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MICHELE KOHLHAAS di Heinrich von Kleist.
(Da una vecchia cronaca)
Lungo le rive della Havel viveva, verso la metà del sedicesimo secolo,
un mercante di cavalli, chiamato Michele Kohlhaas, figlio di un
maestro di scuola: uno degli uomini più onesti e insieme più
spaventosi del suo tempo. Quest'uomo fuori dell'ordinario sarebbe
potuto passare fino al suo trentesimo anno come il modello del buon
cittadino. Aveva una fattoria, in un villaggio che porta ancora oggi
il suo nome, e ci viveva pacificamente, con i frutti del suo lavoro; i
bambini che sua moglie gli aveva dato li tirava su nel timore di Dio,
laboriosi e leali; non c'era uno dei suoi vicini che non avesse
provato i benefici della sua generosità, o della sua giustizia; il
mondo, in breve, avrebbe dovuto benedirne la memoria, se non avesse
ecceduto in una virtù. Il senso di giustizia, infatti, fece di lui un
brigante e un assassino.
Un giorno egli era diretto oltre il confine, con un branco di cavalli
giovani, tutti lucidi e ben pasciuti, e rifletteva per l'appunto su
come avrebbe impiegato il guadagno che sperava di ricavarne nei
mercati (un po', da buon massaro, lo avrebbe investito, perché
fruttasse a sua volta, ma un po', anche, se lo sarebbe goduto
all'istante), quando arrivò all'Elba, e qui si imbatté, nei pressi di
un maestoso castello, in territorio sassone, in una barriera che prima
di allora non aveva mai trovato su quella strada. Fermò i cavalli,
mentre proprio in quel momento si scatenava un acquazzone, e chiamò il
cantoniere, che non tardò, con viso burbero, ad affacciarsi alla
finestra. Il mercante di cavalli gli disse di aprire.
"Che novità è questa?", chiese, quando il gabelliere, dopo un bel po'
di tempo, uscì dalla casa.
"Privilegio signorile", rispose questi, armeggiando con la serratura
per aprire, "concesso al barone Venceslao di Tronka".
"Ah", fece Kohlhaas, "il barone si chiama Venceslao?", e rimirò il
castello, che dominava i campi con i suoi merli scintillanti. "E'
morto il vecchio signore?".
"Morto, gli ha preso un colpo", rispose il gabelliere, e alzò l'albero
che faceva da sbarra.
"Hm, peccato!", aggiunse Kohlhaas. "Un degno signore, il vecchio, che
aveva piacere a intrattenersi con la gente, e tutte le volte che
poteva dava una mano ai traffici e ai commerci; una volta fece
costruire un argine di pietre perché, là dietro, dove la strada sbocca
nel villaggio, una delle mie cavalle si era spezzata una gamba.
Dunque, quanto devo?", domandò; e cominciò a tirare fuori con fatica,
da sotto il mantello sbattuto dal vento, i soldi che il gabelliere gli
aveva chiesto.
"Sì, vecchio mio", aggiunse ancora, dal momento che quello brontolava
"Svelto! Svelto!", e imprecava contro il maltempo: "Se l'albero se ne
fosse rimasto nel bosco, sarebbe stato meglio, per me e per voi". E,
così dicendo, gli diede il denaro e fece per proseguire. Ma non era
nemmeno arrivato sotto la stanga, che già un'altra voce gli urlava
dietro "Alto là, sensale!", dalla torre di guardia; e lui vide il
castaldo sbattere una finestra e precipitarsi verso di lui.
"Be', che novità è questa?", si domandò Kohlhaas fra sé, fermandosi
con i suoi cavalli. Il castaldo arrivò, allacciandosi ancora il
panciotto sulla figura corpulenta, e, piantato di traverso contro le
raffiche di vento, chiese il lasciapassare. "Lasciapassare?", chiese
Kohlhaas. E disse, un po' confuso, che, per quanto ne sapesse, non
l'aveva: ma se solo avessero voluto descrivergli, bontà divina, che
specie di roba era, quel lasciapassare, magari poteva anche darsi che
per caso lo avesse.
Il castaldo, guardandolo storto, replicò che, senza un permesso
scritto del sovrano, a nessun sensale era permesso di superare il
confine con i suoi cavalli. Il sensale assicurò che per diciassette
volte, nel corso della sua vita, aveva passato il confine senza un
permesso simile; e che lui conosceva perfettamente tutte le
disposizioni sovrane che riguardavano la sua attività; non poteva
trattarsi, dunque, che di un errore; pregava, perciò, che volessero
ripensarci, e non trattenerlo ancora laggiù senza ragione, visto che
la sua giornata di viaggio era assai lunga. Ma il castaldo ribatté che
la diciottesima non l'avrebbe fatta franca, che proprio per questo era
stata recentemente emanata quella nuova ordinanza, e che, se non si
fosse procurato lì per lì il lasciapassare, avrebbe dovuto
ritornarsene di dove era venuto. Il mercante, che cominciava a
irritarsi per quelle estorsioni illegali, scese, dopo una breve
riflessione, da cavallo, lo affidò a un servo, e disse che ne avrebbe
parlato di persona con il barone di Tronka. E salì infatti al
castello; il castaldo gli andò dietro, borbottando di affaristi
spilorci e di giusti salassi; e, misurandosi a vicenda con lo sguardo,
i due entrarono insieme nella sala.
Il barone stava bevendo in mezzo a un'allegra brigata di amici, e una
facezia aveva appena fatto esplodere fra loro un'interminabile risata,
quando Kohlhaas gli si avvicinò per fargli le sue rimostranze. Il
barone gli chiese che cosa volesse; i cavalieri, quando videro lo
sconosciuto, ammutolirono; ma non appena questi ebbe iniziato a
esporre le sue richieste, riguardo ai cavalli, tutta la brigata saltò
su, gridando "Cavalli? Dove sono?", e corse alle finestre per
guardarli. Quando videro quella splendida mandria, scesero di corsa,
su proposta del barone, nel cortile; la pioggia era cessata; il
castaldo, il fattore, i servi si radunarono intorno a loro, e tutti
passarono in rassegna gli animali. Uno lodava il sauro fulvo con la
macchia bianca, a un altro piaceva il baio, il terzo accarezzava il
pomellato a macchie gialle e nere; e tutti dicevano che quei cavalli
sembravano dei cervi, e in tutto il paese non se ne allevavano di più
belli. Kohlhaas ribatté allegramente che i cavalli non erano migliori
dei cavalieri che li avrebbero montati; e li invitò a comperare. Il
barone, molto attirato dal poderoso stallone sauro, gli chiese il
prezzo; il fattore gli consigliò di acquistare un paio di morelli che
pensava di poter utilizzare nei lavori agricoli, perché cavalli ce
n'erano pochi; ma, quando il sensale tirò fuori i prezzi, i cavalieri
li trovarono troppo cari, e il barone disse che, se pretendeva tanto
per quelle bestie, doveva cavalcare fino alla Tavola Rotonda, e andare
alla ricerca di Re Artù.
Kohlhaas, vedendo il castaldo e il fattore bisbigliare tra loro, e
lanciare ai morelli delle occhiate eloquenti, fece, per un oscuro
presentimento, di tutto, perché si tenessero quei due animali. Disse
al barone: "Signore, i morelli li ho acquistati sei mesi fa, per
venticinque fiorini d'oro; datemene trenta, e li avrete". Due
cavalieri che stavano vicino al barone dissero apertamente che i
cavalli li valevano sicuramente; ma il barone dichiarò che era
disposto a spendere per il sauro, casomai, non per i morelli, e fece
per andarsene. Allora Kohlhaas disse che forse avrebbe concluso un
affare con lui la prossima volta, quando fosse ripassato con i suoi
cavallucci, fece al barone i suoi rispetti, e afferrò le briglie della
sua cavalcatura, per ripartire. Ma in quel momento il castaldo uscì
dal crocchio, dicendo che senza un lasciapassare, l'aveva sentito, non
avrebbe potuto andarsene.
Kohlhaas si girò, e chiese al barone se fosse proprio vera quella
faccenda, che rovinava tutta la sua attività. Il barone rispose, con
aria imbarazzata, allontanandosi: "Sì, Kohlhaas, devi procurarti il
lasciapassare. Parlane con il castaldo, e va' per la tua via".
Kohlhaas gli assicurò che non aveva nessuna intenzione di eludere le
ordinanze sull'esportazione dei cavalli, qualsiasi fossero, promise
che, passando da Dresda, sarebbe andato a prendere il lasciapassare
alla Cancelleria, e lo pregò di lasciarlo passare solo per quella
volta, visto che non aveva saputo proprio niente di una richiesta di
quel genere.
"E va bene!", disse il barone, mentre il temporale, proprio in quel
momento, riprendeva, e il vento sibilando gli passava da parte a parte
le membra rinsecchite. "Lasciate andare questo poveraccio. Venite!",
disse rivolto ai cavalieri, si girò e si accinse a rientrare al
castello. Il castaldo, rivolto al barone, disse che il mercante doveva
almeno lasciare un pegno, per essere certi che andasse a ritirare il
documento. Il barone si fermò di nuovo, sotto il portone del castello.
Kohlhaas chiese quale valore, in denaro o in oggetti, dovesse
lasciare, come pegno per i morelli. Il fattore, masticando le parole
nella barba, disse che poteva lasciare per l'appunto i morelli.
"Sicuro", disse il castaldo; "è la cosa più conveniente; quando ha
ritirato il lasciapassare, può venire a riprenderseli in qualsiasi
momento".
Kohlhaas, sconcertato da una richiesta così sfacciata, disse al
barone, che si stringeva addosso intirizzito il giustacuore, che i
morelli li voleva vendere. Ma questi, mentre in quell'attimo una
raffica lanciava attraverso il portone uno scroscio di pioggia mista a
grandine, gridò, per mettere fine alla cosa: "Se non vuol mollare i
cavalli, ributtatelo al di là dello sbarramento", e se ne andò. Il
sensale, rendendosi conto che doveva pur cedere alla violenza, decise
di accogliere la richiesta, visto che non gli rimaneva altro da fare;
sciolse i morelli, e li portò in una stalla indicatagli dal castaldo.
Lasciò con le bestie un servo, gli diede del denaro, gli raccomandò di
tenere ben d'occhio i cavalli fino al suo ritorno, e proseguì, con il
resto della mandria, il suo viaggio verso Lipsia, dove voleva andare
alla fiera; rimuginando, incerto, fra sé e sé, se forse, alla fine, in
Sassonia non potesse essere stato emanato un tale ordine, per
proteggere qualche nuovo allevamento di cavalli.
A Dresda, dove possedeva, nei sobborghi, una casa con alcune stalle,
perché quella era la base dei suoi commerci sui mercati minori della
regione, andò subito, appena arrivato, alla Cancelleria; e qui venne a
sapere dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva, che, come aveva
sospettato, in realtà, fin dal primo momento, la storia del
lasciapassare era inventata di sana pianta. Kohlhaas, dopo che i
consiglieri, controvoglia, gli ebbero rilasciato, su sua richiesta,
una dichiarazione scritta che ne attestava l'infondatezza, sorrise
allo scherzo dell'allampanato barone, anche se non capiva ancora bene
a che cosa avesse potuto mirare; e, venduto con soddisfazione, poche
settimane dopo, il branco di cavalli che aveva con sé, senza portarsi
ormai dietro più amarezza se non quella sulla generale miseria del
mondo, fece ritorno al castello di Tronka.
Il castaldo, al quale mostrò la dichiarazione, non aggiunse parola
sull'argomento; e quando il sensale gli chiese se ora poteva riavere i
cavalli, rispose che scendesse, e andasse a prenderseli. Ma già
attraversando il cortile Kohlhaas ebbe la spiacevole sorpresa di
venire a sapere che il suo servo, solo pochi giorni dopo essere stato
lasciato nel castello, per il suo contegno sconveniente, a quanto
dicevano, era stato bastonato e cacciato via. Al ragazzo che gli aveva
dato la notizia Kohlhaas chiese che cosa avesse fatto, e chi si fosse
occupato, nel frattempo, dei cavalli; al che il ragazzo rispose di non
saperlo, mentre apriva davanti a lui, che aveva già il cuore pieno di
presentimenti, la stalla in cui si trovavano. Quale fu però il suo
stupore, quando, al posto dei suoi due morelli lucidi e ben pasciuti,
vide un paio di allampanati e smagriti ronzini; ossa che sarebbero
potute servire per appenderci i panni, pelo e criniere intrecciate,
che nessuno aveva pulito e rigovernato: il vero ritratto dello
squallore nel regno animale!
Kohlhaas, al quale le bestie nitrirono, con un debole movimento, era
al culmine dell'indignazione, e chiese che cosa fosse successo ai suoi
poveri cavalli. Il ragazzo, che stava al suo fianco, rispose che no,
alle bestie non era successa nessuna disgrazia, e avevano sempre
ricevuto la loro razione di biada, ma dato che era appunto il tempo
del raccolto, e mancavano animali da tiro, erano stati adoperati un
po' nei campi. Kohlhaas inveì contro quell'infame sopruso, di certo
progettato con cura, ma, sentendosi impotente, ingoiò la sua rabbia, e
stava già preparandosi visto che non gli rimaneva altro, ad andarsene
con i suoi cavalli da quel covo di briganti, quando comparve il
castaldo, richiamato dal battibecco, e chiese che cosa stava
accadendo. "Che cosa succede?", rispose Kohlhaas. "Chi ha dato al
barone di Tronka e alla sua gente il permesso di servirsi per il
lavoro dei campi dei miei morelli, che avevo lasciato presso di lui? -
Era umano", aggiunse, "comportarsi così?". E provò a scuotere gli
animali esausti con un colpo di frusta, facendogli vedere che non si
muovevano nemmeno. Il castaldo, dopo averlo squadrato per un po', con
aria di sfida, replicò: "Vedi un po' il tanghero! Come se non dovesse
ringraziare Iddio, il villano, che i suoi ronzini sono ancora vivi. E
chi avrebbe dovuto prendersene cura", chiese, "dopo che il suo servo
se n'era scappato? Non era stato forse giusto che i cavalli si
guadagnassero sui campi il foraggio che avevano ricevuto?". E chiuse
il discorso dicendo che la smettesse di fare storie, o avrebbe
chiamato i cani, e con essi avrebbe saputo come riportare la calma nel
cortile.
Al mercante batteva il cuore contro la giacca. Faceva fatica a non
buttare quell'ignobile grassone in mezzo al letame e a non calpestare
col piede la sua faccia di bronzo. Ma il suo senso di giustizia, che
era come la bilancia dell'orafo, oscillava ancora; davanti al
tribunale del suo cuore, non era ancora sicuro che il suo avversario
fosse colpevole; e, mentre ingoiando gli insulti si avvicinava ai
cavalli e, soppesando in silenzio le circostanze, ravviava alle bestie
la criniera, chiese a voce bassa per quale mancanza il suo servo fosse
stato allontanato dal castello. "Perché quella lenza si è messo a fare
il gradasso, qui nel cortile!", rispose il castaldo. "Perché si è
rifiutato di accettare un cambio di stalla di cui non si poteva fare a
meno, e pretendeva che i cavalli di due gentiluomini arrivati al
castello di Tronka passassero la notte sulla strada maestra, per amore
dei suoi ronzini!".
Kohlhaas avrebbe dato il valore dei cavalli per avere a portata di
mano il suo servo, e poter confrontare il suo racconto con quello che
usciva dalla boccaccia del castellano. Era sempre là in piedi,
districando i crini arruffati dei morelli, e riflettendo sul da farsi,
nella situazione in cui si trovava, quando la scena cambiò di colpo, e
il barone Venceslao di Tronka, con una frotta di cavalieri, di servi e
di cani, tornando dalla caccia alla lepre entrò nel piazzale del
castello. Il castaldo, quando gli venne chiesto che cosa fosse
successo, prese subito la parola, e, mentre i cani, vedendo il
forestiero, scatenavano contro di lui dei latrati d'inferno, e i
cavalieri a loro volta gridavano per farli star zitti, riferì al suo
padrone, mettendo il fatto nella luce peggiore, che specie di rivolta
avesse messo su quel cavallaro, perché si erano fatti lavorare un po'
i suoi morelli. E disse, fra risate di scherno, che rifiutava di
riconoscere i cavalli come suoi.
