante, un

paio di gentiluomini della caccia, che avevano già soddisfatto la

propria curiosità, uscivano dalla casa, assicurando che, grazie alle

misure prese dal Governatore, né il cavaliere del Brandeburgo né il

mercante di cavalli sapevano chi fossero i signori riuniti nella

regione di Dahme, il principe Elettore, calandosi con un sorriso il

cappello sugli occhi, disse: "Follia, tu governi il mondo, e il tuo

seggio è una bella bocca di donna!".

Accadde che Kohlhaas fosse per l'appunto seduto su un mucchio di

paglia, con la schiena contro la parete, e nutrisse con pane bianco e

latte il bambino che si era ammalato a Herzberg, quando i signori

entrarono nella fattoria per fargli visita; e quando la dama, per

attaccare discorso, gli chiese chi fosse, e che cosa avesse il

bambino, e anche che cosa avesse commesso, e dove fosse portato con

quella scorta, egli si tolse davanti a lei il berretto di cuoio e

diede a tutte le sue domande, continuando nella sua occupazione,

concise ma soddisfacenti risposte. Il principe Elettore, che stava in

piedi dietro i gentiluomini di caccia, notando una piccola capsula di

piombo appesa, con un filo di seta, al collo del mercante, gli chiese,

poiché non si offriva niente di meglio per fare conversazione, quale

ne fosse il significato e che cosa contenesse.

"Già, la capsula, messere illustrissimo", rispose Kohlhaas, che se la

tolse, sollevando il filo dietro la nuca, l'aprì, e ne tirò fuori un

bigliettino sigillato con una goccia di ceralacca. "La storia di

questa capsula è davvero strana! Saranno sette mesi fa, all'incirca,

proprio il giorno dopo la sepoltura di mia moglie; ero partito da

Pontekohlhaas, come forse vi sarà noto, per agguantare il barone di

Tronka, che mi aveva fatto un gran torto, quando, per certe trattative

che non conosco, il principe Elettore di Sassonia e il principe

Elettore di Brandeburgo si incontrarono a Juterbock, una borgata con

diritto di fiera, per la quale doveva passare la mia spedizione; e

poiché, verso sera, si erano accordati secondo i loro desideri, si

incamminarono, in amichevole colloquio, per le strade della cittadina,

per dare un'occhiata alla fiera annuale, che proprio allora vi si

svolgeva con allegra animazione. Incontrarono così una zingara, che,

seduta su uno sgabello, prediceva, dal suo lunario, l'oroscopo al

popolo che la circondava, e le chiesero, con fare scherzoso, se non

aveva da rivelare anche a loro qualcosa di piacevole. Io, che ero

sceso da poco, con il mio drappello, in una locanda, e ero presente

sulla piazza dove questi fatti si svolgevano, non potevo sentire,

dietro a tutto il popolo, sulla soglia di una chiesa, dove mi trovavo,

che cosa diceva ai signori quella strana donna; e tuttavia, siccome i

presenti si sussurravano ridendo l'un l'altro che non a tutti lei

elargiva la sua scienza e, per godersi lo spettacolo che si preparava,

spingevano e si accalcavano, io, non tanto, a dire il vero, per

curiosità, quanto per far posto ai curiosi, salii in piedi su un

sedile scolpito, dietro di me, nella parete, a fianco del portale

della chiesa. Da quel posto, dal quale la vista era interamente

libera, avevo appena visto i signori e la donna, che sedeva su uno

sgabello davanti a loro e sembrava scarabocchiare qualcosa, quando

lei, di colpo, si alza, appoggiandosi sulle stampelle, gira lo sguardo

intorno, fra il popolo, lo fissa su di me, che non avevo mai scambiato

una parola con lei, né mai, in tutta la mia vita, avevo desiderato

servirmi della sua scienza, si spinge, facendosi strada per la fitta

calca, fino a me, e dice: 'Ecco! Se il signore vorrà saperlo, venga

poi a chiederlo a te!' E con queste parole, messere illustrissimo, mi

porse, con le sue mani secche e ossute, questo biglietto. E poiché io,

stupito, mentre tutto il popolo si gira verso di me, le dico:

'Nonnina, che vuol dire questo onore?', lei risponde, dopo molte

parole incomprensibili, fra le quali tuttavia, con mio grande stupore,

sento il mio nome: 'Un amuleto, Kohlhaas, mercante di cavalli;

custodiscilo bene, un giorno ti salverà la vita!' e sparisce".

"Ebbene", continuò Kohlhaas con tono bonario, "a dire la verità, a

Dresda, per quanto le cose si fossero messe male, non ci ho rimesso la

vita, come mi andrà a Berlino, e se me la caverò anche laggiù, lo dirà

il futuro".

A queste parole il principe si sedette su una panca; e, per quanto,

all'ansiosa domanda della dama, che gli chiedeva che cosa avesse,

rispondesse: "Niente! Niente!", prima ancora che lei avesse avuto il

tempo di accorrere e di riceverlo tra le braccia, cadde al suolo privo

di sensi. Il cavaliere di Malzahn, che proprio in quel momento entrava

nella stanza per un'incombenza, esclamò: "Santo Iddio! Che cos'ha il

signore?". La dama gridò: "Portate dell'acqua!". I gentiluomini di

caccia lo sollevarono, e lo portarono su un letto che si trovava nella

stanza vicina; e la costernazione arrivò al culmine quando il

ciambellano, che un paggio era corso a chiamare, dopo ripetuti,

inutili sforzi per richiamarlo in vita, dichiarò che mostrava tutti i

segni di chi ha avuto un colpo!

Il Governatore, mentre il coppiere mandava a Luckau un messaggero a

cavallo, per far venire un medico, poiché il principe aveva aperto gli

occhi, lo fece portare su una carrozza, e condurre, a passo d'uomo, al

suo castello di caccia, che si trovava nelle vicinanze; ma quel

viaggio gli causò, dopo il suo arrivo, due nuovi svenimenti: tanto che

si riprese un po' solo nella tarda mattinata del giorno seguente,

all'arrivo del medico da Eiickau, seppure con gli evidenti sintomi che

si stava avvicinando una febbre nervosa.

Appena ebbe ripreso i sensi, il principe si alzò a sedere sul letto, e

la sua prima domanda fu subito dove fosse Kohlhaas. Il ciambellano,

fraintendendo la sua domanda, disse, prendendogli la mano, che a

proposito di quell'uomo orribile poteva tranquillizzarsi, poiché, dopo

quello strano e incomprensibile incidente, egli era rimasto, secondo

le sue disposizioni, nella fattoria presso Dahme, sotto la scorta dei

Brandeburghesi. E, fra le assicurazioni della sua vivissima

partecipazione, e le sue proteste di aver fatto a sua moglie i più

aspri rimproveri, per la sconsiderata leggerezza di averlo fatto

incontrare con quell'uomo, gli chiese che cosa di tanto strano ed

enorme lo avesse colpito, nella conversazione con lui.