"NON SONO i miei cavalli, signore illustrissimo!", gridò Kohlhaas.
"Non sono i CAVALLI che valevano trenta fiorini d'oro! Voglio riavere
i miei cavalli sani e ben nutriti!".
Il barone per un attimo impallidì, e disse, scendendo di sella: "Se
mastro Bertoldo non vuole riprendersi i cavalli che li lasci pure qui.
Vieni qua, Guntiero!", gridò. "Gianni! Venite qua!", e intanto si
spazzolava con la mano la polvere dai pantaloni. "Portate del vino!",
gridò ancora, quando fu sulla soglia con i cavalieri; ed entrò in
casa. Kohlhaas disse che avrebbe preferito chiamare lo scortichino, e
portare i suoi cavalli al macello, piuttosto che riportarseli nella
sua stalla a Pontekohlhaas così come erano. Lasciò le bestie sul
piazzale, senza occuparsene più, saltò sul suo baio, assicurando che
avrebbe saputo farsi giustizia, e se ne andò.
Correva già, a spron battuto, sulla strada di Dresda; ma, ripensando
al suo servo, e alle accuse che avevano mosso contro di lui al
castello, si mise al passo; e, prima di averne fatti mille, girò il
cavallo, e, per interrogare innanzi tutto il suo servo, cosa che gli
sembrava prudente e giusta, girò verso Pontekohlhaas. Perché un
sentimento di giustizia, al quale era ben conosciuto l'ordine
imperfetto delle cose umane, lo rendeva propenso, malgrado le offese
subite, se soltanto il suo servo avesse commesso una colpa qualsiasi,
come diceva il castaldo, a rassegnarsi, come se fosse stata una
giusta conseguenza, alla perdita dei cavalli. Ma se, di contro, gli
diceva un sentimento non meno imperioso, un sentimento che metteva in
lui radici sempre più profonde, man mano che egli continuava nella sua
cavalcata, e, dovunque entrasse, sentiva parlare delle ingiustizie
quotidianamente commesse al castello di Tronka, a danno dei
viaggiatori: se l'intera storia, come tutte le apparenze facevano
credere, non era altro che una macchinazione, allora egli aveva, di
fronte al mondo, il dovere di procurarsi, con tutte le sue forze,
soddisfazione per l'offesa subita, e ai suoi concittadini sicurezza
contro offese future.
Non appena, arrivato a Pontekohlhaas, ebbe abbracciato Lisabetta, la
sua fedele moglie, e baciato i suoi figli, che gli facevano festa
intorno alle ginocchia, chiese subito di Ersiano, il capo della
servitù: se ne era saputo qualcosa?
"Già, Michele carissimo, proprio Ersiano!", disse Lisabetta. "Pensa un
po', quel poveraccio, saranno quindici giorni, arriva qui tutto pesto
da far pietà; no, ti dico, così conciato da non riuscire neppure a
respirare. Lo mettiamo a letto, dove non fa che sputare sangue, e a
forza di domande veniamo a sapere una storia che nessuno capisce. Che
è stato lasciato indietro da te a Castel Tronka, con dei cavalli che
non hanno lasciato passare; che l'hanno costretto, con i
maltrattamenti più vergognosi, a lasciare il castello; e che non ha
potuto portarsi via i cavalli".
"Ah sì?", disse Kohlhaas, togliendosi il mantello. "E si è già
rimesso?".
"Metà e metà; ma sputa ancora sangue", rispose lei. "Volevo mandare
subito un servo a Castel Tronka, perché si prendesse cura dei cavalli,
fino al tuo ritorno. Perché Ersiano si è sempre dimostrato così
sincero con noi, e così fedele, sì, più di tutti gli altri servi, che
non mi è nemmeno venuto in mente di dubitare del suo racconto,
confermato da tanti particolari; e di credere, per esempio, che avesse
perso i cavalli in un altro modo. Ma lui mi scongiurò di non
pretendere da nessuno di metter piede in quel covo di briganti, e di
rinunciare alle bestie, se non volevo, per loro, sacrificare degli
uomini".
"E' ancora a letto?", domandò Kohlhaas, liberandosi della sciarpa.
"E' già da qualche giorno che ha ricominciato a uscire nel cortile.
Insomma, vedrai", continuò Lisabetta, "che è proprio tutto come lui ha
detto, e che questa faccenda è una delle angherie che, da un po' di
tempo, quelli di Castel Tronka si permettono contro i forestieri".
"Prima di tutto vedrò coi miei occhi", replicò Kohlhaas. "Fallo venire
un po' qua, Lisabetta, se è in piedi!". E con queste parole si
sedette, mentre la donna, molto contenta che la prendesse così calma,
andò a chiamare il servo.
"Che cosa hai combinato a Castel Tronka?", gli domandò Kohlhaas,
quando Lisabetta rientrò con lui nella stanza. "Non sono troppo
contento di te".
Il servo, il cui viso pallido si coprì di macchie rosse, a queste
parole, restò per un po' in silenzio, e poi rispose:
"Avete ragione, padrone! Perché la miccia che, per volontà di Dio,
avevo con me, per dare fuoco a quel covo di briganti da cui ero stato
scacciato, la buttai, quando sentii piangere un bambino nel castello,
nelle acque dell'Elba, e pensai: possa ridurlo in cenere la folgore
divina! Io non lo farò".
Impressionato, Kohlhaas disse: "E in che modo ti sei fatto cacciare da
Castel Tronka?". E Ersiano:
"Con un tiro mancino, padrone!". E si asciugò il sudore dalla fronte.
"Ma cosa fatta capo ha. Non volevo che rovinassero i cavalli nel
lavoro dei campi; ho detto che erano giovani, che non erano ancora mai
stati aggiogati".
Kohlhaas, cercando di nascondere il suo turbamento, rispose che qui
non aveva detto tutta la verità, perché all'inizio della primavera
scorsa i cavalli, qualche volta, erano stati messi al tiro. "Al
castello", continuò, "dove, in fondo, eri una specie di ospite,
avresti dovuto farti vedere compiacente, almeno qualche volta, quando
c'era proprio bisogno, per portare alla svelta il raccolto al
coperto".
"E' quello che ho fatto, padrone", disse Ersiano. "Ho pensato, visto
che mi guardavano male, che i morelli non sarebbero morti per questo.
La mattina del terzo giorno li attaccai, e portai dentro tre carichi
di grano".
Kohlhaas, al quale il cuore stava per scoppiare, chinò gli occhi a
terra, e commentò: "Di questo non mi hanno detto niente, Ersiano!".
Ersiano lo assicurò che era andata così. "La mia poca compiacenza è
stata questa: che non volli più riaggiogarli a mezzogiorno, quando i
cavalli non avevano neppure finito la biada. E quando il castaldo e il
fattore mi proposero, in cambio, il foraggio, e mi dissero di mettere
in tasca il denaro che voi mi avevate lasciato per il mantenimento
delle bestie, io risposi 'vi faccio vedere io,' gli girai le spalle, e
me ne andai".
"Ma non è stato per questa poca compiacenza", disse Kohlhaas, "che ti
hanno scacciato da Castel Tronka".
"Dio ne guardi!", gridò il servo. "Per un'azione che grida vendetta a
Dio. Perché quella sera portarono nella stalla i cavalli di due
cavalieri, arrivati a Castel Tronka, e i miei vennero legati fuori,
alla porta della stalla. E quando levai i morelli di mano al castaldo,
che ce li legava personalmente, e gli chiesi dove dovevano stare,
adesso, le mie bestie, lui mi indicò un porcile, fatto di assi e di
tavole, accostato al muro di cinta.
"Vuoi dire", lo interruppe Kohlhaas, "che era un così brutto riparo,
per dei cavalli, che assomigliava più a un porcile che a una stalla".
"Era un porcile, padrone", rispose Ersiano "Un porcile vero e proprio,
dove i maiali correvano avanti e indietro, e io non potevo stare in
piedi".
"Forse non c'era nessun altro posto, dove mettere al riparo i
morelli", replicò Kohlhaas. "In un certo senso i cavalli degli ospiti
avevano la precedenza".
"Lo spazio", continuò il servo, abbassando la voce, "era poco. In
tutto allora c'erano sette cavalieri che alloggiavano al castello. Se
foste stato voi, avreste fatto stringere un po' i cavalli. Dissi che
mi sarei cercato una stalla da affittare nel villaggio; ma il castaldo
mi rispose che i morelli non doveva perderli d'occhio, e non mi
azzardassi a portarli via dal cortile".
"Hm", fece Kohlhaas; "e tu che hai risposto?".
"Dato che il fattore disse che i due ospiti avrebbero passato soltanto
la notte, e il mattino dopo avrebbero proseguito, rinchiusi i cavalli
nel porcile. Ma il giorno seguente passò, e non partirono; e quando
venne il terzo giorno, dissero che i signori si sarebbero trattenuti
al castello per qualche settimana".
"Alla fin fine non si stava poi così male nel porcile, come ti era
sembrato quando ci avevi messo il naso la prima volta", disse
Kohlhaas.
"E' vero", rispose il servo. "Quando l'ebbi spazzato un po', il posto
poteva andare. Ho dato due soldi alla sguattera, perché andasse a
mettere i maiali da qualche altra parte. E il giorno dopo mi
preoccupai anche che le bestie potessero stare in piedi; alla prima
luce dell'alba, tolsi le tavole del soffitto, e ce le rimisi la sera.
Così allungavano il collo, come le oche, sopra il tetto, e si
guardavano intorno, cercando Pontekohlhaas, o qualche altro posto,
dove stare meglio di là".
"Ma insomma", domandò Kohlhaas, "per quale motivo ti hanno cacciato
via?".
"Padrone, ve lo dico io", rispose il servo. "Perché volevano liberarsi
di me. Perché, finché c'ero io, non potevano sfiancare del tutto i
cavalli. Da tutte le parti mi guardavano in cagnesco, in cortile, nei
locali della servitù. E dato che io pensavo, mi storcete la bocca? vi
si sloghino le mascelle!, hanno preso il primo pretesto che gli è
venuto a tiro, e mi hanno buttato fuori".
"Ma il motivo!", gridò Kohlhaas. "Avranno pur avuto qualche motivo!".
"Oh, sicuro", rispose Ersiano, "un motivo giustissimo. La sera del
secondo giorno che avevo passato nel porcile, presi i cavalli, che si
erano tutti insudiciati, e volevo portarli allo stagno. E quando sono
giù, sotto il portone principale, e sto per girare, sento il castaldo
e il fattore, con servi, cani e randelli, precipitarsi dietro di me
dalle stanze della servitù, gridando: 'Ferma, furfante! Ferma,
pendaglio da forca!', come se fossero invasati. Il guardaportone mi
sbarra la strada; io chiedo a lui, e a quel mucchio di forsennati che
mi corrono dietro, che cosa succede. 'che cosa succede?' risponde il
castaldo, e prende per le briglie i miei due morelli. 'Dove vuole
andarsene, questo, coi cavalli?'. E mi agguanta per la camicia. 'Dove
voglio andarmene, dico io? Fulmini del cielo! Allo stagno me ne voglio
andare. Ma pensate che io...?'. 'Allo stagno?', grida il castaldo. 'Ti
insegno io a fare il bagno sulla strada maestra, imbroglione, dalla
parte di Pontekohlhaas!' E con un colpo vigliacco a tradimento lui e
il fattore, che mi aveva preso per una gamba, mi tirano giù da
cavallo, e finisco nel fango lungo disteso. Morte e dannazione!,
grido: ma se i finimenti e le coperte sono nella stalla, e c'è anche
il mio fagotto della biancheria! Ma lui e i servi, mentre il fattore
si porta via i cavalli, mi danno tutti addosso, coi calci, e le fruste
e i randelli, finché cado, mezzo morto, al di là del portone. E visto
che io grido: Briganti! Dove mi portate i cavalli?, e mi tiro su,
'Fuori di qui!', urla il castaldo; 'Dai, Cesare! Dai, Bracco!', si
sente gridare, e: 'Dai, Lupo!'; e mi piomba addosso una muta di una
dozzina di cani, e più. Allora io prendo, non so che cosa, un palo
doveva essere, dalla staccionata, e tre cani li stendo giù vicino a
me, morti stecchiti; ma il dolore per i morsi e i tagli, che fanno
spavento a vedersi, mi costringe a indietreggiare; e allora, fiuu!,
sibila un fischio, i cani rientrano, il portone chiude i battenti,
mettono il catenaccio: e io cado svenuto sulla strada".
Kohlhaas, pallido in viso, fece ancora, con malizia un po' forzata:
"Ma proprio non te la volevi filare, Ersiano?". E poiché lui,
paonazzo, fissava per terra, davanti a sé: "Via, confessa", continuò,
"non ti piaceva stare nel porcile, pensavi che nella stalla di
Pontekohlhaas si sta meglio".
"Tuoni e fulmini!", gridò Ersiano. "Non ho forse lasciato laggiù, nel
porcile, le coperte e i finimenti, e un fagotto di biancheria? E non
mi sarei messo in tasca i tre fiorini imperiali che avevo nascosto
dietro la mangiatoia, nel fazzoletto di seta rossa? Per tutti i
diavoli dell'inferno! Quando parlate così, mi viene voglia di
riaccendere subito quella miccia che ho buttato via!".
"Su, su!", disse il mercante. "Non intendevo offenderti. Quello che
hai detto, guarda, lo credo parola per parola. E se qualcuno lo mette
in dubbio, sono pronto a prenderci su l'ostia consacrata. Mi dispiace
che, per servirmi, non ti sia andata meglio. Vai, Ersiano, vattene a
letto, fatti dare un fiasco di vino, e consolati: ti sarà fatta
giustizia!".
E, così dicendo, si alzò, fece un elenco delle cose che il suo
sottoposto aveva lasciato nel porcile, ne specificò il valore, gli
chiese, anche, quanto valutasse le spese per la cura, e lo congedò,
dopo avergli dato, ancora una volta, la mano.
Poi raccontò a Lisabetta, sua moglie, per filo e per segno, come erano
andate le cose, e cosa c'era sotto, e le dichiarò di essere fermamente
intenzionato a ricorrere alla pubblica giustizia; ed ebbe la gioia di
vedere che lei lo incoraggiava con tutta l'anima nel suo proposito.
Lei disse, infatti, che molti altri viaggiatori, forse meno pazienti
di lui, sarebbero passati per quel castello, che sarebbe stata
un'opera benedetta mettere un freno a tali disordini, e che ci avrebbe
pensato lei a mettere insieme la somma necessaria per affrontare le
spese del processo. Kohlhaas la chiamò la sua brava moglie, passò
felicemente con lei e con i suoi figli quel giorno e quello seguente,
e, non appena gli affari gliene diedero modo, si mise in viaggio per
Dresda, per portare in giudizio la sua querela.
Qui, con l'aiuto di un avvocato che conosceva, stese un ricorso, nel
quale, dopo una descrizione dettagliata del sopruso compiuto dal
barone Venceslao di Tronka, contro lui stesso, e contro il suo servo
Ersiano, chiedeva che il colpevole fosse punito secondo la legge, che
i cavalli fossero riportati nelle condizioni originarie, e che fossero
risarciti i danni che sia egli, sia il suo servo, avevano subìto da
tutto ciò. La causa, infatti, era chiara. La circostanza che i cavalli
fossero stati trattenuti in modo illegittimo gettava su tutto il resto
una luce decisiva; e, anche se si fosse voluto supporre che i cavalli
si fossero ammalati per puro caso, la richiesta del sensale di
riaverli indietro in buona salute sarebbe stata comunque giustificata.