Il principe Elettore disse che doveva confessargli che la vista di un

insignificante foglietto, che quell'uomo portava con sé, in una

capsula di piombo, era tutta la causa dello spiacevole incidente che

gli era capitato. Per spiegare la circostanza, aggiunse molte cose che

il ciambellano non capì, e a un tratto, stringendogli la mano tra le

sue, gli assicurò che per lui il possesso di quel biglietto era della

massima importanza, e lo pregò di salire immediatamente in sella, di

raggiungere Dahme e trattare con quell'uomo, qualunque ne fosse il

prezzo, l'acquisto del biglietto.

Il ciambellano, che faticava a nascondere il proprio imbarazzo, lo

assicurò che, se quel biglietto aveva per lui qualche valore, niente

al mondo era più necessario che tacere a Kohlhaas questa circostanza:

non appena egli, per una frase imprudente, ne fosse venuto a

conoscenza, neppure tutte le ricchezze che il principe possedeva

sarebbero bastate a riscattarlo dalle mani di quell'uomo truce,

insaziabile nella sua brama di vendetta. E, per calmarlo, aggiunse che

bisognava pensare a un altro mezzo, e che forse con l'astuzia, per

mezzo di una terza persona, che agisse con la massima disinvoltura,

sarebbe stato possibile, poiché, in sé e per sé, il ribaldo non

avrebbe dovuto tenerci molto, procurarsi il possesso del biglietto che

gli stava tanto a cuore.

Il principe, asciugandosi il sudore, chiese se non si poteva mandare

subito qualcuno a Dahme a questo scopo, e intanto sospendere

provvisoriamente la prosecuzione del viaggio del mercante, finché non

ci si fosse impadroniti, in qualunque modo, del foglio.

Il ciambellano, che non credeva alle sue orecchie, replicò che,

purtroppo, in base ai calcoli più verosimili, il mercante di cavalli

doveva ormai aver lasciato Dahme, e trovarsi oltre confine, in

territorio brandeburghese, dove l'impresa di impedire il suo

proseguimento, o addirittura di farlo tornare indietro avrebbe

incontrato difficoltà spiacevolissime di ogni genere, e forse

addirittura insormontabili. E, poiché il principe, in silenzio, aveva

riappoggiato la testa sul cuscino, con l'espressione di chi ha perso

ogni speranza, gli chiese che cosa contenesse il biglietto, e per

quale caso sorprendente e inspiegabile egli sapesse che il suo

contenuto lo riguardava.

Ma a queste parole il principe guardò ambiguamente il ciambellano,

della cui compiacenza, in quel caso, non si fidava e non rispose;

giaceva irrigidito, con il cuore che batteva con inquietudine,

fissando l'orlo inferiore del fazzoletto che teneva pensieroso, fra le

mani, e, improvvisamente, lo pregò di chiamare nella stanza il barone

di Stein, gentiluomo di caccia, un nobile giovane, abile e gagliardo,

del quale si era già più volte servito per affari segreti, con il

pretesto che doveva sbrigare con lui un'altra faccenda.

Quando ebbe ragguagliato il gentiluomo sulla faccenda, e gli ebbe

rivelata l'importanza del biglietto del quale Kohlhaas era in

possesso, il principe gli chiese se voleva acquistarsi eterno diritto

alla sua amicizia, procurandogli il biglietto prima che Kohlhaas

giungesse a Berlino; e poiché il barone, non appena si fu fatto

un'idea approssimativa della situazione, per strana che fosse, gli

assicurò di essere pronto a servirlo con tutte le sue forze, il

principe gli affidò l'incarico di raggiungere Kohlhaas a spron battuto

e, poiché egli, probabilmente, non si sarebbe lasciato convincere con

il denaro, di offrirgli in cambio in un abboccamento abilmente

condotto, la libertà e la vita, e persino, se egli l'avesse preteso,

di aiutarlo immediatamente, per quanto con cautela, con cavalli,

uomini e denaro, a evadere dalla custodia dei soldati brandeburghesi

che lo scortavano.

Il gentiluomo, fattosi rilasciare dal principe un foglio di suo pugno,

che attestasse la sua missione, partì immediatamente, con alcuni

servi, e, non risparmiando le forze dei cavalli, ebbe la fortuna di

raggiungere, in un villaggio di confine, Kohlhaas che, insieme al

cavaliere di Malzahn e ai suoi cinque figli, stava consumando

all'aperto, davanti alla porta di una casa, il pasto di mezzogiorno.

Il cavaliere di Malzahn, al quale il barone si era presentato come un

forestiero che, passando di lì nel suo viaggio, desiderava vedere coi

propri occhi lo strano uomo che egli portava con sé, pieno di premura

gli fece subito prendere posto a tavola, presentandogli Kohlhaas; e

poiché il cavaliere, occupato nei preparativi della partenza, andava e

veniva, e i soldati pranzavano a un tavolo che si trovava sull'altro

lato della casa, ben presto al barone si offrì l'opportunità di

rivelare al mercante di cavalli chi egli fosse, e con quale preciso

incarico fosse venuto a cercarlo.

Il mercante di cavalli, che era già a conoscenza del rango e del nome

di colui che, nella fattoria presso Dahme, era caduto in deliquio alla

vista della capsula, e che, per coronare l'ebbrezza che quella

scoperta gli aveva infuso, non avrebbe avuto bisogno d'altro, se non

di prendere visione dei segreti del biglietto, che egli, per molte

ragioni, era deciso a non aprire per mera curiosità; il mercante di

cavalli, dunque, ricordando il trattamento tutt'altro che magnanimo e

degno di un principe che a Dresda aveva dovuto subire, malgrado la sua

piena disponibilità ad accettare ogni possibile sacrificio, disse che

"intendeva tenersi il biglietto".

E, quando il gentiluomo gli chiese da che cosa fosse indotto a un così

strano rifiuto, quando gli si offriva, in cambio niente di meno che la

libertà e la vita, Kohlhaas rispose:

"Nobile signore! Se venisse qui il vostro sovrano, e dicesse: 'Io mi

voglio annientare, insieme a tutti coloro che mi aiutano a reggere lo

scettro', annientare, capite, che è appunto il più gran desiderio che

agiti l'anima mia, ebbene, anche allora questo foglietto, che per lui

vale più della vita, io glielo rifiuterei, e direi: 'Tu puoi mandarmi

al patibolo, ma io posso farti soffrire, e lo farò!'".

E, con la morte sul viso, chiamò un soldato, invitandolo a servirsi di

un buon boccone che era rimasto nella zuppiera; per tutto il resto del

tempo che passò nel villaggio fu, per il barone seduto alla sua mensa,

come se non ci fosse; soltanto quando salì in carrozza si girò di

nuovo, con uno sguardo di saluto e di congedo, verso di lui.

La salute del principe Elettore, quando ricevette quella notizia,

peggiorò tanto che, per tre fatali giornate, il medico nutrì i più

gravi timori per la sua vita, attaccata nello stesso tempo da tante

parti. Tuttavia, grazie alla forza della sua costituzione naturalmente

sana, dopo alcune settimane di letto e di dolorosa malattia egli si

ristabilì, almeno fino al punto che lo si poté mettere su una

carrozza, e, ben provvisto di cuscini e coperte, riportare a Dresda e

alle sue cure di governo. Non appena arrivò in quella città, egli

mandò a chiamare il principe Cristiano di Meissen, e gli chiese a che

punto fosse la missione del consigliere di giustizia Eibenmayer, che

si aveva intenzione di mandare a Vienna come avvocato per l'affare

Kohlhaas, affinché presentasse laggiù, davanti a Sua Maestà

l'imperatore, l'accusa per la rottura della pace dell'Impero.

Il principe Cristiano rispose che il consigliere, secondo gli ordini

che il sovrano stesso aveva lasciato, al momento della partenza per

Dahme, subito dopo l'arrivo del giurisperito Zauner, che il principe

Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda come avvocato, per

portare in giudizio la sua accusa contro il barone Venceslao di Tronka

a proposito dei morelli, era partito per Vienna.

Il principe Elettore avvampò e, avvicinandosi alla sua scrivania,

espresse stupore per tanta fretta, poiché, a quanto ricordava, egli

aveva dichiarato che si riservava di disporre con un ulteriore e più

preciso ordine la partenza definitiva dell'Eibenmayer, poiché prima

era necessario avere un colloquio con il dottor Lutero, che aveva

fatto ottenere a Kohlhaas l'amnistia. E, nel dire questo, scompigliò,

con un'espressione di malumore represso, alcuni atti e incartamenti

che si trovavano sulla scrivania.

Il principe Cristiano, dopo una pausa, durante la quale l'aveva

guardato con tanto d'occhi, rispose che gli dispiaceva di non averlo

soddisfatto in quella incombenza; ma poteva mostrargli la delibera del

Consiglio di Stato che gli faceva obbligo di far partire l'avvocato

per la data suddetta. Egli aggiunse che in Consiglio di Stato non si

era parlato affatto di un colloquio con il dottor Lutero; e che in

precedenza, forse, avrebbe potuto essere opportuno tenere in conto

l'opinione di quel religioso, per via del suo intervento a favore di

Kohlhaas, ma ora non più, dopo che a lui, sotto gli occhi di tutto il

mondo, era stata violata l'amnistia, ed egli era stato arrestato e

consegnato ai tribunali del Brandeburgo per essere condannato e messo

a morte.

Il principe Elettore disse che, in effetti, l'errore di aver fatto

partire l'Eibenmayer non era grave; desiderava, tuttavia, che per il

momento, fino a nuovo ordine, egli non desse esecuzione, a Vienna, al

suo mandato di accusatore, e pregò il principe di fargli avere

immediatamente, per mezzo di un corriere veloce, le necessarie

istruzioni a questo proposito.

Il principe rispose che, purtroppo, questo ordine arrivava con un

giorno di ritardo, poiché, secondo una relazione ricevuta quel giorno

stesso, l'Eibenmayer aveva già presentato le sue credenziali, e aveva

già sporto l'accusa presso la Cancelleria di Stato di Vienna. E

aggiunse, rispondendo al principe Elettore, che chiedeva, costernato,

come tutto ciò fosse stato possibile in un tempo così breve, che dalla

partenza di quell'uomo erano già trascorse tre settimane, e che le

istruzioni da lui ricevute gli facevano obbligo di dare inizio alla

pratica senza indugio, non appena arrivato a Vienna. Tirare in lungo,

osservò il principe, sarebbe stato in questo caso quanto mai

inopportuno, tanto più che Zauner, l'avvocato del Brandeburgo,

procedeva con la più ostinata energia contro il barone Venceslao di

Tronka: egli aveva già chiesto alla Corte di giustizia il ritiro

provvisorio dei morelli dalle mani dello scortichino, perché potessero

essere, in seguito, ristabiliti, e, a dispetto di tutte le obiezioni

sollevate dalla controparte, era riuscito a ottenerlo.

Il principe Elettore, suonando il campanello, disse: "Fa lo stesso;

poco importa!", e, dopo aver rivolto al principe alcune domande

indifferenti, "Come andavano, per il resto, le cose a Dresda? Che cosa

era avvenuto durante la sua assenza?", lo salutò, incapace di

nascondere il suo stato d'animo, con la mano, e lo congedò.

Il giorno stesso gli richiese, per iscritto, con il pretesto che, data

la sua importanza politica, voleva lavorare egli stesso alla cosa,

tutti gli atti riguardanti Kohlhaas; e, poiché il pensiero di causare

la morte dell'unico uomo dal quale avrebbe potuto ottenere ragguagli

sui segreti del foglietto era per lui intollerabile, scrisse di suo

pugno una lettera all'imperatore, nella quale lo pregava, con calore e

con insistenza, per gravi ragioni, che forse entro breve tempo gli

avrebbe spiegato in modo più preciso, di poter ritirare per il

momento, fino a nuova decisione, l'accusa che l'Eibenmayer aveva

presentato contro Kohlhaas.

L'imperatore, in una nota redatta dalla Cancelleria di Stato, gli

rispose che "il cambiamento che sembrava essersi prodotto nel suo

animo lo stupiva al massimo grado; la relazione a lui inviata da parte

sassone aveva fatto della vicenda di Kohlhaas una questione che

riguardava tutto il Sacro Romano Impero; e di conseguenza egli,

l'imperatore, come suo reggitore supremo, si era visto obbligato a

farsi avanti come accusatore presso la casa di Brandeburgo; tanto che,

dal momento che l'assessore di corte Francesco Muller si era già

recato a Berlino, in qualità di avvocato, per chiedere conto a

Kohlhaas della sua violazione della pubblica pace, l'accusa non poteva

più in nessun modo essere ritirata, e la vicenda doveva seguire il suo

corso, secondo le leggi".

Da questa lettera l'Elettore fu del tutto prostrato; e poiché, a suo

estremo sconforto, poco tempo dopo giunsero da Berlino rapporti

riservati, nei quali si comunicava l'apertura del procedimento davanti

alla Corte camerale, e si notava che, probabilmente, Kohlhaas, a

dispetto di tutti gli sforzi dell'avvocato che gli era stato messo a

disposizione, sarebbe finito sul patibolo, l'infelice sovrano decise

di compiere ancora un tentativo, e pregò il principe Elettore del

Brandeburgo, in una missiva redatta di suo pugno, di concedergli la

vita del mercante di cavalli. Egli adduceva il pretesto che l'amnistia

giurata a quell'uomo non consentiva contro di lui l'esecuzione

legittima di una sentenza di morte; gli dava assicurazione che,

malgrado l'apparente severità con la quale si era proceduto contro di

lui, mai era stata sua intenzione di farlo morire; e gli spiegava,

infine, che non avrebbe mai potuto perdonarsi, se la protezione che

avevano promesso di fargli ottenere da parte di Berlino si fosse in

conclusione risolta, per un cambiamento inaspettato, in uno svantaggio

maggiore, per lui, di quel che gli sarebbe toccato se fosse rimasto a

Dresda, e la causa fosse stata decisa secondo le leggi della Sassonia.