E, mentre Kohlhaas si guardava intorno nella città di residenza del
principe, non gli mancarono amici che gli promisero di sostenere a
spada tratta le sue ragioni; il suo commercio di cavalli, molto
esteso, la conoscenza e l'onestà con cui lo portava avanti, gli aveva
procurato la benevolenza degli uomini più importanti del paese. Più
volte egli sedette allegramente a tavola, in casa del suo avvocato,
che era a sua volta una persona in vista; depositò presso di lui una
somma per far fronte alle spese processuali, e, passate poche
settimane, completamente tranquillizzato da quello riguardo all'esito
della causa, se ne tornò a Pontekohlhaas da Lisabetta, sua moglie.
Eppure i mesi passarono, e l'anno era quasi finito, senza che egli
ricevesse dalla Sassonia neanche una dichiarazione sulla querela da
lui intentata, per non parlare della sentenza. Dopo aver inoltrato più
volte ripetuti solleciti al tribunale, egli scrisse al suo avvocato
una lettera confidenziale, in cui gli chiedeva la causa di un ritardo
così eccessivo; e venne a sapere che, per un intervento molto
altolocato, presso il tribunale di Dresda, la sua querela era stata
definitivamente cassata. Quando il mercante riscrisse, sbalordito,
chiedendone le ragioni, questi gli comunicò che il barone Venceslao di
Tronka era parente di due nobiluomini, Enzo e Corrado di Tronka, che
facevano parte del seguito personale del principe, coppiere l'uno, e
l'altro addirittura camerlengo. E gli consigliava di mettere da parte
ogni sforzo, dal punto di vista legale, e cercare solo di tornare in
possesso dei suoi cavalli, rimasti nel castello di Tronka; gli faceva
capire, infatti, che il barone, che al momento soggiornava nella
capitale, sembrava aver dato disposizione alla sua gente di
consegnargli i cavalli; e concludeva pregandolo, se non voleva
accontentarsi di una simile soluzione, di dispensare almeno lui da
ogni ulteriore incarico.
Kohlhaas, in quel periodo, si trovava per l'appunto a Brandeburgo,
dove il prefetto Enrico di Geusau, della cui giurisdizione faceva
parte anche Pontekohlhaas, era in quel momento impegnato a organizzare
un certo numero di istituti per l'assistenza ai poveri e agli
ammalati, grazie a un lascito sostanzioso che era toccato alla città.
E soprattutto si dava da fare per adattare ad uso degli infermi una
fonte minerale che scaturiva in un villaggio della regione, e dalle
cui virtù salutari ci si riprometteva molto di più di quanto il futuro
poi mantenesse. Poiché Kohlhaas l'aveva conosciuto e frequentato,
durante il periodo in cui aveva soggiornato presso la corte, questi
permise a Ersiano, il capo dei servi, al quale, da quei brutti giorni
al castello di Tronka, era rimasto un dolore al petto, ogni volta che
respirava, di sperimentare l'efficacia della piccola fonte
medicamentosa, nella quale era stato costruito un recinto coperto.
Accadde che, proprio mentre Kohlhaas riceveva, dalle mani di un
messaggero, mandato da sua moglie, la lettera scoraggiante del suo
avvocato di Dresda, il prefetto fosse presente, per dare alcune
disposizioni, vicino a bordo della vasca nella quale il mercante aveva
fatto adagiare Ersiano. Il prefetto, che, parlando con il medico,
aveva notato che Kohlhaas faceva cadere una lacrima sulla lettera che
aveva ricevuto e aperto, gli si avvicinò, con fare gentile e
premuroso, e gli chiese quale sventura lo avesse colpito. E quando il
mercante, senza rispondere, gli tese la lettera, quell'uomo per bene,
che era al corrente della ributtante ingiustizia commessa contro di
lui al castello di Tronka, per le cui conseguenze Ersiano appunto
soffriva, e avrebbe sofferto forse per tutta la vita, gli batté sulla
spalla, e gli disse di non perdersi d'animo: l'avrebbe aiutato lui a
ottenere soddisfazione!
Quella sera, quando il mercante, dietro suo ordine, andò da lui al
castello, questi gli disse di stendere soltanto una supplica
all'Elettore del Brandeburgo, con una breve esposizione dell'accaduto,
di allegarvi la lettera dell'avvocato, e di invocare la protezione del
principe, a causa della violenza che si erano permessi contro di lui
in territorio sassone. Egli promise di rimettere la petizione, che
avrebbe aggiunto a un altro plico, già pronto, nelle mani
dell'Elettore: il quale da parte sua, senza fallo, se le circostanze
lo consentivano, sarebbe intervenuto presso il principe Elettore di
Sassonia. Un passo simile sarebbe stato più che sufficiente a fargli
ottenere giustizia presso il tribunale di Dresda, a dispetto delle
arti del barone e delle sue conoscenze. Kohlhaas, vivamente
rallegrato, ringraziò di tutto cuore il prefetto per quella nuova
dimostrazione della sua benevolenza; aggiunse che gli dispiaceva solo
di non essersi rivolto fin dall'inizio a Berlino, per trattare la sua
faccenda, senza compiere a Dresda passi di alcun tipo; e, dopo aver
redatto nella Cancelleria del tribunale cittadino la sua lagnanza,
seguendo fedelmente le istruzioni, e averla consegnata al prefetto,
fece, più tranquillizzato che mai sull'esito della sua causa, ritorno
a Pontekohlhaas. Ma già poche settimane dopo, per mezzo di un
magistrato che andava a Potsdam per seguire alcune faccende del
prefetto, ebbe il cruccio di sapere che il principe Elettore aveva
rimesso la supplica al suo cancelliere, il conte Kallheim, e questi
non si era direttamente rivolto alla corte di Dresda, come sembrava
opportuno, per l'inchiesta e la punizione del sopruso, bensì al barone
di Tronka, per avere innanzitutto da lui maggiori informazioni. Il
magistrato, che, nella sua carrozza, che aveva fermato davanti
all'abitazione di Kohlhaas, sembrava aver avuto l'incarico di fare al
mercante quella comunicazione, alla sua stupefatta domanda come mai si
fosse proceduto in quel modo, non seppe dare una risposta
soddisfacente. Aggiunse solo che il prefetto gli faceva dire di avere
pazienza; sembrava avere molta fretta di proseguire il suo viaggio, e
solo alla fine del breve colloquio, da alcune parole buttate là,
Kohlhaas indovinò che il conte Kallheim era imparentato con la casa
dei Tronka.
Kohlhaas, al quale non davano più gioia né l'allevamento dei cavalli,
né la casa e la fattoria, e quasi neppure la moglie e i figli, tenne
duro, pieno di cupi presentimenti per il futuro, fino alla luna
successiva; e, proprio come si aspettava, passato quel periodo,
Ersiano, al quale le cure termali avevano procurato un po' di
sollievo, ritornò da Brandeburgo, con una lettera del prefetto, che
accompagnava un lungo scritto. In essa il prefetto si diceva spiacente
di non poter fare niente per la sua causa; gli inviava una risoluzione
della Cancelleria di Stato, che gli era stata rimessa; e gli
consigliava di andare a riprendersi i cavalli che erano rimasti nel
castello di Tronka, e per il resto lasciare le cose come stavano.
La risoluzione suonava: "Egli era, secondo il rapporto del tribunale
di Dresda, un querelante ozioso; il barone presso il quale egli aveva
lasciato i cavalli non li tratteneva in nessun modo; che mandasse
qualcuno a riprenderli al castello, o almeno facesse sapere al barone
dove avrebbe dovuto mandarglieli; ma in ogni caso risparmiasse alla
Cancelleria di Stato simili beghe fastidiose".
Kohlhaas, per il quale non era questione di cavalli - avrebbe provato
lo stesso dolore se si fosse trattato di due cani Kohlhaas ribollì di
furore, quando ricevette la lettera. Ogni volta che nel cortile si
faceva sentire un rumore, guardava, nell'attesa più odiosa che gli
avesse mai agitato il petto, verso il viottolo dell'ingresso, se mai
comparissero gli uomini del barone, per riportargli, forse addirittura
con le sue scuse, i cavalli sfiniti dalla fame e dalla fatica; era la
prima volta che la sua anima, così ben temprata alla scuola della
vita, si aspettava qualcosa che non corrispondeva completamente ai
suoi sentimenti. Ma già poco tempo dopo sentì dire, da un conoscente
che era passato per quella strada, che al castello di Tronka i suoi
cavalli continuavano come prima, come tutti gli altri cavalli del
barone, a essere adoperati nel lavoro dei campi; e, attraverso il
dolore di scorgere il mondo in un simile stato di mostruoso disordine,
batté con forza l'intima gioia di vedere ormai l'ordine nel suo cuore.
Invitò a casa sua un balivo, suo vicino, che da tempo accarezzava il
progetto di ingrandire i suoi possedimenti, acquistando i terreni
confinanti; e, quando questi si fu accomodato, gli chiese quanto
sarebbe stato disposto a dargli per le sue proprietà in Sassonia e nel
Brandeburgo; tutto compreso, casa e podere, beni mobili e immobili.
Lisabetta, sua moglie, sbiancò a queste parole. Si girò, tirò su il
figlio più piccolo, che dietro di lei si trastullava per terra, e,
sfiorando le guance rosse del fanciullo, che giocava con le sue
collane, lanciò sul mercante, e su un foglio che questi teneva in
mano, degli sguardi nei quali era dipinta la morte. Il balivo gli
chiese, osservandolo con stupore, che cosa gli avesse fatto venire di
colpo in mente un'idea così strana. Ma egli rispose, con tutta
l'allegria che riuscì a imporre a se stesso, che l'idea di vendere la
sua masseria sulle rive della Havel non era completamente nuova. Non
avevano forse già più volte fatto trattative sull'argomento? Quanto
alla casa nei sobborghi di Dresda, quella non era, in confronto, che
un accessorio, del quale non metteva conto parlare. In breve, se
voleva fare la sua volontà, e prendersi tutti e due i terreni, egli
era pronto a concludere il relativo contratto. E aggiunse, con un tono
scherzoso alquanto sforzato, che Pontekohlhaas non era poi il mondo;
che potevano esserci degli scopi in confronto ai quali dirigere, da
buon padre di famiglia, l'azienda domestica era una cosa secondaria e
poco onorevole; che, in breve, la sua anima, doveva dirgli, era
rivolta a cose grandi, delle quali, forse, avrebbe presto sentito
parlare.
Tranquillizzato da queste parole, il balivo disse allegramente,
rivolto alla donna, che baciava e ribaciava il bambino: "Non
pretenderà mica il pagamento immediato?", posò sulla tavola cappello e
bastone, che teneva fra le ginocchia, e prese il foglio che il
mercante aveva in mano, per leggerlo tutto. Kohlhaas, facendosi più
vicino, gli spiegò che si trattava di un ipotetico contratto di
acquisto, a nome suo, con una scadenza di quattro settimane; gli
mostrò che non vi mancava niente, se non le firme, e l'indicazione
delle somme, cioè il prezzo d'acquisto da un lato, e dall'altro la
penale, cioè la somma che egli si impegnava a pagare se, entro le
quattro settimane, si fosse tirato indietro; e lo invitò ancora una
volta, allegramente, a fare un'offerta, assicurando che le sue pretese
erano modeste, e non avrebbe fatto difficoltà. La donna andava avanti
e indietro per la stanza; il petto le ansimava, tanto che il
fazzoletto, che il bambino aveva tirato per gioco, stava per caderle
del tutto dalla spalla. Il balivo disse di non essere in nessun modo
in grado di giudicare il valore della proprietà di Dresda; al che
Kohlhaas rispose, porgendogli alcune lettere che erano state scambiate
al tempo dell'acquisto, che la valutava cento fiorini d'oro; anche se
da quelle carte risultasse che gli era costata quasi la metà in più.
Il balivo rilesse ancora una volta il contratto di acquisto; e vedendo
che, stranamente, includeva anche da parte sua la facoltà di recedere,
disse, già a metà deciso, che però non sapeva che farsene degli
stalloni che si trovavano nelle sue stalle; ma poiché Kohlhaas replicò
che non intendeva affatto disfarsene, e voleva anche tenere per sé
alcune armi, che erano appese nell'armeria, questi allora esitò, esitò
ancora, e alla fine ripeté un'offerta che gli aveva già fatto, mezzo
per scherzo, mezzo sul serio, poco tempo prima, durante una
passeggiata, e che era ridicola, rispetto al valore dei possedimenti.
Kohlhaas spinse verso di lui la penna e l'inchiostro, perché
scrivesse; e quando il balivo, non credendo ai suoi occhi, gli chiese
ancora una volta se faceva sul serio, e il mercante gli ebbe risposto,
un po' risentito, se credeva forse che si stesse prendendo gioco di
lui, questi prese sì in mano la penna, con espressione pensierosa, e
cominciò a scrivere; ma cancellò il punto nel quale si parlava della
penale che il venditore avrebbe pagato, se si fosse pentito, si
impegnò a versare, a titolo di prestito, cento fiorini d'oro,
garantiti da un'ipoteca sul possedimento di Dresda che, con quella
somma, egli non intendeva affatto comprare, e lasciò al mercante piena
libertà, per due mesi, di recedere dal negozio. Il mercante, toccato
da questo modo di agire, gli strinse calorosamente la mano; e, dopo
che si furono accordati sul punto, che era una delle condizioni
principali, che un quarto del prezzo di acquisto sarebbe stato pagato
subito in contanti, e il resto, entro tre mesi, presso la banca di
Amburgo, egli gridò che si portasse del vino, per festeggiare un
affare così felicemente concluso. Disse a una ragazza, che era entrata
con le bottiglie, che Sternbald, il garzone, gli sellasse il sauro,
spiegando che doveva andare nella capitale, dove aveva da fare; e
lasciò capire che in poco tempo, quando fosse tornato, avrebbe parlato
a cuore aperto di quello che, per il momento, doveva tenere per sé.
Poi, riempiendo i bicchieri, chiese dei Polacchi e dei Turchi, che
proprio allora erano in guerra, trascinò il balivo in una serie di
ipotesi politiche sulla questione, brindò ancora una volta, alla fine,
alla felice conclusione del loro affare, e lo congedò.
Quando il balivo ebbe lasciato la stanza, Lisabetta gli cadde in
ginocchio davanti. "Se hai ancora nel cuore", gridò, "me, e i bambini
che ti ho partorito, se non ne siamo già stati banditi, ormai, per un
qualche motivo, che io non so: dimmi che cosa significano questi
orribili preparativi!".
"Moglie carissima", disse Kohlhaas, "niente che, finché le cose stanno
così, ti debba impensierire. Ho ricevuto una risoluzione, in cui mi si
dice che la mia querela contro il barone Venceslao di Tronka è una
bega oziosa. E poiché deve trattarsi di un malinteso, ho deciso di
presentare ancora una volta la mia querela, personalmente al principe
Elettore.
"E perché vuoi vendere la casa?", gridò lei, alzandosi, con il viso
sconvolto.
Il mercante la strinse teneramente al petto, e rispose: "Perché in un
paese, mia carissima Lisabetta, in cui non mi vogliono proteggere nei
miei diritti, io non voglio restare.
Meglio essere un cane, se devo essere preso a calci, che un uomo!
Sono sicuro che in questo mia moglie la pensa come me".
"Chi ti dice", chiese lei con violenza, "che non ti proteggeranno nei
tuoi diritti? Se ti presenti al sovrano umilmente, come ti si addice,
con la tua supplica, chi ti dice che sarà messa da parte, o che ti
risponderanno rifiutandosi di ascoltarti?".
"Ebbene", rispose Kohlhaas, "se in questo il mio timore è infondato,
neanche la mia casa, per adesso, è venduta. Il sovrano, lo so, è
giusto; e se solo riesco, attraverso tutti quelli che lo circondano,
ad arrivare fino alla sua persona, non dubito di ottenere giustizia, e
di tornare felicemente, ancor prima che sia finita la settimana, a te
e alle mie vecchie occupazioni. E che da allora in poi io possa",
aggiunse, baciandola, "restare sempre con te, fino alla fine dei miei
giorni! Ma è consigliabile", continuò, "che io sia pronto a ogni
eventualità; per questo desideravo che tu, per qualche tempo, se è
possibile, ti allontanassi, e andassi con i bambini a Schwerin, da tua
zia, alla quale del resto già da un pezzo volevi far visita".
"Come", gridò la donna, "devo andare a Schwerin? Passare il confine
con i bambini, e andare a Schwerin da mia zia?". E l'orrore le soffocò
la voce.
"Proprio così", rispose Kohlhaas, "e subito, se è possibile, affinché,
nei passi che intendo fare per la mia causa, io non sia disturbato da
alcun riguardo".
"Oh, ti capisco!", gridò lei. "Adesso non hai più bisogno di niente,
se non di armi e di cavalli; tutto il resto, se lo prenda chi vuole!".
E con queste parole si girò, si buttò su una sedia e pianse.
"Lisabetta carissima", disse Kohlhaas, turbato, "che fai? Dio mi ha
benedetto, dandomi una moglie, dei figli e dei beni; devo oggi, per la
prima volta, desiderare che non fosse così?...". E si sedette
affettuosamente vicino a lei, che, a quelle parole, gli aveva gettato
le braccia al collo, arrossendo. "Dimmi tu", disse, scostandole i
riccioli dalla fronte, "che devo fare? Devo tirarmi indietro? Devo
andare a Castel Tronka, e pregare il cavaliere che mi restituisca i
cavalli, saltarci su, e portarteli qui?".
Lisabetta non osò dire "Sì! Sì! Sì!"... scosse il capo piangendo, si
strinse forte a lui, e gli coprì il petto di baci ardenti. "E dunque",
gridò Kohlhaas, "se tu senti che, perché io possa continuare la mia
attività, mi deve essere resa giustizia, concedimi anche la libertà
che mi è necessaria per procurarmela!". E dicendo queste parole si
alzò, e disse al garzone, che veniva ad avvertirlo che il sauro era
sellato, che l'indomani dovevano essere attaccati i bai, per portare
sua moglie a Schwerin.
Lisabetta disse che le era venuta un'idea! Si alzò in piedi, si
asciugò gli occhi pieni di lacrime, e chiese al marito, che si era
seduto a uno scrittoio, se voleva dare a lei la supplica, e lasciare
andare lei, al posto suo, a Berlino, a porgerla al principe. Kohlhaas,
commosso, per più di una ragione, dalla proposta inattesa, se l'attirò
sulle ginocchia, e disse: "Moglie carissima, non è possibile! Il
principe ha molta gente intorno; chi gli si avvicina si espone a
numerose situazioni spiacevoli". Lisabetta obbiettò che c'erano mille
circostanze in cui per una donna sarebbe stato più facile avvicinarsi
a lui, che non per un uomo. "Dammi la supplica", ripeté; "e se non
vuoi altro, se non essere sicuro che finisca nelle sue mani, ti do la
mia parola: la riceverà!".
Kohlhaas, che del suo coraggio, come della sua prudenza, aveva avuto
più di una prova, le chiese come pensasse di comportarsi; e lei,
guardando davanti a sé, con gli occhi bassi per la vergogna, rispose
che il castaldo del palazzo del principe Elettore, tempo prima, quando
era in servizio a Schwerin, aveva chiesto la sua mano; adesso era
ormai sposato, e aveva numerosi figli; ma non l'aveva ancora del tutto
dimenticata; insomma, lasciasse a lei di approfittare di questa
circostanza, e di alcune altre che sarebbe stato troppo lungo
descrivere. Kohlhaas la baciò con grande gioia, disse che accettava la
sua proposta, le spiegò che non serviva altro che procurarsi alloggio
presso la moglie del castaldo, per potersi avvicinare al principe nel
suo stesso palazzo, le diede la supplica, fece aggiogare i bai, e la
lasciò partire, ben equipaggiata, con Sternbald, il suo fedele servo.
Quel viaggio fu però, fra tutti i passi infruttuosi che aveva fatto
per la sua causa, il più infelice. Dopo pochi giorni, infatti,
Sternbald rientrava già nel cortile, guidando, al passo, la carrozza,
nella quale era adagiata la donna, con una pericolosa contusione al
petto. Kohlhaas, che, pallido, si avvicinò alla vettura, non riuscì a
ottenere una spiegazione coerente di quello che aveva causato la
disgrazia. Il castaldo, a quanto disse il servo, non era in casa; e
dunque erano stati costretti a scendere in una locanda che si trovava
nelle vicinanze del palazzo; il mattino dopo Lisabetta aveva lasciato
la locanda, ordinando al servo di restare presso i cavalli, ed era
tornata soltanto a sera, in quello stato. Sembrava che si fosse spinta
con troppa foga verso la persona del sovrano, e, senza sua colpa, solo
per lo zelo brutale di una delle guardie che lo circondavano, avesse
ricevuto sul petto un colpo, con l'asta di una lancia. Almeno, così
riferirono le persone che, verso sera, la riportarono, priva di sensi,
nella locanda; perché lei stessa, impedita dagli sbocchi di sangue,
poco poteva parlare. La supplica le era stata poi ritirata da un
cavaliere. Sternbald disse che egli avrebbe voluto saltare subito su
un cavallo e portargli la notizia del disgraziato incidente; ma lei,
malgrado le rimostranze del chirurgo che era stato chiamato, aveva
insistito per essere riportata, senza farsi precedere dalla notizia,
da suo marito a Pontekohlhaas.
Kohlhaas la portò, ridotta in fin di vita dal viaggio, su un letto,
dove, tra sforzi dolorosi per respirare, visse ancora qualche giorno.
Si cercò inutilmente di farla tornare in sé, per trarre qualche
conclusione su quanto era accaduto; ma lei restava distesa, con gli
occhi fissi, e già spenti, e non rispondeva. Solo poco prima di morire
riprese i sensi, ancora una volta. Infatti, mentre un sacerdote di
religione luterana (fede che stava allora prendendo piede, e alla
quale, seguendo l'esempio del marito, si era convertita), in piedi
vicino al suo letto, le leggeva, con voce alta, commossa e solenne, un
capitolo della Bibbia, lei lo guardò, d'improvviso, con espressione
cupa, gli prese, come se in quel punto non ci fosse niente da
leggerle, la Bibbia di mano, la sfogliò a lungo, come se vi cercasse
qualcosa, e a Kohlhaas, che stava seduto vicino al suo letto, mostrò
con l'indice il versetto: "Perdona ai tuoi nemici, e fai del bene
anche a coloro che ti odiano". Gli strinse allora la mano, guardandolo
con tutta l'anima, e morì. "Così non mi perdoni mai Iddio, come io
perdonerò al barone!", pensò Kohlhaas, la baciò, mentre gli scorrevano
copiose le lacrime, le chiuse gli occhi, e lasciò la stanza.
Prese i cento fiorini d'oro che il balivo gli aveva già versato, per
le stalle di Dresda, e diede disposizioni per un funerale che non
sembrava destinato a lei, ma a una principessa: una bara di quercia
con pesanti ornamenti metallici, cuscini di seta con nappe d'oro e
d'argento, e una fossa profonda otto braccia, rivestita di pietre e di
calce. Egli stesso, con il figlio più piccolo in braccio, restò in
piedi accanto alla cripta, a sorvegliare il lavoro. Venuto il giorno
del funerale, la salma, bianca come la neve, fu esposta in una sala
che egli aveva fatto tappezzare di drappi neri. Il sacerdote aveva
appena finito una commovente orazione accanto alla bara, quando gli fu
consegnata la risoluzione sovrana, in risposta alla supplica che era
stata consegnata dalla defunta: doveva andare a prendere i cavalli al
castello di Tronka, e, sotto pena di essere messo in prigione, non
presentare ulteriori ricorsi sull'argomento. Kohlhaas mise in tasca la
lettera, e ordinò di mettere la bara sul carro. Non appena fu alzato
il tumulo, piantata in cima la croce, e congedati gli ospiti che
avevano accompagnato la salma, egli si gettò ancora una volta sul
letto di lei, ora deserto, e subito si preparò a intraprendere la
vendetta.
Si sedette, e stese un'ordinanza, nella quale condannava, in virtù del
suo innato potere, il barone Venceslao di Tronka a riportare a
Pontekohlhaas, entro tre giorni dal ricevimento, i morelli che gli
aveva sottratto, e sfiancato nel lavoro dei campi, e a ingrassarli di
persona nelle sue stalle. Gli inviò l'intimazione con un messo a
cavallo, al quale diede istruzioni, non appena consegnato il
documento, di tornare di gran carriera a Pontekohlhaas. Poiché i tre
giorni passarono senza che fossero consegnati i cavalli, mandò a
chiamare Ersiano; gli confidò che cosa aveva intimato al barone,
riguardo all'ingrasso degli animali, e gli chiese due cose: era
disposto ad andare con lui a cavallo a Castel Tronka, a prendere il
barone, e poi, quando l'avessero portato là, se si fosse dimostrato
pigro nell'adempiere all'ordinanza, nelle stalle di Pontekohlhaas, ad
adoperare la frusta? E poiché Ersiano, non appena l'ebbe capito,
"Padrone, oggi stesso!", gridò esultante, e, lanciando in aria il
berretto, lo assicurò che si sarebbe fatto intrecciare uno staffile a
dieci nodi, per insegnargli a strigliare! Kohlhaas vendette la casa,
spedì i bambini, ben sistemati in una carrozza, oltre confine, radunò,
sul far della notte, anche gli altri servi, sette di numero, ognuno
dei quali gli era fedele come oro puro, li armò, li fece salire a
cavallo, e si mosse verso il castello di Tronka.
E già al calare della terza notte irrompeva, con questo piccolo
drappello, travolgendo il gabelliere e il portiere, che stavano
chiacchierando sotto il portone, nel castello; e, mentre di colpo
tutte le baracche, all'interno del muro di cinta, si incendiavano e
crepitavano, infiammate dalle torce che vi erano state lanciate, ed
Ersiano, su per la scala a chiocciola, correva nella torre di guardia,
e si avventava, con fendenti di taglio e di punta, contro il castaldo
e l'amministratore, che, mezzo svestiti, erano seduti a tavola a
giocare, Kohlhaas si precipitava nel castello alla ricerca del barone
Venceslao. Così scende dal cielo l'Angelo del Giudizio; e il barone,
che per l'appunto, fra grandi risate, stava leggendo alla brigata di
giovani amici che era con lui l'ordinanza che il mercante di cavalli
gli aveva fatto recapitare, non appena ne ebbe sentita la voce, nel
cortile del castello, divenuto, d'improvviso, bianco come un cadavere:
"Fratelli, salvatevi!", urlò a quei signori, e sparì. Kohlhaas, che,
entrando nella sala, aveva preso per il collo un barone Giovanni di
Tronka, che gli veniva contro, e l'aveva scaraventato nell'angolo,
così da farne schizzare sulle pietre il cervello, mentre i servi
sopraffacevano e disperdevano gli altri cavalieri, che avevano messo
mano alle armi, chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka. E,
poiché quegli uomini, storditi, non lo sapevano, dopo aver sfondato
con un calcio le porte di due stanze che davano nelle ali del
castello, e percorso in tutte le direzioni il vasto edificio, senza
trovare nessuno, scese imprecando nel cortile, per far presidiare le
uscite.
Intanto, raggiunto dal fuoco delle baracche, anche il castello era
ormai in fiamme, con tutti gli edifici attigui, sprigionando contro il
cielo un fumo spesso, e, mentre Sternbald, con tre servi indaffarati,
portava giù tutto ciò che non era intrasportabile o attaccato ai muri,
e lo ammassava in mezzo ai cavalli, come buon bottino, dalle finestre
spalancate della torre di guardia volavano giù, con giubilo di
Ersiano, i cadaveri del castaldo e del fattore, con mogli e figli.
Kohlhaas, al quale, mentre scendeva la scala del castello, si era
gettata ai piedi la vecchia economa, tormentata dalla gotta, che aveva
il governo della casa, le chiese, fermandosi sul gradino, dove fosse
il barone Venceslao di Tronka; e poiché lei, con voce debole e
tremante, gli disse in risposta che credeva che fosse fuggito nella
cappella, chiamò due servi con le torce, fece scardinare, in mancanza
di chiavi, l'ingresso con leve di ferro e con le asce, rovesciò le
panche e gli altari, ma, con suo rabbioso dolore, non trovò il barone.
Accadde che un giovane garzone, che apparteneva alla servitù del
castello, nel momento in cui Kohlhaas ritornava dalla cappella,
accorresse per tirare fuori da una grande stalla in pietra, minacciata
dalle fiamme, gli stalloni da battaglia del barone. Kohlhaas, che
proprio in quel momento, in una piccola rimessa coperta di paglia,
vide i suoi due morelli, chiese al servo perché non mettesse in salvo
i morelli; e poiché questi, infilando la chiave nella porta della
grande stalla, rispose che ormai la rimessa era in fiamme, Kohlhaas
gettò la chiave, dopo averla strappata con violenza dalla porta della
stalla, al di là del muro, spinse, con una grandinata di piattonate,
il servo fin dentro la baracca in fiamme, e lo costrinse, tra le
orribili risate degli astanti, a salvare i morelli. Tuttavia, quando
il garzone pallido di terrore, pochi istanti prima che la rimessa
crollasse dietro di lui, ne uscì con i cavalli alla cavezza, non trovò
più Kohlhaas; e quando raggiunse i servi sul piazzale del castello, e
chiese al mercante, che più volte gli voltò le spalle, che cosa
dovesse fare, adesso, con quelle bestie, questi d'un tratto levò il
piede, con una mossa così terribile, che, se il calcio l'avesse
raggiunto, sarebbe stata la sua morte, montò, senza rispondergli, il
suo baio, si piantò sotto il portone del castello, e aspettò, mentre i
servi continuavano ad affaccendarsi, in silenzio, il giorno.
Quando giunse il mattino, tutto il castello, tranne le mura, era in
cenere, e non vi si trovava più nessuno, se non Kohlhaas e i suoi
sette servi. Egli scese da cavallo, e setacciò ancora una volta, alla
chiara luce del sole, che ora ne illuminava ogni angolo, l'intero
posto, e poiché, per quanto difficile gli fosse ammetterlo, dovette
convincersi che l'impresa contro il castello era fallita, inviò, con
il cuore oppresso dalla pena e dal dolore, Ersiano e alcuni servi a
cercare informazioni sulla direzione che il barone aveva preso nella
sua fuga.
Soprattutto lo preoccupava un ricco educandato per fanciulle nobili,
chiamato Erlabrunn, che sorgeva sulle rive della Molda, e la cui
badessa, Antonia di Tronka, era conosciuta nella regione come una
donna pia, benefica e santa; poiché all'infelice Kohlhaas pareva fin
troppo probabile che il barone, privo com'era di tutto il necessario,
si fosse rifugiato in quell'istituto, dato che che la badessa era sua
zia carnale, e l'aveva allevato nella prima infanzia. Kohlhaas, dopo
essersi informato su questa circostanza, salì alla torre del corpo di
guardia, al cui interno aveva ancora una stanza abitabile, e scrisse
quello che lui chiamò "Bando Kohlhaasiano", nel quale intimava al
paese di non prestare nessun aiuto al barone Venceslao di Tronka,
contro il quale egli era sceso in giusta guerra, e anzi faceva obbligo
a ogni abitante, non esclusi i suoi parenti e amici, sotto pena di
morte, e dell'immancabile incenerimento di tutto quello che si potesse
chiamare proprietà, di consegnarlo nelle sue mani.
Egli diffuse quella dichiarazione nella contrada, per mezzo di
viaggiatori e forestieri, e ne diede anche una copia al suo servo
Waldmann, con il preciso incarico di consegnarla a Erlabrunn, nelle
mani di donna Antonia. Subito dopo, trattò con alcuni servi del
castello di Tronka, che erano scontenti del barone, e, attirati dalla
speranza di bottino, volevano entrare al suo servizio; li armò, alla
maniera dei fanti, di daga e balestra, e li istruì a tenersi in groppa
dietro gli uomini a cavallo; poi, quando ebbe venduto tutto quello che
la sua gente aveva predato, e distribuito fra loro il ricavato, riposò
alcune ore, sotto il portone del castello, dai suoi tristi impegni.