Il principe Elettore del Brandeburgo, al quale molti punti di questa

lettera erano sembrati ambigui e poco chiari, gli rispose che

"l'energia con cui procedeva l'avvocato di Sua Maestà imperiale non

consentiva in alcun modo di derogare, secondo il desiderio da lui

esposto, dalla rigida applicazione della legge. Egli osservava che le

preoccupazioni di cui veniva messo a parte andavano, in realtà, oltre

il segno, poiché l'accusa per i delitti perdonati a Kohlhaas con

l'amnistia era stata presentata alla Corte camerale di Berlino non già

da lui, che aveva concesso l'amnistia al mercante, bensì dal reggitore

supremo dell'Impero, che da essa non era legato in alcun modo. Inoltre

gli faceva presente quanto fosse necessario, mentre continuavano le

violenze del Nagelschmidt che, con inaudita impudenza, si spingevano

fin sulle terre del Brandeburgo, dare un esempio che agisse come

deterrente, e lo pregava, se non avesse voluto tenere conto di tutto

questo, di rivolgersi direttamente a Sua Maestà l'imperatore poiché,

se un atto d'imperio doveva intervenire a favore di Kohlhaas, non

sarebbe potuto giungere altrimenti che attraverso una dichiarazione da

quella parte".

L'Elettore, per il dolore e la rabbia di tutti questi tentativi andati

a vuoto, cadde nuovamente ammalato; e, una mattina che il ciambellano

era venuto a trovarlo, gli mostrò le lettere che, per prolungare la

vita di Kohlhaas e così per lo meno guadagnare tempo, per impadronirsi

del foglietto che possedeva, aveva inviato alle Corti di Vienna e di

Berlino. Il ciambellano si mise in ginocchio davanti a lui e lo

scongiurò, per tutto quello che aveva di sacro e di caro, di dirgli

che cosa era scritto nel foglietto. L'Elettore gli disse di chiudere a

chiave la stanza e di sedersi sul letto; e, dopo avergli preso la

mano, ed essersela premuta sul cuore con un sospiro, cominciò nel modo

che segue:

"Tua moglie, ho sentito dire, ti ha già raccontato che l'Elettore del

Brandeburgo e io, al terzo giorno del convegno da noi tenuto a

Juterbock, incontrammo una zingara; e poiché l'Elettore, vivace com'è

di natura, aveva deciso di distruggere con uno scherzo, in presenza di

tutto il popolo, la fama di quell'avventuriera, della cui arte poco

prima, a tavola, si era parlato in modo sconveniente, egli si avvicinò

al suo tavolino, a braccia conserte, e le chiese, a proposito della

predizione che gli avrebbe fatto, un segno che si potesse verificare

quel giorno stesso, avvertendola che, altrimenti, non avrebbe potuto

credere alle sue parole, fosse stata pure la Sibilla romana in

persona. La donna, misurandoci con un'occhiata da capo a piedi, disse

che il segno sarebbe stato che il capriolo dalle grandi corna che il

figlio del giardiniere allevava nel parco ci sarebbe venuto incontro

sulla piazza della fiera, sulla quale ci trovavamo, prima che la

lasciassimo. Ora, devi sapere che quel capriolo, destinato alla cucina

della corte di Dresda, era custodito, con tanto di lucchetto e di

catenaccio, in un recinto, ombreggiato dalle querce del parco, chiuso

da un'alta palizzata, tanto che, siccome, per di più, l'intero parco

e, al di là di esso, il giardino che vi portava, erano tenuti

accuratamente chiusi, per via della selvaggina più piccola e dei polli

che vi si trovavano, non si riusciva proprio a capire come l'animale

potesse, secondo la strana predizione, venirci incontro fin sulla

piazza dove stavamo; e tuttavia l'Elettore, preoccupato che, dietro di

questo, potesse nascondersi una mariuoleria, dopo aver brevemente

parlato con me e ben deciso, per via dello scherzo, a rovinare in modo

irrimediabile tutto ciò che quella donna potesse dire, inviò a palazzo

l'ordine di uccidere immediatamente il capriolo, e di prepararlo per

il banchetto uno dei giorni seguenti. Poi si girò di nuovo verso la

donna, di fronte alla quale tutto ciò era stato discusso ad alta voce,

e le disse: 'Su, avanti! Che cosa hai da rivelarmi per il futuro?'. La

donna, guardandogli la mano, disse: 'Salve, mio principe Elettore e

sovrano! La tua benevolenza governerà a lungo; la casa dalla quale

provieni durerà ancora a lungo; i tuoi discendenti saranno grandi e

splendidi, e il loro potere supererà quello di tutti gli altri

principi e signori del mondo!'. Il principe, dopo una pausa, durante

la quale osservò la donna pensieroso, disse a mezza voce, facendo un

passo verso di me, che adesso quasi gli dispiaceva aver mandato un

messo per ridurre a niente la profezia; e, mentre dalle mani dei

cavalieri che lo seguivano il denaro pioveva a mucchi, fra gran grida

di giubilo, in grembo alla donna, egli le chiese, infilandosi una mano

in tasca, e deponendo anch'egli una moneta d'oro, se l'augurio che

aveva da fare a me avesse un suono argentino come il suo. La donna,

dopo aver aperto una cassetta che aveva a fianco, avervi ordinato

lentamente e meticolosamente il denaro, diviso per specie e quantità,

e aver richiuso la cassetta, si protesse dal sole con la mano, come se

le desse noia, e mi guardò; e quando io le ripetei la domanda, e

dissi, con fare scherzoso, al principe Elettore, mentre mi esaminava

la mano: 'A me, a quanto sembra, non ha proprio niente di piacevole da

predire', lei diede di piglio alle grucce, si tirò, lentamente, su dal

suo sgabello e, con le mani protese in un gesto pieno di mistero, mi

si fece vicina fino a toccarmi e mi sussurrò distintamente

all'orecchio: 'No!'. 'Ah!', dissi io, turbato, e feci un passo

indietro da quella figura, che, con uno sguardo freddo e senza vita,

come se avesse avuto occhi di marmo, tornò a sedersi sullo sgabello

che stava dietro di lei: 'Da quale parte il pericolo minaccia la mia

casa?'. La donna, prendendo in mano un carboncino e un foglio, e

accavallando le ginocchia, chiese se doveva scrivermelo; e quando io,

realmente impacciato, rispondo, semplicemente perché, in una

situazione come quella, non mi restava altro da fare: 'Sì, fallo!',

lei aggiunse: 'Va bene! Tre cose ti scriverò: il nome dell'ultimo

regnante della tua casa, l'anno in cui perderà il regno, e il nome di

colui che se lo conquisterà con la forza delle armi'. Compiuto questo,

davanti agli occhi di tutto il popolo, si solleva, sigilla il

foglietto con ceralacca, inumidita nella sua bocca vizza, e vi imprime

un sigillo di piombo, che porta al dito medio come anello. E quando

io, curioso, come puoi facilmente immaginare, più di quanto le parole

possano dire, faccio per prendere il biglietto, lei dice: 'Niente

affatto, Altezza!', si gira, e leva in alto una delle sue stampelle:

'Da quell'uomo laggiù, quello con il cappello piumato, che sta in

piedi sul sedile, dietro tutto il popolo, sulla soglia della chiesa,

andrai a prendere il foglio, se lo vorrai!'. E con ciò, prima ancora

che io abbia ben capito che cosa sta dicendo, mi pianta in asso sulla

piazza, senza parole per lo stupore; e, chiusa con un colpo la

cassetta che stava alle sue spalle, se la getta sulla schiena e si

confonde, senza che io possa più scorgere quello che sta facendo, nel

mucchio della folla che ci circonda. Proprio in quel momento, con mia

grandissima consolazione, devo dire, si fece avanti il cavaliere che

l'Elettore aveva inviato a palazzo, e gli comunicò, con la bocca

atteggiata a un sorriso, che il capriolo era stato ucciso, e che due

cacciatori, sotto i suoi occhi, lo avevano trasportato in cucina.

L'Elettore, prendendomi allegramente sotto braccio, con l'intenzione

di portarmi via dalla piazza, disse: 'Insomma, la profezia non era

altro che una delle solite fanfaronate, che non valeva il tempo e il

denaro che c'è costata!' Ma quale fu il nostro stupore quando, mentre

ancora pronunciava queste parole, si alzò un vociare tutto intorno per

la piazza, e tutti gli occhi si rivolsero a un grosso cane da

macellaio, che si avvicinava dal cortile del palazzo, dove aveva

afferrato in cucina il capriolo, come una buona preda, e, inseguito

dai servi e dalle fantesche, lasciò cadere al suolo la bestia a tre

passi da noi: così che davvero la profezia della donna, a garanzia di

tutto quello che aveva annunciato, si era compiuta, e il capriolo, sia

pure già morto, ci era venuto incontro sulla piazza della fiera. Il

fulmine che in un giorno d'inverno cade dal cielo non può colpire in

modo più devastante di quanto mi colpì quella vista, e la mia prima

preoccupazione, non appena mi fui liberato della compagnia in cui mi

trovavo, fu di rintracciare subito l'uomo con il cappello piumato che

la donna mi aveva indicato; ma nessuno dei miei uomini, mandati

ininterrottamente per tre giorni a cercare informazioni, fu in grado

di darmene notizia, neppure nel modo più vago: e ora Corrado, amico

mio, poche settimane fa, nella fattoria vicino a Dahme, ho visto

quell'uomo con i miei occhi".

Con queste parole, lasciò andare la mano del ciambellano e

asciugandosi il sudore, ricadde sul suo giaciglio. Il ciambellano,

ritenendo fatica sprecata contrapporre la sua opinione di quell'evento

a quella che ne aveva il principe Elettore, per modificarla, lo pregò

di tentare un mezzo qualunque per venire in possesso del foglio, e poi

di abbandonare quell'uomo al suo destino; ma il principe rispose di

non vederne il mezzo in nessun modo, anche se il pensiero di doverci

rinunciare, o addirittura di veder svanire con quell'uomo ogni

possibilità di conoscere il segreto, lo portava sull'orlo dello

strazio e della disperazione. Alla domanda dell'amico se avesse fatto

il tentativo di rintracciare la zingara in persona, il principe

rispose che la polizia, in forza di un ordine che egli aveva emanato,

con un falso pretesto, fino a ieri l'aveva ricercata invano in tutti

gli angoli del principato: tanto che, per ragioni che, tuttavia,

rifiutò di esporre nei particolari, egli dubitava persino che fosse

rintracciabile in Sassonia.

Ora, accadeva che il ciambellano, per via di numerosi ed estesi

possedimenti che sua moglie aveva ereditato, nella Marca Nuova, dal

conte Kallheim, il Gran Cancelliere deposto, e poco tempo dopo morto,

volesse appunto andare a Berlino; tanto che, poiché voleva davvero

bene al principe Elettore, dopo una breve riflessione gli chiese se

voleva lasciargli mano libera in quella faccenda; e poiché il

principe, premendosi con calore la sua mano sul petto, gli rispondeva:

"Fa' conto di essere me stesso, e procurami il foglio!", il

ciambellano, sbrigati i suoi affari, affrettò di qualche giorno la sua

partenza e si recò, lasciando a casa la moglie, accompagnato soltanto

da alcuni servi, a Berlino.

Kohlhaas, che nel frattempo, come si è detto, era giunto a Berlino e,

per un ordine particolare del principe Elettore, era stato portato in

un carcere destinato ai nobili, che lo ricevette, insieme ai suoi

cinque figli, con la massima comodità possibile, subito dopo la

comparsa del procuratore imperiale da Vienna era stato chiamato a

rendere conto, davanti al tribunale camerale, per il turbamento della

pace pubblica, tutelata dall'imperatore, da lui causato nel paese; e,

benché lui, nella sua difesa, obbiettasse che non lo si poteva

processare per la sua incursione armata in Sassonia, né per le

violenze allora commesse, in forza del compromesso da lui stipulato a

Lutzen con il principe Elettore di Sassonia, si sentì rispondere, per

suo insegnamento, che Sua Maestà l'imperatore, il cui procuratore

sosteneva l'accusa nel processo, non poteva tenerne conto: e ben

presto, poiché la cosa gli fu spiegata in dettaglio, e gli fu

dichiarato che, in compenso, avrebbe ottenuto piena soddisfazione, da

parte di Dresda, nella sua causa contro il barone Venceslao di Tronka,

si mise l'anima in pace. Di conseguenza, accadde che proprio il giorno

dell'arrivo del ciambellano fu pronunciata la sentenza, ed egli fu

condannato a perire di spada: un verdetto alla cui esecuzione però, in

una situazione così intricata, indipendentemente dalla sua mitezza,

nessuno credeva, e che anzi l'intera città, data la benevolenza che il

principe Elettore nutriva per Kohlhaas, sperava di veder cambiata

sicuramente, per un suo atto d'imperio, in una semplice pena

detentiva, magari lunga e penosa.

Il ciambellano, che tuttavia capiva che non c'era tempo da perdere, se

l'incarico che il suo sovrano gli aveva affidato doveva andare a buon

fine, cominciò a mettere in atto il suo piano facendosi vedere da

Kohlhaas, un mattino in cui questi stava in piedi, alla finestra della

prigione, e osservava distrattamente i passanti, nel suo solito

vestito di corte, a lungo e con intenzione; e quando, da un movimento

improvviso del capo concluse che il mercante di cavalli l'aveva

notato, e, soprattutto, quando vide, con grande soddisfazione, che

egli aveva portato involontariamente la mano al petto, dove teneva la

capsula, pensò che quello che in quel momento era avvenuto nel suo

animo fosse una preparazione sufficiente per consentirgli di compiere

il passo successivo, nel tentativo di impadronirsi del foglietto.