Verso mezzogiorno arrivò Ersiano, e gli confermò quello che il suo
cuore, sempre propenso ai più cupi presentimenti, gli aveva già detto:
che per l'appunto il barone si trovava a Erlabrunn nell'educandato,
presso l'anziana donna Antonia di Tronka, sua zia. Si era salvato, a
quanto sembrava, attraverso una porticina che, nel muro posteriore del
castello, dava sul vuoto, e per una stretta scala di pietra che,
coperta da un piccolo tetto, scendeva fino ad alcune barche sull'Elba.
Ersiano, almeno, riferiva che, in un villaggio lungo l'Elba, con
grande stupore della gente, che si era radunata a causa dell'incendio
di Castel Tronka, egli era arrivato, verso la mezzanotte, in un
canotto senza timone e senza remi, e aveva proseguito poi per
Erlabrunn in un carro di contadini.
Kohlhaas, a quella notizia, mandò un profondo sospiro, chiese se i
cavalli avevano mangiato, e poiché gli fu risposto di sì, fece montare
il drappello, e in tre ore era già davanti a Erlabrunn. Stava proprio
entrando con la sua schiera, al brontolio di un lontano temporale
all'orizzonte, con le fiaccole, che aveva fatto accendere alle porte,
nel cortile del convento, e Waldmann, il suo servo, gli veniva
incontro, per comunicargli che il bando era stato consegnato come si
deve, quando vide la badessa e il castaldo, in un concitato colloquio,
farsi avanti sotto il portale del monastero; e, mentre questi, il
castaldo, un uomo piccolo, anziano, candido come la neve, lanciando a
Kohlhaas degli sguardi torvi, si faceva allacciare la corazza, e ai
servi che lo circondavano gridava, con voce ardita, di suonare a
martello, lei, la superiora del monastero, con un crocifisso d'argento
in mano, scese, pallida come un lenzuolo di lino, la scalinata, e si
gettò con tutte le sue ragazze in ginocchio davanti al cavallo di
Kohlhaas.
Kohlhaas, mentre Ersiano e Sternbald riducevano all'impotenza il
castaldo, che non aveva in pugno la spada, e lo portavano prigioniero
tra i cavalli, le chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e
poiché lei, sciogliendosi dalla cintura un grande anello di chiavi,
rispondeva: "A Vittemberga, Kohlhaas, uomo dabbene"; e aggiungeva, con
voce tremante: "Abbi timor di Dio, non commettere ingiustizia!",
Kohlhaas girò, ricacciato nell'inferno della vendetta inappagata, il
cavallo, e stava per gridare: "Appiccate il fuoco!", quando un fulmine
spaventoso cadde al suolo proprio vicino a lui. Kohlhaas, girando di
nuovo il cavallo verso di lei, le chiese se avesse ricevuto il suo
bando: e poiché la nobildonna, con voce flebile, quasi impercettibile,
rispose: "Proprio ora!", "Quando?", "Due ore fa, così mi aiuti Iddio,
dopo che il barone, mio nipote, era ormai partito!", e Waldmann, il
suo servo, al quale Kohlhaas si era rivolto con sguardo bieco,
confermò, balbettando, questa circostanza, perché, disse, le acque
della Molda, gonfiate dalla pioggia, gli avevano impedito di giungere
se non pochissimo tempo prima, allora Kohlhaas riprese il controllo di
sé; all'improvviso un tremendo rovescio di pioggia, che spazzò il
selciato del cortile, spegnendo le fiaccole, sciolse il dolore nel suo
petto infelice; girò, sollevando di poco il cappello davanti alla
nobildonna, il suo cavallo, gli diede, con le parole: "Seguitemi,
fratelli! Il barone è a Vittemberga!", di sprone, e lasciò la badìa.
Egli entrò, allo scendere della notte, in una locanda sulla strada
maestra, nella quale dovette, per la grande stanchezza dei cavalli,
riposare un giorno, e, rendendosi conto che con un drappello di dieci
uomini (tanti ne aveva in quel momento) non poteva sfidare una
località come Vittemberga, stilò un nuovo bando, nel quale, dopo un
breve racconto di quello che gli era toccato nel paese, invitava "ogni
buon cristiano", così si espresse, "con la promessa di una paga, e di
altri vantaggi di guerra, ad abbracciare la sua causa contro il barone
di Tronka, nemico comune di tutti i cristiani". In un altro bando, che
apparve poco dopo, egli si definiva "libero signore, non soggetto né
al mondo né all'Impero, ma soltanto a Dio"; una millanteria folle e di
cattiva lega, che però, con il suono del suo denaro e con la
prospettiva del bottino, gli procurò un gran mucchio di gente, fra la
marmaglia che la pace con la Polonia aveva lasciato senza pane: così
che egli contava trenta uomini e più, quando ripassò sulla riva destra
dell'Elba, per ridurre in cenere Vittemberga.
Egli si accampò, con i cavalli e i fanti, al riparo di una vecchia
fornace diroccata, nella solitudine e nell'oscurità del bosco che a
quel tempo circondava la località, e, non appena ebbe saputo da
Sternbald, che aveva inviato travestito in città, con il suo bando,
che esso vi era già noto, subito si mosse con il suo drappello, la
santa vigilia della Pentecoste, e, mentre gli abitanti erano immersi
in un sonno profondo, appiccò l'incendio alla città, in più punti
contemporaneamente. Poi, mentre la sua truppa metteva a sacco i
sobborghi, attaccò al pilastro di una chiesa un foglio di questo
tenore: "Egli, Kohlhaas, aveva dato fuoco alla città: e, se non gli
fosse stato consegnato il barone, l'avrebbe a tal punto ridotta in
cenere, che", così si espresse, "non avrebbe avuto bisogno di guardare
dietro a nessun muro per trovarlo". L'orrore degli abitanti per
l'inaudito misfatto fu indescrivibile; e non appena le fiamme, che in
quella notte d'estate, per fortuna non molto ventosa, non avevano raso
al suolo più di diciannove case, fra le quali, tuttavia, c'era una
chiesa, furono, verso il sorgere del giorno, almeno in parte domate,
il vecchio prefetto, Ottone di Gorgas, inviò lì per lì una piccola
compagnia di cinquanta uomini per spazzare via l'orribile flagello.
Ma il capitano che la guidava, di nome Gerstenberg, si comportò così
male nell'impresa, che la spedizione, invece di sconfiggere Kohlhaas,
gli diede una pericolosissima gloria militare, poiché, quando l'uomo
d'armi divise le sue forze in plotoni, per circondarlo, così pensava,
e quindi sopraffarlo, fu invece attaccato da Kohlhaas, che aveva
tenuto compatto il suo drappello, nei diversi punti, e battuto: tanto
che, già la sera del giorno dopo, nemmeno uno degli uomini della
truppa nella quale erano riposte le speranze del paese restava più in
campo contro di lui. Kohlhaas, che in quei combattimenti aveva subìto
alcune perdite, il mattino del giorno seguente appiccò di nuovo
l'incendio alla città, e le sue crudeli istruzioni furono così
efficaci, che questa volta un gran numero di case e quasi tutti i
fienili dei sobborghi furono ridotti in cenere. Nel frattempo egli
affisse di nuovo, questa volta agli angoli dello stesso Municipio, il
bando già noto, aggiungendovi le novità sulla sorte del capitano
Gerstenberg, inviato contro di lui dal prefetto, e da lui sbaragliato.
Il prefetto, al culmine dell'indignazione davanti a tanta arroganza,
si mise lui stesso, con molti cavalieri, alla testa di uno squadrone
di centocinquanta uomini. Diede al barone Venceslao di Tronka, che
l'aveva sollecitata per iscritto, una scorta che lo proteggesse dalle
violenze del popolo, che pretendeva che egli fosse allontanato senza
indugio dalla città, e, dopo aver inviato dei presìdi in tutti i
villaggi dei dintorni, e guarnito di sentinelle anche le mura di cinta
della città, per difenderle da un colpo di mano, uscì di persona dalle
porte, il giorno di san Gervasio, per catturare il drago che devastava
il paese.
Il mercante di cavalli fu così abile da evitare lo squadrone; e, dopo
aver attirato il prefetto, con abili marce, a cinque miglia dalla
città, e averlo indotto, con una serie di stratagemmi, nella falsa
convinzione che lui, incalzato da forze troppo superiori, stesse per
cercare scampo nel Brandeburgo, fece bruscamente dietro front, allo
scendere della terza notte, ritornò di gran carriera a Vittemberga, e
per la terza volta diede alle fiamme la città. Ersiano si era
intrufolato in città travestito, e aveva realizzato l'orribile colpo
maestro; e un vento teso di tramontana rese il divampare dell'incendio
così funesto e divorante che, in meno di tre ore, quarantadue case,
due chiese, numerosi conventi e scuole e lo stesso edificio della
prefettura furono ridotti in cenere e macerie.
Il prefetto, che, allo spuntar del giorno credeva il suo avversario in
territorio brandeburghese, quando, informato di quello che era
successo, ebbe fatto, a marce forzate, ritorno, trovò la città intera
in rivolta; il popolo era accampato, a migliaia, davanti alla casa,
barricata con pali e tronchi, del barone, e chiedeva, con urla
furibonde, che fosse portato via dalla città. Due borgomastri, di nome
Genziano e Ottone, che erano andati sul posto con le divise e le
insegne, alla testa di tutta la magistratura cittadina, spiegarono
inutilmente che bisognava in ogni caso aspettare il ritorno di un
messo inviato d'urgenza al presidente della Cancelleria di Stato, per
chiedere l'autorizzazione a portare il barone a Dresda, dove lui
stesso desiderava, per più di una ragione, andare; la folla
irragionevole, armata di spiedi e di spranghe, non se ne dava per
inteso, e già stava malmenando alcuni consiglieri, che proponevano di
impiegare le maniere forti, e si preparava a dare l'assalto alla casa
in cui si trovava il barone, e raderla al suolo, quando il prefetto,
Ottone di Gorgas, alla testa del suo squadrone di cavalieri, apparve
in città.
A quell'uomo per bene, che era abituato a infondere nel popolo, con la
sua sola presenza, obbedienza e rispetto, era riuscito, quasi come
compenso per l'impresa fallita dalla quale ritornava, di catturare, a
poca distanza dalle porte della città, tre fanti sbandati della banda
dell'incendiario; e poiché egli, mentre quei ribaldi venivano, al
cospetto del popolo, incatenati, assicurò i magistrati, con un accorto
discorso, che in poco tempo contava di portare in città in catene lo
stesso Kohlhaas, del quale era già sulle tracce, riuscì, grazie a
queste circostanze rassicuranti, a disarmare l'angoscia del popolo
radunato, e a calmarlo un po', circa la presenza del barone fino al
ritorno del messaggero da Dresda. Egli smontò, accompagnato da alcuni
cavalieri, da cavallo, e andò, fatta rimuovere la barricata, nella
casa, dove trovò il barone, che passava da uno svenimento all'altro,
nelle mani di due medici, che cercavano di farlo rinvenire con essenze
e stimolanti; e poiché Ottone di Gorgas si rendeva perfettamente conto
che non era quello il momento per chiacchierare con lui su tutto ciò
che era successo per causa sua, gli disse solo, con uno sguardo di
muto disprezzo, che per favore si vestisse, e, per la sua stessa
sicurezza, lo seguisse nelle stanze della prigione dei nobili. Quando
ebbero fatto indossare al barone un panciotto, e gli ebbero messo un
elmo in testa, ed egli, ancora a metà sbottonato, visto che gli
mancava il respiro, apparve, al braccio del prefetto e del conte di
Gerschau, suo cognato, sulla strada, salirono fino al cielo
maledizioni e bestemmie orribili contro di lui. Il popolo, trattenuto
a fatica dalla truppa, lo chiamava sanguisuga, infame, aguzzino,
flagello del paese, maledizione della città di Vittemberga e rovina
della Sassonia; dopo un pietoso tragitto per la città ridotta in
macerie, durante il quale egli più volte, senza accorgersene, perse
l'elmo, che un cavaliere gli rimetteva in testa da dietro, si
raggiunse finalmente la prigione, dove egli sparì in una torre, sotto
la protezione di una buona scorta.
Intanto il ritorno del messaggero con la decisione del principe
Elettore suscitava in città nuove preoccupazioni. Infatti il governo
dello Stato, al quale la cittadinanza di Dresda si era immediatamente
rivolta con una supplica, non voleva saperne di un soggiorno del
barone nella capitale, prima che l'incendiario fosse ridotto
all'impotenza; e anzi obbligava il prefetto di difenderlo, dovunque
fosse, poiché in qualche posto doveva pur stare, con le forze che
aveva sotto il suo comando; ma annunciava contemporaneamente alla
buona città di Vittemberga, per sua tranquillità, che un battaglione
di cinquecento uomini, al comando del principe Federico di Meissen,
era già in marcia, per difenderla da ulteriori molestie. Il prefetto,
che ben capiva come una decisione simile non potesse in nessun modo
rassicurare la popolazione, poiché non solo numerose piccole
scaramucce, che il mercante di cavalli aveva combattuto con successo,
in diversi punti, davanti alla città, avevano diffuso le voci più
incresciose su un aumento delle sue forze, ma, per di più, la guerra
che egli conduceva, con pece, paglia e zolfo, nell'oscurità della
notte, per mezzo di gentaglia travestita, avrebbe potuto rendere
inefficace, inaudita e senza esempio com'era, una difesa anche
maggiore di quella con la quale il principe di Meissen si stava
avvicinando: il prefetto, dunque, dopo una rapida riflessione, decise
di tenere completamente nascosta l'ordinanza che aveva ricevuto. Fece
solo affiggere, agli angoli della città, una lettera nella quale il
principe di Meissen gli annunciava il suo arrivo; una carrozza chiusa,
che uscì sul fare del giorno dal cortile del carcere dei nobili,
prese, scortata da quattro cavalieri pesantemente armati, la strada di
Lipsia, mentre i cavalieri della scorta facevano capire, con vaghi
accenni, che andavano al castello sulla Pleisse; e, dopo aver così
tranquillizzato il popolo riguardo all'infausto barone, la cui
presenza significava ferro e fuoco, si mosse egli stesso, con una
schiera di trecento uomini, per unirsi al principe Federico di
Meissen.
Nel frattempo Kohlhaas, grazie alla singolare posizione che aveva
assunto nel mondo, era salito, in effetti, alla forza di cento e nove
uomini; e, dopo aver anche scoperto, a Jessen, un deposito di armi, e
averne rifornito di tutto punto le sue schiere, prese, informato della
doppia tempesta che si stava addensando, la decisione di andare
incontro a tutte e due con la rapidità del vento, prima che si
scatenassero sula sua testa. E infatti il giorno dopo attaccava già il
principe di Meissen, in un assalto notturno, nei pressi di Muhlberg;
in quel combattimento perse sì, con suo grande dolore, Ersiano, che
fin dai primi colpi cadde morto al suo fianco: ma, esasperato da
quella perdita, in tre ore di battaglia ridusse il principe, incapace
di riordinarsi nel borgo, così a mal partito, che, allo spuntare del
giorno, a causa di molte gravi ferite e del completo disordine della
sua truppa, fu costretto a ritirarsi in direzione di Dresda. Reso
temerario da questo successo, Kohlhaas si rivolse, prima che potesse
essere informato dell'accaduto, contro il prefetto, lo assalì, vicino
al villaggio di Damerow, in campo aperto, in pieno mezzogiorno, e si
batté con lui, con perdite sanguinose, ma con uguale successo, fino
allo scendere della notte. E di sicuro il mattino dopo, con il resto
della sua schiera, egli avrebbe senza dubbio attaccato di nuovo il
prefetto, che si era ritirato nel camposanto di Damerow, se questi,
attraverso degli esploratori, non fosse stato informato della disfatta
subita dal principe presso Muhlberg, e non avesse perciò ritenuto più
prudente ritornare, a sua volta, a Vittemberga, in attesa di tempi
migliori.