Mandò a chiamare una vecchia rigattiera, che andava in giro con le

stampelle, e che egli aveva notato, per le strade di Berlino, in mezzo

a un crocchio di altri straccivendoli; poiché, per l'età e per

l'abito, gli sembrava corrispondere abbastanza bene a quella che il

principe gli aveva descritto, supponendo che Kohlhaas non avesse

potuto imprimersi profondamente nella memoria i tratti di quella che,

in una fugace apparizione, gli aveva consegnato il foglietto, decise

di sostituirla con la donna da lui scelta, e di farle recitare presso

Kohlhaas, se ci riusciva, la parte della zingara. Quindi, per metterla

in condizione di farlo, la istruì dettagliatamente su tutto ciò che

era successo a Juterbock fra il principe e la suddetta zingara, e, non

sapendo fin dove si fosse spinta la zingara nelle sue rivelazioni a

Kohlhaas, non dimenticò di insistere particolarmente sui tre

misteriosi punti scritti sul foglio; e, dopo averle spiegato quello

che avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire, con allusioni monche e

scarsamente comprensibili, riguardo a certe misure che erano state

prese per impadronirsi, con l'astuzia o con la forza, del biglietto,

che era di estrema importanza per la corte di Sassonia, le affidò

l'incarico di farsi consegnare da Kohlhaas il foglio con il pretesto

che presso di lui non era più sicuro, per custodirlo durante alcuni

giorni densi di pericoli. La rigattiera accettò subito, dietro

promessa di una lauta ricompensa, della quale il ciambellano, su sua

richiesta, dovette pagare in anticipo una parte, di eseguire

l'incarico; e, poiché la madre del servo Ersiano, caduto presso

Muhlberg, andava di tanto in tanto a trovare Kohlhaas, con il permesso

del Governo, e già da qualche mese conosceva quella donna, la zingara

riuscì, uno dei giorni seguenti, con un piccolo obolo al capo

carceriere, a ottenere di vedere il mercante di cavalli.

Ma Kohlhaas, quando la donna entrò, credette, dall'anello con il

sigillo che portava al dito, e dalla collana di corallo che aveva sul

petto, di riconoscere in lei proprio la vecchia zingara che gli era

già nota, e che a Juterbock gli aveva consegnato il foglio; e poiché

non sempre la verosimiglianza sta dalla parte della verità, caso volle

che fosse appunto avvenuto un fatto che noi riferiamo, pur essendo

costretti a lasciare, a chiunque preferisca, il diritto di dubitarne:

il ciambellano aveva compiuto il più clamoroso dei passi falsi e, con

la vecchia rigattiera che si era procurato per le strade di Berlino,

perché facesse finta di essere la zingara, si era imbattuto proprio

nella misteriosa zingara che voleva far imitare da lei. Per lo meno la

donna, mentre, appoggiandosi sulle stampelle, accarezzava le guance

dei bambini, i quali, colpiti dal suo strano aspetto, si stringevano

al padre, riferì che già da diverso tempo era ritornata dalla Sassonia

nel Brandeburgo, e che, a una domanda imprudentemente arrischiata dal

ciambellano, per le strade di Berlino, a proposito della zingara che,

nella primavera dell'anno precedente, era stata a Juterbock, gli si

era subito avvicinata e, sotto falso nome, si era offerta di assolvere

all'incarico che egli intendeva affidare.

Il mercante di cavalli, che notò una strana somiglianza fra lei e la

sua defunta moglie Lisabetta, tanto che avrebbe potuto chiederle se

non fosse la nonna di lei, poiché non soltanto i tratti del suo viso,

e le mani, che, per quanto ossute, erano ancora belle, e soprattutto

il suo modo di muoverle mentre parlava, gliela ricordavano nel modo

più vivo, ma egli notò perfino sul collo di lei un neo simile a quello

di sua moglie, il mercante di cavalli, dunque, la pregò, mentre in lui

si intrecciavano strani pensieri, di mettersi a sedere, e le chiese

che cosa mai la portasse da lui, per affari del ciambellano. La donna,

mentre il vecchio cane di Kohlhaas le annusava le ginocchia, e

scodinzolava alle carezze della sua mano, rispose che l'incarico che

il ciambellano le aveva affidato era quello di svelargli quale fosse

la misteriosa risposta contenuta nel foglietto alle tre domande

importanti per la corte di Sassonia; doveva mettere in guardia lui,

Kohlhaas, da un inviato, che si trovava a Berlino per impossessarsene,

e pertanto chiedergli la consegna del foglio, con il pretesto che al

suo collo, dov'egli lo portava, non era più sicuro. Ma l'intenzione

con la quale era venuta era invece di fargli sapere che la minaccia di

privarlo del biglietto con l'astuzia o con la forza era una

sciocchezza, un vuoto spauracchio; che, sotto la protezione del

principe Elettore di Brandeburgo, alla custodia del quale era

affidato, non aveva proprio niente da temere per il biglietto; che,

anzi, il foglio era molto più sicuro presso di lui che presso di lei,

e che si guardasse bene dal farsene privare, consegnandolo a chiunque,

sotto qualsiasi pretesto. E concluse, comunque, che le sembrava saggio

fare del biglietto l'uso per il quale glielo aveva dato alla fiera

annuale di Juterbock: porgere orecchio alla proposta che gli era stata

fatta presso il confine da parte del barone di Stein, e consegnare il

foglio, che a lui ormai non serviva più, al principe Elettore di

Sassonia, in cambio della libertà e della vita.

Kohlhaas, che esultava per il potere che gli era dato di ferire a

morte il tallone del suo nemico, nel momento in cui ne veniva

calpestato, rispose: "Per niente al mondo, nonnina; per niente al

mondo!". E, premendo la mano alla vecchia, volle solo sapere che

specie di risposte a quelle arcane domande fossero contenute nel

foglietto.

La donna, prendendosi in grembo il più piccolo, che si era accoccolato

ai suoi piedi, disse: "Non per il mondo, Kohlhaas: ma per questo

piccolo, dolce bambino biondo!", e, nel dir questo, gli sorrise, lo

strinse a sé e lo baciò, mentre il bambino la guardava con i suoi

grandi occhi, e gli porse, con le sue mani ossute, una mela che

portava nella bisaccia.

Kohlhaas disse, confuso, che i bambini stessi, se fossero stati

grandi, lo avrebbero lodato per il suo comportamento, e che per loro,

e per i loro nipoti, non avrebbe potuto fare niente di più benefico

che conservare il biglietto. Inoltre, chiese, chi, dopo l'esperienza

che aveva fatto, lo avrebbe garantito da un nuovo inganno? Non

avrebbe, alla fine, sacrificato invano al principe Elettore il foglio,

come aveva fatto in passato con la banda da lui raccolta a Lutzen?