Cinque giorni dopo aver distrutto questi due contingenti, Kohlhaas era
davanti a Lipsia, e da tre lati appiccava il fuoco alla città. - Nel
bando che diffuse in quella circostanza egli si definiva "luogotenente
dell'Arcangelo Michele, venuto a punire col ferro e col fuoco, su
tutti quelli che nella contesa prendessero le parti del barone, il
male in cui era caduto il mondo intero". Dal castello di Lutzen, di
cui si era impadronito di sorpresa, e in cui si era insediato, egli
chiamava il popolo a unirsi a lui, per dare alle cose un migliore
ordinamento, e il bando era sottoscritto, con gesto quasi folle, in
questo modo: "Dato nel regale castello di Lutzen, sede provvisoria del
nostro governo universale". La fortuna degli abitanti di Lipsia fu che
il fuoco, a causa di una pioggia insistente che cadeva dal cielo, non
si propagasse, così che, grazie alla rapidità d'intervento
dell'organizzazione antincendio locale, solo alcune botteghe che
sorgevano intorno alla rocca sulla Pleisse furono divorate dalle
fiamme. E tuttavia la costernazione della città per la presenza del
forsennato incendiario, e per la sua falsa idea che il barone fosse a
Lipsia, era indescrivibile; e, quando un reparto di cento e ottanta
uomini a cavallo, che era stato inviato contro di lui, ritornò
sbaragliato in città, ai magistrati, che non volevano mettere a
repentaglio le ricchezze della città, non restò altro da fare che
chiudere del tutto le porte, e ordinare che la cittadinanza facesse,
giorno e notte, la guardia fuori delle mura.
Inutilmente i magistrati fecero affiggere, nei villaggi delle zone
circostanti, manifesti con la precisa assicurazione che il barone non
si trovava nel castello sulla Pleisse; il mercante di cavalli
insisteva, su manifesti analoghi, che egli era nella rocca, e
dichiarava che, se non vi si fosse trovato, egli avrebbe comunque
proceduto come se ci fosse, finché non gli venisse indicato, con tanto
di nome, il posto in cui si trovava. Il principe Elettore, informato
per mezzo di un corriere veloce della situazione gravissima in cui si
trovava la città di Lipsia, dichiarò che stava già radunando un
esercito di duemila uomini, e che si sarebbe messo alla sua testa, per
catturare Kohlhaas. Egli rivolse al signor Ottone di Gorgas un severo
rimprovero per l'astuzia ambigua e sconsiderata della quale si era
servito per allontanare l'incendiario dalla regione di Vittemberga; e
nessuno può descrivere il turbamento che invase l'intera Sassonia, e
soprattutto la capitale, quando laggiù si venne a sapere che, nei
villaggi intorno a Lipsia, era stata affissa, da parte di chi non si
sapeva, una dichiarazione diretta a Kohlhaas, secondo la quale
"Venceslao, il barone, si trovava presso i cugini Enzo e Corrado, a
Dresda".
In quel momento, il dottor Martin Lutero prese su di sé il compito,
sostenuto dal prestigio che la sua posizione nel mondo gli dava, di
riportare Kohlhaas, con la forza di parole pacate, dentro gli argini
dell'ordine umano; e, facendo affidamento su quanto di onesto c'era
ancora nel cuore dell'incendiario, gli indirizzò un manifesto di
questo tenore, che venne affisso in ogni città e in ogni borgo del
principato:
"Kohlhaas, tu che ti spacci per inviato a brandire la spada della
giustizia, che cosa mai ardisci, temerario, nel delirio di una cieca
passione, tu che di ingiustizia sei pieno dalla punta dei capelli alle
piante dei piedi? Poiché il sovrano al quale sei suddito ha negato il
tuo diritto, il tuo diritto nella contesa per una cosa da niente, tu
ti sollevi, o sciagurato, col ferro e col fuoco, e irrompi, come il
lupo del deserto, nella pacifica comunità di cui egli è scudo. Tu, che
seduci gli uomini con i tuoi proclami, pieni di falsità e di malizia,
credi tu, peccatore, di trovare scampo davanti a Dio in questo modo,
nel giorno che getterà luce dentro le pieghe di tutti i cuori? Come
puoi dire che ti è stato negato il tuo diritto, tu, il cui cuore
rabbioso, eccitato dal prurito di un'ignobile brama di vendetta, dopo
i primi, avventati tentativi che ti fallirono, ha lasciato cadere ogni
sforzo per guadagnartelo? E' la panca occupata dagli uscieri e dagli
sgherri del tribunale, che intercettano la lettera che hanno ricevuto,
o trattengono la sentenza che dovrebbero consegnare, è questa la tua
autorità? E devo io dirti, uomo dimentico di Dio, che la tua autorità
non sa nulla della tua causa - che cosa dico? che il sovrano, contro
il quale tu ti rivolti, non conosce nemmeno il tuo nome, di modo che,
quando tu comparirai un giorno davanti al trono di Dio, e penserai di
accusarlo, egli potrà dire, con il viso sereno: a quest'uomo, Signore,
io non feci nessun torto, poiché della sua esistenza l'anima mia non
sa nulla? La spada che tu impugni, sappilo, è la spada della rapina e
della strage; un ribelle tu sei, e non un soldato del giusto Iddio; la
tua meta sulla terra è la ruota e la forca, e nell'al di là la
dannazione che pende sul misfatto e sull'empietà.
Vittemberga, eccetera.
Martin Lutero".
Kohlhaas stava proprio allora, nel castello di Lutzen, meditando un
nuovo piano per incenerire Lipsia, nel suo petto lacerato egli non
dava, infatti, nessun credito alla notizia affissa nei villaggi che il
barone Venceslao si trovasse a Dresda, visto che non era firmata da
nessuno, e tanto meno dai magistrati, come egli aveva richiesto -,
quando Sternbald e Waldmann notarono, con la più profonda
costernazione, il manifesto, che, di notte, era stato affisso al
portone del castello. Invano sperarono, per diversi giorni, che
Kohlhaas, poiché preferivano non essere loro a rivolgergli la parola a
quel proposito, ci lasciasse cadere lo sguardo: cupo e ripiegato su se
stesso, egli si faceva sì vedere, verso sera, ma solo per dare i suoi
brevi ordini, e non vedeva niente; tanto che essi, un mattino, in cui
lui voleva fare impiccare un paio dei suoi fanti, che, contro la sua
volontà, avevano saccheggiato nei dintorni, si decisero ad attirarne
l'attenzione. Egli tornava appunto, mentre il popolo si faceva da
parte, intimidito, da entrambi i lati, dal luogo dell'esecuzione, con
il seguito che, dall'ultimo bando, gli era abituale - lo precedeva una
grande spada da cherubino, adagiata su un cuscino di cuoio rosso
adornato di nappe d'oro, e lo seguivano dieci fanti con le fiaccole
accese -, quando i due uomini, con le spade sottobraccio, girarono, in
un atteggiamento che non poteva non colpirlo, intorno al pilastro sul
quale era affisso il manifesto. Kohlhaas, quando, con le mani
intrecciate dietro la schiena, immerso nei suoi pensieri, arrivò sotto
il portone, alzò gli occhi e si fermò di colpo; e quando i servi,
vedendolo, si tirarono con deferenza da parte, egli si avvicinò al
pilastro, guardandoli distrattamente, a passi veloci.
Ma come descrivere quello che avvenne nella sua anima quando vi vide
il foglio che lo accusava di ingiustizia, sottoscritto dal nome più
caro e più venerando che conoscesse: dal nome di Martin Lutero!
Un cupo rossore gli salì al viso; egli lo lesse due volte, togliendosi
l'elmo, dal principio alla fine; si girò indietro, con sguardi
incerti, ai suoi uomini, come se volesse dire qualcosa, e non disse
niente; staccò il foglio dalla parete, lo lesse tutto ancora una
volta, e gridò: "Waldmann! Fai sellare il mio cavallo!", e poi:
"Sternbald! Seguimi nel castello!", e sparì. Quelle poche parole erano
bastate, con tutto l'alone di terrore che lo circondava, a disarmarlo
di colpo. Egli indossò, come travestimento, le vesti di un fittavolo
della Turingia, disse a Sternbald che un affare di notevole importanza
lo costringeva ad andare a Vittemberga, gli affidò, alla presenza di
alcuni dei suoi migliori soldati, il comando della schiera rimasta a
Lutzen, e partì, assicurando che entro tre giorni, durante i quali non
c'era da temere nessun attacco, sarebbe stato di ritorno, per
Vittemberga.
Si introdusse, sotto falso nome, in una locanda, e, non appena fu
scesa la notte, avvolto nel suo mantello, e munito di un paio di
pistole che erano bottino del castello di Tronka, andò nella stanza di
Lutero. Lutero, che sedeva al suo leggìo, fra libri e manoscritti,
vedendo quello strano sconosciuto aprire la porta, e richiuderla col
catenaccio dietro di sé, gli chiese chi fosse e che cosa volesse; e
l'uomo, che teneva con deferenza il cappello in mano, aveva appena
timidamente risposto, già presentendo quale spavento stesse per
provocare, che egli era Michele Kohlhaas, il mercanti di cavalli, che
già Lutero gridava: "Via, lontano da me!", aggiungendo, mentre si
alzava dal leggìo, e si precipitava verso un campanello: "Il tuo alito
è peste, la tua vicinanza è perdizione!".
Kohlhaas disse, mentre, senza muoversi dal suo posto, tirava fuori la
pistola: "Reverendo signore, questa pistola, se voi toccate il
campanello, mi stenderà senza vita ai vostri piedi! Sedetevi, e
ascoltatemi; fra gli angeli dei quali trascrivete i salmi non siete
più sicuro che vicino a me".
Lutero, sedendosi, gli chiese: "Che vuoi?".
"Confutare", rispose Kohlhaas, "la vostra opinione di me, che io sia
un uomo ingiusto! Mi avete detto, nel vostro manifesto, che la mia
autorità non sa niente della mia causa: ebbene, procuratemi un
salvacondotto, e io andrò a Dresda, e gliela sottoporrò".
"Uomo empio e spaventevole!", esclamò Lutero, confuso e
tranquillizzato insieme da quelle parole. "Chi ti ha dato il diritto
di aggredire, eseguendo una tua arbitraria ingiunzione, il barone di
Tronka, e, non avendolo trovato nel suo castello, di mettere a ferro e
fuoco la comunità intera che lo difende?".
"Reverendo signore", rispose Kohlhaas, "nessuno, finora! Una notizia
che ricevetti da Dresda mi ha tratto in inganno, e fuorviato! La
guerra che conduco contro la comunità degli uomini è un delitto, se è
vero che io, come voi mi avete assicurato, non ne sono stato
ripudiato".
"Ripudiato!", gridò Lutero, guardandolo. "Quale pensiero folle ti ha
preso? Chi ti avrebbe ripudiato dalla comunità dello Stato nel quale
vivevi? Dove si ebbe mai, da quando esistono Stati, che qualcuno,
chiunque egli fosse, sia stato da esso ripudiato?".
"Ripudiato", rispose Kohlhaas, stringendo a pugno la mano, "chiamo
colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa
protezione, per la prosperità del mio pacifico commercio, io ho
bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto quello che
mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi
ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, potete forse
negarlo?, la clava che mi protegge".
"Chi ti ha negato la protezione delle leggi?", gridò Lutero. "Non ti
scrissi che dell'accusa che avevi presentato il sovrano, al quale
l'avevi presentata, non sa niente? Se i servitori di Stato, alle sue
spalle, annullano i processi, o si fanno altrimenti beffe, a sua
insaputa, del suo nome consacrato, chi, tranne Dio, può chiedergli
conto della scelta di simili servitori, e sei tu, uomo orribile e
maledetto da Dio, autorizzato a giudicarlo per questo?".
"Ebbene", disse allora Kohlhaas, "se il sovrano non mi ripudierà,
anch'io ritornerò nella comunità che da lui è difesa. Procuratemi, lo
ripeto, un salvacondotto per Dresda: e io scioglierò la gente che ho
raccolto nel castello di Lutzen, e presenterò di nuovo, davanti al
tribunale di Stato, l'accusa che mi è stata respinta".
Lutero, con aria contrariata, scompigliò le carte che aveva sullo
scrittoio, e tacque. L'atteggiamento di sfida allo Stato che
quell'uomo strano assumeva lo contrariava, e, ripensando
all'ingiunzione che egli, da Pontekohlhaas, aveva emanato contro il
barone, gli chiese che cosa pretendesse, insomma, dal tribunale di
Dresda.
"La punizione del barone, conforme alla legge", rispose Kohlhaas; "il
ristabilimento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento
del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano, caduto a Muhlberg,
abbiamo subìto, a causa della violenza commessa contro di noi".
"Il risarcimento del danno!", gridò Lutero. "Somme a migliaia, da
ebrei e da cristiani, su tratte e su pegni, hai preso a prestito, per
far fronte alle spese della tua selvaggia vendetta. Metterai nel conto
anche il loro valore, se si farà l'inchiesta?".
"Dio ne scampi!", rispose Kohlhaas. "Casa e podere, e l'agiatezza che
è stata mia, io non li richiedo; e neppure le spese del funerale di
mia moglie! La vecchia madre di Ersiano farà un conto delle spese per
la sua cura, e un elenco delle cose che suo figlio perse nel castello
di Tronka; e il danno che io ho subìto per la mancata vendita dei
morelli lo faccia valutare il governo, per mezzo di un esperto".
"Uomo folle, incomprensibile e spaventoso!", disse Lutero, e lo fissò.
"Dopo che la tua spada si è presa sul barone la vendetta più feroce
che si possa immaginare, che cosa ti spinge a insistere su una
sentenza il cui rigore, quando fosse, alla fine, pronunciata, lo
colpirebbe con un peso di così scarso rilievo?".
"Reverendo signore", replicò Kohlhaas, mentre una lacrima gli rigava
le guance, "mi è costata mia moglie; Kohlhaas farà vedere al mondo che
non è morta in una causa ingiusta. Adattatevi, su questo, alla mia
volontà, e fate che la corte pronunci la sua sentenza; in tutto il
resto, su cui possa ancora esservi contesa, io mi adatterò alla
vostra".
"Vedi", disse Lutero, "quello che tu chiedi, se davvero le circostanze
sono come la voce pubblica le riferisce, è giusto, e se tu avessi
saputo portare la lite, prima di passare arbitrariamente alla vendetta
privata, fino alla decisione del principe, la tua richiesta, non ho
dubbi, ti sarebbe stata accolta punto per punto. Ma, ben considerata
ogni cosa, non avresti fatto meglio, se tu, per amore del tuo
Redentore, avessi perdonato il barone, avessi preso per la cavezza i
morelli, secchi e sfiniti com'erano, fossi salito in sella e avessi
cavalcato fino a casa tua, a ingrassarli nelle tue stalle di
Pontekohlhaas?".
"Forse sì", rispose Kohlhaas, avvicinandosi alla finestra; "forse sì,
e forse no! Se avessi saputo che mi sarebbe toccato rimetterli in
piedi con il sangue e il cuore della mia cara moglie, forse sì, avrei
fatto come dite voi, reverendo signore, e non sarei stato a guardare
uno staio di avena! Ma poiché, ormai, mi sono venuti a costare tanto,
le cose vadano, così la penso, per il loro verso: lasciate che sia
pronunciata la sentenza che mi spetta, e che il barone mi ingrassi i
morelli".
Lutero, mettendo, tra vari pensieri, di nuovo le mani tra le sue
carte, disse che avrebbe avviato per lui una trattativa con il
principe Elettore. Intanto, che egli restasse tranquillo nel castello
di Lutzen; se il principe avesse consentito al salvacondotto, glielo
si sarebbe fatto sapere per via di pubblici manifesti. "A dire il
vero", continuò, mentre Kohlhaas si chinava per baciargli la mano, "se
l'Elettore vorrà usare clemenza, anziché giustizia, non so; poiché ha
raccolto, ho saputo, un esercito, ed è in procinto di coglierti nel
castello di Lutzen; ma nel frattempo, come ti ho già detto, non
risparmierò i miei sforzi". E con queste parole si alzò, mostrando di
volerlo congedare.
Kohlhaas disse che la sua intercessione lo tranquillizzava
completamente, su quel punto; al che Lutero lo salutò con la mano, ma
egli, improvvisamente, piegò un ginocchio davanti a lui, e disse di
avere ancora una preghiera sul cuore. A Pentecoste, infatti, quando
era solito accostarsi alla mensa del Signore, egli, a causa di quella
sua impresa guerresca, non era andato in chiesa: voleva avere la
compiacenza di ricevere, senza altra preparazione, la sua confessione,
e impartirgli, in cambio, il beneficio del santo sacramento?
Lutero, dopo una breve riflessione, lo fissò severamente e disse: "Sì,
Kohlhaas, lo farò. Ma il Signore, del quale desideri il corpo, perdonò
il suo nemico. Vuoi tu", aggiunse, mentre egli lo guardava turbato,
"perdonare allo stesso modo il barone che ti ha offeso: andare al
castello di Tronka, montare sui tuoi morelli, e portarteli a casa a
Pontekohlhaas, per ingrassarli?".
"Reverendo signore", disse Kohlhaas arrossendo, e gli prese la mano.
"Ebbene?".
"Neppure il Signore perdonò tutti i suoi nemici. Lasciate che io
perdoni i due principi Elettori, miei sovrani, il castaldo e il
fattore, i signori Enzo e Corrado, e chiunque altro mi abbia offeso in
questa circostanza: ma che, se è possibile, io costringa il barone a
farmi tornare grassi i morelli".
A queste parole Lutero gli girò, con uno sguardo dispiaciuto, le
spalle, e tirò il campanello. Kohlhaas, mentre un domestico, da esso
chiamato, si annunciava, portando una lampada, nell'anticamera, si
alzò confuso da terra, asciugandosi gli occhi; e poiché il domestico,
essendo tirato il catenaccio, si affaccendava invano alla porta,
mentre Lutero si era di nuovo seduto davanti alle sue carte, Kohlhaas
aprì la porta a quell'uomo. Lutero, lanciando un breve sguardo, di
lato, al forestiero, disse al domestico: "Fa' luce!", e questi, un po'
sorpreso da quel visitatore, verso il quale lanciò un'occhiata, staccò
dalla parete la chiave di casa, e, aspettando che l'ospite se ne
andasse, si ritirò nel vano della porta semiaperta.
"E così, signore reverendissimo", disse Kohlhaas, tenendo il cappello
con tutte e due le mani, che tremavano, "non mi può essere impartito
il beneficio della riconciliazione, che vi ho supplicato di
concedermi?".
"Con il tuo Salvatore, no", rispose brevemente Lutero; "con il tuo
sovrano... questo dipenderà dal tentativo che ti ho promesso!". E con
ciò fece al domestico il cenno di eseguire, senz'altro indugio,
l'incarico che gli aveva affidato. Kohlhaas si portò, con
un'espressione di dolore, le mani al petto, seguì l'uomo, che gli
faceva lume giù per le scale, e scomparve.
Il mattino dopo Lutero inviò una lettera al principe Elettore di
Sassonia, nella quale, dopo un'amara allusione ai signori Enzo e
Corrado di Tronka, ciambellano e coppiere addetti alla sua persona, i
quali, come a tutti era noto, avevano intercettato la querela,
dichiarava al sovrano, con la franchezza che gli era propria, che in
così spiacevoli circostanze non restava altro da fare che accogliere
la proposta del mercante di cavalli, e concedergli, al fine di
riaprire il suo processo, l'amnistia per quanto era accaduto.
L'opinione pubblica, osservava, era pericolosamente incline a prendere
le parti di quell'uomo, tanto che persino a Vittemberga, da lui tre
volte incendiata, si alzavano voci in suo favore; e poiché
immancabilmente, nel caso fosse stata respinta, egli avrebbe portato
la sua offerta, con odiosi commenti, a conoscenza del popolo, questo
avrebbe facilmente potuto essere sobillato tanto che, con la forza
dello Stato, niente più si sarebbe potuto intraprendere contro di lui.
E concludeva che, in quel caso fuori dell'ordinario, bisognava passare
sopra lo scrupolo di aprire una trattativa con un cittadino che aveva
impugnato le armi; egli, in effetti, per colpa dei procedimenti
seguiti contro di lui, era stato posto, in certo modo, al di fuori del
consorzio statale; e, in breve, per uscire da quella situazione,
bisognava considerarlo più come una potenza straniera, come, in un
certo senso, il suo stesso essere forestiero lo qualificava, penetrata
nel paese, che come un ribelle sollevatosi contro il trono.
Il principe Elettore ricevette questa lettera proprio mentre il
principe Cristiano di Meissen, generalissimo dell'Impero, zio del
principe Federico di Meissen, battuto a Muhlberg, e ancora a letto per
le ferite, il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, il conte
Kallheim, presidente della Cancelleria di Stato, e i due signori Enzo
e Corrado di Tronka, ciambellano questi, coppiere l'altro, amici
d'infanzia e confidenti entrambi del sovrano, erano presenti a
palazzo. Il ciambellano, il nobile Corrado, che, in qualità di
consigliere segreto, sbrigava la corrispondenza privata del principe,
con facoltà di servirsi del suo nome e del suo sigillo, prese per
primo la parola, e, dopo aver spiegato ancora una volta, per filo e
per segno, che mai e poi mai egli avrebbe messo da parte, di propria
iniziativa, la querela che il mercante di cavalli aveva sporto presso
il Tribunale contro il barone, suo cugino, se, ingannato da false
informazioni, non l'avesse ritenuta una bega oziosa e priva di
qualunque fondamento, arrivò a parlare della situazione attuale.
Osservò che né in base alle leggi divine né in base a quelle umane il
mercante di cavalli era autorizzato a prendersi, per quello sbaglio,
una vendetta personale tanto mostruosa come quella che si era
permesso; descrisse la gloria che una trattativa con lui, come se
fosse stato una potenza militare in piena regola, avrebbe fatto cadere
sul suo capo maledetto da Dio; e la vergogna che ne sarebbe ricaduta
sulla sacra persona del principe gli sembrò così insopportabile, che,
nella foga della sua perorazione, affermò che avrebbe preferito
soffrire l'estremo, e vedere eseguita l'ordinanza del pazzo ribelle, e
il barone, suo cugino, portato a Pontekohlhaas, a ingrassare i
morelli, piuttosto di sapere che era stata accettata la proposta del
dottor Lutero.
Il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, espresse, rivolto a
metà verso di lui, il proprio dispiacere per il fatto che una così
delicata sollecitudine, come quella che egli mostrava, per il buon
nome del sovrano, nella conclusione di quella faccenda, certamente
incresciosa, non l'avesse ispirato fin dal momento del suo inizio.
Egli espose all'Elettore le sue riserve a fare ricorso alla forza
dello Stato per dare esecuzione a una misura chiaramente ingiusta;
osservò, con una significativa allusione al grande seguito che il
mercante di cavalli continuava a incontrare nel paese, che in questo
modo il filo dei delitti minacciava di dipanarsi all'infinito; e
dichiarò che solo una schietta azione di giustizia, che desse,
immediatamente e senza riguardi, riparazione all'errore al quale era
stato colpevolmente dato corso avrebbe potuto strapparlo, e tirar
fuori felicemente il governo da quel brutto impiccio.
Il principe Cristiano di Meissen, richiesto dal sovrano di dire che
cosa pensasse di tutto ciò, affermò, rivolgendosi con deferenza verso
il Gran Cancelliere, che la linea di pensiero da lui esposta gli
ispirava, sì, il massimo rispetto; ma, volendo aiutare Kohlhaas a
ottenere i suoi diritti, egli non rifletteva che così veniva a ledere
Vittemberga e Lipsia, e tutto il paese da lui devastato, nella giusta
pretesa di un risarcimento dei danni, o almeno della loro punizione.
L'ordinamento dello Stato era, in rapporto a quell'uomo, così
sconvolto, che difficilmente lo si sarebbe potuto raddrizzare con un
principio fatto derivare dalla scienza del diritto. Perciò egli era
del parere, secondo l'opinione del ciambellano, di fare ricorso ai
mezzi previsti per questi casi: radunare un esercito di grandezza
sufficiente, e con esso sloggiare o schiacciare il mercante di cavalli
che si era insediato a Lutzen.
Il ciambellano, mentre toglieva dalla parete due sedie, per lui e per
l'Elettore, e le sistemava con fare premuroso al centro della stanza,
disse di rallegrarsi che un uomo della sua probità e intelligenza
fosse d'accordo con lui sui mezzi per risolvere l'intricata questione.
Il principe, tenendo ancora, senza sedersi, la mano appoggiata sulla
sedia, e guardandolo fisso, gli assicurò che non aveva nessun motivo
di rallegrarsi per questo: poiché la misura necessariamente collegata
a questo era di spiccare, prima, un ordine di cattura contro di lui, e
metterlo sotto processo per abuso del nome del sovrano. Poiché, se la
necessità esigeva di calare il velo, davanti al trono della giustizia,
su una serie di delitti che, continuando a perdita d'occhio, non
trovavano ormai posti sufficienti per comparire davanti al suo
tribunale, questo non valeva per il primo, che li aveva causati; e
solo un'accusa capitale portata contro di lui avrebbe potuto
autorizzare lo Stato a schiacciare il mercante di cavalli, la causa
del quale era, come noto, più che giusta, e al quale essi stessi
avevano messo in mano la spada che brandiva. Il principe, mentre a
queste parole il barone lo guardava sgomento, si girò, facendosi rosso
su tutto il viso, e andò alla finestra.
Il conte Kallheim, dopo una pausa d'imbarazzo generale, disse che in
quella maniera non si usciva dal cerchio stregato di cui erano
prigionieri. Con lo stesso diritto si sarebbe potuto mettere sotto
processo il nipote del Generalissimo, il principe Federico; poiché
anche lui, nel corso della poco ortodossa campagna intrapresa contro
Kohlhaas, aveva in vari modi travalicato le istruzioni ricevute: di
modo che, se si fosse voluto fare l'elenco della lunga schiera di
quelli che avevano causato l'imbarazzante situazione in cui ci si
trovava, anch'egli sarebbe stato del numero, e il sovrano avrebbe
dovuto chiedergli conto di ciò che era avvenuto presso Muhlberg.
Il coppiere, il nobile Enzo di Tronka, mentre il principe, con sguardi
indecisi, andava verso il suo tavolo, prese la parola, e disse di non
capire come la decisione di Stato che doveva essere adottata potesse
sfuggire a uomini di tanta saggezza, come quelli lì riuniti. Il
mercante di cavalli, a quanto gli risultava, aveva promesso, in cambio
di un semplice salvacondotto per Dresda, e di una nuova indagine sulla
sua causa, di sciogliere la banda con la quale era penetrato nel
paese. Non ne seguiva, però, che gli si dovesse concedere l'amnistia
per la sua delittuosa vendetta personale: due concetti giuridici che
tanto il dottor Lutero quanto il Consiglio di Stato sembravano
confondere. "Quando", proseguì, toccandosi il naso con il dito, "il
Tribunale di Dresda avrà pronunciato, non importa come, la sentenza a
proposito dei morelli, niente impedirà di gettare Kohlhaas in prigione
per i suoi incendi e le rapine: soluzione politicamente opportuna, che
unisce i vantaggi di quelle dei due statisti che mi hanno preceduto, e
alla quale non potrà mancare il plauso dei contemporanei e dei
posteri".
Il principe Elettore, poiché sia egli, sia il Gran Cancelliere avevano
risposto solo con uno sguardo a questo discorso del coppiere, il
nobile Enzo, e con ciò la discussione sembrava terminata, disse che
avrebbe riflettuto per conto suo, fino alla prossima seduta del
Consiglio di Stato, sulle diverse opinioni che gli erano state
esposte. Sembrava che la misura preliminare da lui stesso suggerita
gli avesse tolto dal cuore, molto sensibile all'amicizia, la voglia di
mettere in atto la spedizione contro Kohlhaas, per la quale tutto era
già pronto. In ogni caso, trattenne presso di sé il Gran Cancelliere,
conte Wrede, la cui opinione gli sembrava la più praticabile; e,
quando questi gli ebbe mostrato delle lettere dalle quali risultava
che, in effetti, le forze del mercante di cavalli erano già cresciute
a quattrocento uomini, e anzi, per via della generale scontentezza
che, a causa delle prevaricazioni del ciambellano, regnava nel paese,
egli avrebbe potuto in breve contare su forze raddoppiate e
triplicate, il principe Elettore si decise, senza ulteriori
esitazioni, ad accettare il consiglio che il dottor Lutero gli aveva
dato. Affidò dunque al conte Wrede tutta la direzione dell'affare
Kohlhaas e già pochi giorni dopo compariva un manifesto, del quale
riassumiamo l'essenziale nel modo seguente:
"Noi, eccetera, eccetera, Principe Elettore di Sassonia, concediamo,
avendo preso in particolare e benigna considerazione l'intercessione
del dottor Martin Lutero presso di Noi, a Michele Kohlhaas, mercante
di cavalli del Brandeburgo, a condizione che, entro tre giorni dalla
visione della presente, abbia deposto le armi da lui impugnate, il
salvacondotto per recarsi a Dresda, al fine di replicare l'esame della
sua causa: affinché, nel caso in cui, come non è da attendersi, il
Tribunale di Dresda respinga la sua querela, a proposito dei morelli,
si proceda contro di lui, a causa della sua arbitraria impresa di
farsi giustizia da sé, con tutta la severità della legge; ma, nel caso
contrario, sia concessa a lui e a tutta la sua banda grazia in luogo
di giustizia, e completa amnistia per le violenze da lui commesse in
Sassonia".
Kohlhaas, non appena ebbe ricevuto, per mezzo del dottor Lutero, un
esemplare di quel manifesto, che era stato affisso in tutte le piazze
del paese, sciolse immediatamente, per quanto condizionate fossero le
espressioni in esso contenute, tutta la sua banda, con regali,
ringraziamenti e raccomandazioni opportune. Depose tutto quello che
aveva predato, denaro, armi e masserizie, presso il tribunale di
Lutzen, come proprietà del principe Elettore; e, dopo aver inviato
Waldmann a Pontekohlhaas, dal balivo, con una sua lettera, per il
riacquisto, se era possibile, della sua fattoria, e Sternbald a
Schwerin, a riprendere i suoi bambini, che desiderava avere di nuovo
con sé, lasciò il castello di Lutzen, e, in incognito, portandosi
dietro, sotto forma di documenti, il resto del suo piccolo patrimonio,
andò a Dresda.
Spuntava il giorno, e tutta la città dormiva ancora, quando egli bussò
alla porta della sua piccola proprietà nel sobborgo di Pirna, che
grazie all'onestà del balivo gli era rimasta, e disse a Tommaso, il
vecchio portiere al quale era affidata, che gli aveva aperto con
stupore e sgomento, di andare al palazzo del Governo e annunciare al
principe di Meissen che egli, Kohlhaas, il mercante di cavalli, era
arrivato. Il principe di Meissen, che, a questo annuncio, ritenne
opportuno informarsi immediatamente di persona della situazione nella
quale ci si trovava, riguardo a quell'uomo, trovò le strade che
portavano all'abitazione di Kohlhaas, quando, poco tempo dopo, vi
apparve, con il suo seguito di cavalieri e di fanti, già gremite, a
perdita d'occhi, dalla folla radunata. La notizia che era arrivato
l'Angelo sterminatore, che cacciava gli oppressori del popolo col
ferro e col fuoco, aveva richiamato tutta Dresda, città e sobborghi;
si dovette sbarrare il portone di casa davanti alla folla dei curiosi
che premeva, e i ragazzi si arrampicarono fino alle finestre, per
vedere coi loro occhi l'incendiario che faceva colazione.