"Con chi mi ha mancato di parola una volta", disse, "io non impegno

più la mia parola; solo una tua richiesta, precisa e inequivocabile,

mi separerà, nonnina, dal foglio attraverso il quale mi viene data, in

modo così straordinario, soddisfazione per tutto quello che ho

sofferto".

La donna, deponendo a terra il bambino, disse che, da più di un punto

di vista, aveva ragione, e che poteva fare e non fare ciò che voleva.

E con queste parole riprese le sue stampelle e fece per andarsene.

Kohlhaas ripeté la sua domanda, a proposito dello straordinario

biglietto; e avrebbe voluto, dopo che lei ebbe brevemente risposto

che, sì, poteva aprirlo, fosse pure soltanto per mera curiosità, che

lei gli spiegasse ancora mille altre cose, prima di lasciarlo, chi

fosse in realtà, di dove venisse la scienza che era in lei, e perché

non avesse voluto dare al principe Elettore il biglietto, per il quale

pure l'aveva scritto, e perché proprio a lui, che non aveva mai avuto

desiderio della sua scienza, avesse consegnato, fra tante migliaia di

uomini, il prodigioso foglietto. Ma accadde che, proprio in quel

momento, si sentisse un rumore, prodotto da alcune guardie che stavano

salendo le scale; tanto che la donna, presa dall'improvviso timore di

essere vista da loro in quelle stanze, rispose: "Arrivederci,

Kohlhaas! Se ci incontreremo di nuovo, la risposta a tutto questo non

ti mancherà!". E, girandosi verso la porta, gridò: "Addio, bambini,

addio!", baciò i piccoli, uno dopo l'altro, e se ne andò.

Nel frattempo il principe Elettore di Sassonia, in preda ai suoi

tormentosi pensieri, aveva fatto venire due astrologi, di nome

Oldenholm e Olearius, che a quel tempo erano molto conosciuti in

Sassonia, e li aveva consultati riguardo al contenuto del foglio

misterioso, tanto importante per lui e per tutta la stirpe dei suoi

discendenti; e poiché i due uomini, dopo un'approfondita indagine, che

continuò per molti giorni, nella torre del palazzo di Dresda, non

riuscirono ad accordarsi se la profezia si riferisse ai secoli futuri

o al tempo presente, e se non volesse forse alludere alla corona di

Polonia, con la quale i rapporti erano ancora molto ostili, la dotta

disputa, invece di dissipare l'inquietudine, per non dire la

disperazione, in cui si trovava l'infelice sovrano, non fece che

acccentuarla, accrescendola alla fine a tal punto, che diventò per il

suo animo assolutamente insopportabile. A questo si aggiunse che, più

o meno in quei giorni, il ciambellano incaricò sua moglie, che era sul

punto di seguirlo a Berlino, di far conoscere, con parole adatte,

all'Elettore, prima di partire, quanto fossero scarse, dopo il

tentativo fallito da lui compiuto per mezzo di una donna che non s'era

più fatta vedere, le speranze di venire in possesso del foglio

conservato da Kohlhaas, poiché la sentenza di morte pronunciata contro

di lui era stata, dopo un esame accurato degli atti, ormai firmata

dall'Elettore di Brandeburgo, e il giorno dell'esecuzione era già

fissato, per il lunedì successivo alla domenica delle Palme; notizia

alla quale il principe, con il cuore lacerato dal dolore e dal

rimorso, si chiuse, come un uomo senza più speranza, nella sua camera,

per due giorni, sazio della vita, non toccò cibo, e il terzo,

improvvisamente, dopo aver brevemente annunciato al governo che

sarebbe recato a caccia presso il principe di Dessau, sparì da Dresda.

Dove realmente andasse, e se si fosse diretto a Dessau, è questione

che lasciamo aperta, poiché le cronache dal cui confronto noi

ricaviamo questa relazione si contraddicono in modo strano, e si

annullano a vicenda, su questo punto. Certo è che, a quel tempo, il

principe di Dessau non era in condizione di andare a caccia, poiché

giaceva malato a Braunschweig, ospite di suo zio, il conte Enrico; e

che, la sera del giorno seguente donna Eloisa arrivava a Berlino

presso il ciambellano, messer Corrado, suo consorte, in compagnia di

un certo conte di Königstein, presentato da lei come suo cugino.

Nel frattempo, per ordine dell'Elettore, venne letta a Kohlhaas la

sentenza di morte, gli furono tolte le catene e gli furono

riconsegnati i documenti relativi al suo patrimonio, che a Dresda gli

erano stati tolti; e, poiché i consiglieri messi a sua disposizione

dal tribunale gli chiesero in che modo volesse provvedere, dopo la

morte, ai beni che possedeva, egli redasse, con l'aiuto di un notaio,

un testamento a favore dei figli, ed elesse, come tutore di questi,

l'onesto balivo di Pontekohlhaas, suo amico. Dopo di ciò, la

tranquillità e la contentezza dei suoi ultimi giorni furono senza

pari; poiché, per una particolare e straordinaria concessione del

principe Elettore, pochi giorni dopo anche le porte del carcere in cui

si trovava furono aperte, e fu concesso libero accesso a lui, giorno e

notte, a tutti gli amici, che erano molti, che aveva in città. Ed egli

ebbe perfino la soddisfazione di veder entrare nella sua prigione il

teologo Giacomo Freising, inviato dal dottor Lutero, con una lettera

di questi, scritta di suo pugno e senza dubbio assai notevole, la

quale, però, è andata perduta, e di ricevere da questo sacerdote, alla

presenza di due decani brandeburghesi, che coadiuvarono al rito, il

beneficio della santa comunione.

E così, tra la generale agitazione della città, che ancora non

riusciva a mettere da parte la speranza in un atto d'imperio che lo

salvasse, arrivò il fatale lunedì delle Palme in cui avrebbe dovuto

pagare al mondo il prezzo della riconciliazione, per il troppo

precipitoso tentativo di reintegrare da sé il proprio diritto. Stava

appunto uscendo, accompagnato da una poderosa scorta, con due dei suoi

bambini in braccio (concessione che egli aveva espressamente richiesto

al cospetto del tribunale), dalla porta della sua prigione, preceduto

dal teologo Giacomo Freising, quando, nel fitto accalcarsi dei

conoscenti che gli stringevano la mano, e prendevano, tristemente,

commiato, si fece strada fino a lui, con il viso turbato, il castaldo

del palazzo dell'Elettore, e gli diede un foglio che, così disse, gli

era stato consegnato per lui da una vecchia. Kohlhaas, guardando con

Stupore quell'uomo, che conosceva appena, aprì il foglio, il cui

sigillo, impresso nella ceralacca, gli ricordò immediatamente la

zingara a lui ben nota. Ma chi potrebbe descrivere il suo

sbalordimento, quando vi lesse il seguente messaggio: "Kohlhaas, il

principe Elettore di Sassonia è a Berlino; egli ti ha preceduto sulla

piazza dell'esecuzione, e, se ti interessa, potrai riconoscerlo dal

suo cappello, ornato da piume bianche e azzurre. L'intenzione che l'ha

guidato non serve che te la dica: vuole, non appena tu sarai sepolto,

far dissotterrare la capsula, e aprire il foglio che vi si trova. La

tua Lisabetta".

Kohlhaas, girandosi, totalmente sconvolto, verso il castaldo gli

chiese se sapeva chi fosse la misteriosa donna che gli aveva

consegnato il foglio. Ma quando il castaldo rispose: "Kohlhaas, la

donna...", e a metà del discorso, in modo strano si interruppe, egli,

trascinato dal corteo, che proprio in quel momento si era rimesso in

moto, non poté udire le parole che l'uomo, che sembrava tremare in

tutto il corpo, pronunciava.

Quando arrivò sulla piazza dell'esecuzione, vi trovò in attesa, fra

una sterminata moltitudine, il principe Elettore del Brandeburgo, a

cavallo, con il suo seguito, fra il quale era presente anche il Gran

Cancelliere, messer Enrico di Geusau: alla destra del principe

l'avvocato imperiale, Francesco Muller, con una copia della sentenza

di morte in mano, a sinistra del principe l'avvocato di questi, il

giurisperito Antonio Zauner, con le conclusioni del tribunale di corte

di Dresda; e, al centro del semicerchio, chiuso in fondo dal popolo,

un araldo con un fagotto in mano, e i due morelli, lustri e ben

pasciuti, che battevano il terreno con gli zoccoli. Infatti il Gran

Cancelliere, messer Enrico, aveva vinto la causa intentata a Dresda,

in nome del suo sovrano, contro il barone Venceslao di Tronka, punto

per punto e senza la minima limitazione; e di conseguenza i cavalli,

resi al loro onore dallo sventolio di una bandiera sopra le loro

teste, e poi ritirati dalle mani dello scortichino che li nutriva,

erano stati ingrassati dalla gente del barone, e, alla presenza dl una

commissione insediata a questo scopo, erano stati consegnati

all'avvocato, sulla piazza del mercato di Dresda.

Il principe Elettore, quando Kohlhaas, accompagnato dalla sua scorta,

avanzò sul rialto davanti a lui, parlò così:

"Ecco, Kohlhaas: oggi è il giorno in cui ti è resa giustizia! Guarda!

Io ti riconsegno ora tutto quello che ti fu con la violenza sottratto

al castello di Tronka, e che io, come tuo sovrano, ero tenuto a farti

restituire: i morelli, il fazzoletto, i fiorini, la biancheria, e

anche le spese per le cure al tuo servo Ersiano, caduto presso

Muhlberg. Sei contento di me?".

Kohlhaas, posati a terra accanto a sé i due bambini che aveva in

braccio, lesse velocemente, con gli occhi spalancati e raggianti, le

conclusioni del processo, che, a un cenno del Gran Cancelliere, gli

erano state consegnate; e poiché vi trovò anche una clausola con la

quale il barone Venceslao era condannato a due anni di prigione, si

lasciò cadere, da lontano, sopraffatto dai suoi sentimenti, in

ginocchio davanti all'Elettore, con le mani incrociate sul petto. Egli

assicurò con voce lieta al Gran Cancelliere, alzandosi e portandosi la

mano al petto, che il più grande desiderio che aveva in terra era

adempiuto; si avvicinò ai cavalli, li esaminò, ne palpò il collo sodo;

e dichiarò allegramente al Cancelliere, ritornando verso di lui, che

"li regalava ai suoi due figli, Enrico e Leopoldo".

Il Cancelliere, messer Enrico di Geusau, rivolgendosi a lui

benevolmente da cavallo, gli promise, in nome del principe Elettore,

che la sua ultima volontà sarebbe stata religiosamente rispettata, e

lo invitò a disporre come meglio riteneva anche delle altre cose

contenute nel fagotto. Allora Kohlhaas invitò la vecchia madre di

Ersiano, che aveva visto sulla piazza, a uscire dalla folla che aveva

intorno, e consegnandole il fagotto le disse: "Ecco, nonna, tutto ciò

ti appartiene"; aggiungendo al denaro che si trovava nel fagotto anche

la somma che aveva ricevuto come proprio indennizzo, che volle darle

in dono, come sostegno e conforto per i suoi ultimi giorni.

"Adesso, Kohlhaas, mercante di cavalli", esclamò il principe Elettore,

"al quale è stata data in questo modo soddisfazione, preparati a dare

a tua volta soddisfazione a Sua Maestà l'imperatore, l'avvocato del

quale è al mio fianco, per la rottura della pubblica pace!".

Kohlhaas, togliendosi il cappello e gettandolo al suolo, disse che era

pronto! Affidò i suoi bambini, dopo averli presi su da terra ancora

una volta, e stretti al petto, al balivo di Pontekohlhaas, e, mentre

questi, con lacrime silenziose, li portava via dalla piazza, si

avvicinò al ceppo. Stava per l'appunto sciogliendosi il fazzoletto dal

collo, e aprendosi il giustacuore, quando, guardando di sfuggita il

cerchio formato dal popolo, scorse, a breve distanza da sé, fra due

cavalieri che lo coprivano a metà coi loro corpi, l'uomo ben noto

dalle piume bianche e azzurre. Con uno scarto improvviso, che sorprese

la scorta che lo circondava, Kohlhaas gli andò proprio davanti, si

sciolse dal petto la capsula, ne tirò fuori il foglio, ruppe il

sigillo e lo lesse: e con gli occhi fissi sull'uomo dalle piume

bianche e azzurre, che già cominciava a nutrire dolci speranze, lo

mise in bocca e lo inghiottì. L'uomo dalle piume bianche e azzurre, a

quella vista, preso da convulsioni, cadde svenuto. Kohlhaas, mentre

gli accompagnatori di quell'uomo si chinavano, affranti, su di lui e

lo tiravano su da terra, si girò verso il patibolo, dove la sua testa

cadde sotto la scure del boia.

Qui finisce la storia di Kohlhaas. Si depose la salma nella bara, fra

il compianto unanime del popolo; e, mentre i necrofori la sollevavano,

per darle degna sepoltura nel camposanto fuori città, il principe

Elettore chiamò a sé i figli del defunto e dichiarando al Gran

Cancelliere che dovevano essere educati nella scuola dei paggi di

corte, li armò cavalieri. Il principe Elettore di Sassonia ritornò

poco dopo, straziato nel corpo e nell'anima, a Dresda, e quello che

accadde dopo va letto nella storia. Ma di Kohlhaas nel secolo scorso

vivevano ancora nel Meclemburgo alcuni felici e gagliardi discendenti.