Non appena il principe, con l'aiuto delle guardie, che gli facevano
largo, riuscì a entrare in casa, e giunse nella stanza di Kohlhaas,
chiese all'uomo che stava in piedi vicino a un tavolo, in maniche di
camicia, se fosse Kohlhaas, il mercante di cavalli; al che Kohlhaas,
tirando fuori dalla cintura un portafogli con varie carte, che
attestavano la sua identità, e porgendoglielo rispettosamente, rispose
di sì, e aggiunse di esser venuto, dopo aver sciolto le sue truppe, a
Dresda, secondo l'immunità concessagli dal sovrano, per sporgere
davanti al tribunale la sua querela, a proposito dei morelli, contro
il barone Venceslao di Tronka. Il principe, dopo un rapido sguardo,
con il quale lo squadrò da capo a piedi, diede una scorsa alle carte
che si trovavano nel portafogli; si fece spiegare da lui che cosa
volesse dire una ricevuta che vi trovò, redatta dal tribunale di
Lutzen, a proposito dei beni depositati a beneficio del tesoro
dell'Elettore; e, dopo aver ulteriormente saggiato con domande di
varie specie, sui suoi bambini, il suo patrimonio e la vita che
pensava di condurre in futuro, che tipo di uomo fosse, e averlo
trovato sotto ogni punto di vista tale che si poteva essere tranquilli
sul suo conto, gli restituì le carte e gli disse che niente si
opponeva al suo processo, e che, per avviarlo, si rivolgesse pure
direttamente al Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede.
"Nel frattempo", disse il principe dopo una pausa, avvicinandosi alla
finestra e osservando con stupore il popolo radunato davanti alla
casa, "dovrai, per i primi giorni, accettare una scorta che ti
protegga, sia in casa tua, sia quando esci".
Kohlhaas, turbato, guardava a terra davanti a sé, e taceva. Il
principe disse: "Fa lo stesso!", e lasciò la finestra. "Di ciò che
sarà, dovrai fare carico a te stesso"; e con ciò si girò verso la
porta, con l'intenzione di lasciare la casa.
Kohlhaas, che aveva riflettuto, disse: "Vostra Grazia, fate ciò che
volete. Datemi la vostra parola di ritirare la scorta, non appena io
lo desideri, e non avrò niente da obbiettare circa questo
provvedimento".
Il principe replicò che non c'era bisogno di dirlo; e, dopo aver
spiegato a tre lanzi, che gli erano stati presentati a quello scopo,
che l'uomo nella casa del quale si trattenevano era libero, e che solo
per sua difesa dovevano, quando usciva, seguirlo, salutò il mercante
di cavalli con un cenno condiscendente della mano, e si allontanò.
Verso mezzogiorno Kohlhaas, accompagnato dai suoi tre lanzi, e seguito
da una folla sterminata che, tuttavia, messa sull'avviso dalla
polizia, non gli fece nessun male, andò dal Gran Cancelliere del
tribunale, conte Wrede. Il Gran Cancelliere, che lo ricevette
gentilmente e con indulgenza nella sua anticamera, si intrattenne con
lui per due ore intere; e, dopo essersi fatto raccontare dal principio
alla fine come si erano svolte le cose, gli disse di rivolgersi, per
l'immediata stesura e presentazione della querela, a un noto avvocato
cittadino, che esercitava presso il tribunale. Kohlhaas, senza
ulteriori indugi, andò nell'abitazione di questi; e dopo che la
querela fu redatta, in tutto e per tutto uguale alia prima che era
stata cassata, chiedendo la punizione del barone secondo le leggi, la
reintegrazione dei cavalli nello stato precedente e il risarcimento
dei danni suoi propri, e anche di quelli subiti dal suo servo Ersiano,
caduto presso Muhlberg, a favore della vecchia madre, fece,
accompagnato dalla folla, che continuava a guardarlo con tanto
d'occhi, ritorno a casa, ben deciso a non lasciarla più, a meno che
non fosse chiamato da affari improcrastinabili.
Nel frattempo anche il barone era stato rilasciato dalla sua custodia,
a Vittemberga, e, dopo essere guarito da una pericolosa risipola, che
gli aveva infiammato un piede, aveva ricevuto dal tribunale dello
Stato l'ingiunzione perentoria di presentarsi a Dresda, per rispondere
dell'accusa, sollevata contro di lui dal mercante di cavalli Kohlhaas,
di avere illegalmente trattenuto e sfiancato i suoi morelli. I due
fratelli, il ciambellano e il coppiere di Tronka, cugini del barone e
feudatari come lui, che prese alloggio da loro, lo ricevettero pieni
di indignazione e di disprezzo; lo chiamarono sciagurato, buono a
nulla, vergogna e disonore di tutta la famiglia, gli annunciarono che,
ormai, avrebbe perduto senza alcun dubbio il processo, e lo invitarono
a darsi da fare per rintracciare subito i morelli, poiché, fra le
risate di scherno del mondo, sarebbe stato condannato a ingrassarli.
Il barone disse, con voce debole e tremante, di essere l'uomo più
miserevole di questo mondo. Giurò e spergiurò di aver saputo
pochissimo di tutta la sventurata faccenda, che lo stava portando alla
rovina, e che di tutto avevano colpa il castaldo e il fattore, che, a
sua completa insaputa, e senza l'ombra del suo consenso, avevano usato
i cavalli per il raccolto, e con fatiche eccessive, in parte sui loro
stessi campi li avevano sfiancati. E, così dicendo, si sedette,
pregandoli di non farlo ricadere di proposito, con le insinuazioni e
le offese, nella malattia dalla quale si era appena riavuto.
Il giorno dopo i signori Enzo e Corrado, che avevano dei possedimenti
nella regione del castello incendiato di Tronka, su preghiera del
barone loro cugino, poiché non restava altro da fare, scrissero ai
loro affittuari e amministratori che si trovavano in zona, per
ottenere notizie dei morelli che quel giorno disgraziato erano andati
perduti, e che erano da allora del tutto svaniti. Ma tutto quello che,
a causa della completa devastazione del posto, e della strage di quasi
tutti gli abitanti, poterono venire a sapere fu che un servo, spinto a
piattonate dall'incendiario, li aveva tratti in salvo dalla baracca in
fiamme in cui si trovavano, ma in seguito, avendo chiesto dove dovesse
portarli, e che dovesse fare di loro, da quell'uomo sanguinario e
feroce aveva ricevuto una pedata per tutta risposta. La vecchia
governante del barone, tormentata dalla gotta, che si era rifugiata a
Meissen, interrogata per lettera assicurò al barone che il servo, il
mattino dopo quella notte di orrore, era andato con i cavalli verso il
confine del Brandeburgo; ma tutte le indagini fatte laggiù furono
vane, e quella notizia sembrò basata su un errore, poiché il barone
non aveva nessun servo che abitasse nel Brandeburgo, e neppure lungo
la strada che vi portava. Alcuni uomini di Dresda, che erano stati a
Wilsdruf pochi giorni dopo l'incendio dei castello di Tronka,
raccontarono che, più o meno nel periodo indicato, vi era giunto un
servo che tirava due cavalli per la cavezza, e, poiché le bestie erano
assai mal ridotte, e non avrebbero potuto proseguire, le aveva
lasciate nella stalla di un pecoraio, che era disposto a rimetterle in
piedi. Sembrava molto probabile, per varie ragioni, che si trattasse
proprio dei morelli oggetto dell'inchiesta; ma il pastore di Wilsdruf,
così assicuravano alcuni viaggiatori che giungevano da lì, li aveva di
nuovo rivenduti, non si sapeva a chi; e una terza diceria, di cui non
si riuscì a scoprire la fonte, diceva persino che i cavalli avessero
reso l'anima a Dio, e fossero sepolti nella fossa di Wilsdruf.
I signori Enzo e Corrado, per i quali questa piega degli avvenimenti
era, come è facile capire, la più gradita, dal momento che veniva a
liberarli, mancando al barone loro cugino una stalla propria, dalla
necessità di nutrire i morelli nelle loro, volevano tuttavia, per
essere pienamente sicuri, accertare la circostanza. Il barone
Venceslao di Tronka mandò perciò uno scritto, nella sua qualità di
titolare del feudo, con diritti giurisdizionali, al tribunale di
Wilsdruf, in cui lo pregava con il massimo zelo, dopo una minuziosa
descrizione dei morelli che come egli diceva, gli erano stati
affidati, ed erano andati smarriti per un incidente, di fare indagini
sul posto dove ora si trovassero, e di intimare al proprietario,
chiunque fosse, di farli recapitare, dietro generoso rimborso di tutte
le spese, nelle stalle del ciambellano, il nobile Corrado, a Dresda.
In seguito a ciò, pochi giorni dopo, comparve davvero l'uomo al quale
il pastore di Wilsdruf li aveva ceduti, e li portò, secchi e
vacillanti, legati al montante del suo carro, sulla piazza del mercato
della città; ma la cattiva sorte del nobile Venceslao, e ancor più
dell'onesto Kohlhaas, volle che egli fosse lo scortichino di Dobbeln.
Non appena il nobile Venceslao, alla presenza del ciambellano suo
cugino, venne a sapere, da voci vaghe, che era arrivato in città un
uomo con due cavalli neri, scampati all'incendio del castello di
Tronka, tutti e due si recarono accompagnati da alcuni servi radunati
in fretta nella casa, sulla piazza principale, dove l'uomo si trovava,
per rilevarli, nel caso fossero quelli appartenenti a Kohlhaas, previo
rimborso delle spese, e portarli a casa. Ma quale fu l'imbarazzo dei
due nobili quando videro già, intorno al carro al quale erano legate
le bestie, un mucchio di persone, attratte dallo spettacolo, che
andavano crescendo di momento in momento e gridavano le une alle
altre, fra sonore risate, che ormai i cavalli che avevano fatto
tremare lo Stato erano finiti nelle mani dello scortichino!
Il barone, che aveva fatto il giro del carretto, e aveva osservato
quelle povere bestie, che sembravano dover morire da un momento
all'altro, disse, imbarazzato, che non erano i cavalli che aveva
ritirato a Kohlhaas; ma il nobile Corrado, il ciambellano,
lanciandogli un'occhiata piena di muto furore, che, se fosse stata di
ferro, lo avrebbe schiacciato, andò, gettando indietro il mantello, e
scoprendo il collare e le insegne del suo grado, vicino allo
scortichino, e gli chiese se si trattava dei morelli che il pastore di
Wilsdruf si era tenuto, e che il barone Venceslao di Tronka, al quale
appartenevano, aveva fatto cercare per mezzo del tribunale.
Lo scortichino, che, con un secchio d'acqua in mano, era occupato a
dar da bere a uno stallone grosso e ben pasciuto, che tirava il
barroccio, disse: "I neri?", tolse al cavallo, dopo aver posato il
secchio a terra, il morso di bocca, e disse che i morelli legati al
montante glieli aveva venduti il porcaro di Hainichen. Di dove quello
li avesse avuti, e se venissero dal pecoraio di Wilsdruf, lui non lo
sapeva. A lui, disse riprendendo il secchio, appoggiandolo contro la
stanga e tenendolo fermo col ginocchio, a lui il messo del tribunale
di Wilsdruf aveva detto di portarli a Dresda, a casa di quelli di
Tronka; ma il barone al quale doveva rivolgersi si chiamava Corrado. E
a queste parole si girò, rovesciando sul selciato della strada l'acqua
che il suo cavallo aveva avanzato nel secchio.
Il ciambellano, sul quale erano beffardamente puntati tutti gli occhi
della folla, e che non riusciva a ottenere da quell'uomo, intento, con
zelo imperturbabile, alle sue faccende, di farsi guardare in faccia,
disse di essere lui il ciambellano, Corrado di Tronka; i morelli che
egli doveva ritirare appartenevano, però, a suo cugino; erano arrivati
al pecoraio di Wilsdruf per mezzo di un servo, che era fuggito in
occasione dell'incendio del castello di Tronka; ma originariamente
erano due cavalli di proprietà del mercante di cavalli Kohlhaas! Egli
chiese all'uomo, che stava a gambe larghe, e si tirava su i pantaloni,
se non sapesse niente di tutto questo; e se il porcaro di Hainichen
non se li fosse magari procurati, tutto dipendeva da questa
circostanza, dal pecoraio di Wilsdruf, oppure da un terzo, che a sua
volta li aveva acquistati da lui.
Lo scortichino, che, messosi contro il carro, vi aveva fatto un po'
d'acqua, disse che gli era stato ordinato di venire a Dresda con i
morelli, e di andare a prendere in casa di quelli di Tronka il denaro
che in cambio gli spettava. Di quel che gli andava raccontando, lui
non capiva niente; e se prima del porcaro di Hainichen li aveva avuti
Tizio, o Caio, o il pecoraio di Wilsdruf, questo per lui, dal momento
che non erano rubati, era uguale. E con questo si diresse, gettatasi
la frusta di traverso sulle ampie spalle, verso una bettola che si
trovava sulla piazza, col proposito, affamato com'era, di mangiare un
boccone. Il ciambellano, che non sapeva che farsene dei cavalli che il
porcaro di Hainichen aveva venduto allo scortichino di Dobbeln, se non
erano quelle le bestie sulle quali il diavolo cavalcava per la
Sassonia, chiese al barone di pronunciarsi; ma quando costui, con
labbra pallide e tremanti, ebbe detto che la cosa più consigliabile
era comprare i morelli, che appartenessero a Kohlhaas oppure no, il
ciambellano maledisse il padre e la madre che l'avevano messo al mondo
e, tiratosi giù il mantello del tutto incerto su ciò che bisognava
fare o non fare, uscì dalla ressa. Chiamò il barone di Wenk, suo
conoscente, che passava a cavallo per la strada, e, ostinandosi a non
lasciare la piazza, proprio perché la marmaglia lo fissava con
scherno, e, premendosi i fazzoletti sulla bocca, sembrava non
aspettare altro che se ne andasse per scoppiare in risate, lo pregò di
scendere dal Gran Cancelliere, conte Wrede, e, tramite lui, far venire
laggiù Kohlhaas, a esaminare i morelli.
Capitò che Kohlhaas, mandato a chiamare da un messo del tribunale, si
trovasse appunto nella stanza del Gran Cancelliere, per via di certe
spiegazioni che gli erano state richieste a proposito del deposito di
Lutzen, quando il barone di Wenk fu introdotto presso di lui con
l'incarico che sappiamo; e, mentre il Gran Cancelliere si alzava dalla
poltrona con il viso contrariato, e il mercante di cavalli, la cui
persona era sconosciuta al barone, rimaneva in disparte, con le carte
che teneva in mano, questi riferì l'imbarazzante situazione in cui si
trovavano i signori di Tronka. Lo scortichino di Dobbeln, a causa di
indagini troppo sommarie del tribunale di Wilsdruf, era comparso con
dei cavalli in condizioni così disperate, che il barone Venceslao
esitava a riconoscerli come quelli appartenenti a Kohlhaas; e di
conseguenza, se si volevano rilevare lo stesso dallo scortichino, per
fare il tentativo di rimetterli in forze nelle stalle dei cavalieri,
era prima necessaria un'ispezione oculare da parte di Kohlhaas, per
eliminare ogni dubbio dalla suddetta circostanza. "Abbiate pertanto la
bontà", concluse, "di mandare a prendere da una scorta il mercante, e
farlo portare al mercato, dove si trovano i cavalli".
Il Gran Cancelliere, togliendosi gli occhiali dal naso, rispose che
egli era incorso in un duplice errore: in primo luogo, se riteneva che
la circostanza in questione non si potesse accertare in altro modo, se
non con un'ispezione oculare del Kohlhaas; e poi se immaginava che
egli, il Cancelliere, fosse autorizzato a far portare Kohlhaas da una
scorta dovunque piacesse al barone. Quindi gli presentò il mercante,
che era in piedi alle sue spalle, e lo pregò, sedendosi e rimettendosi
gli occhiali, di rivolgersi direttamente a lui per quella faccenda.
Kohlhaas, il cui viso non dava a vedere niente di ciò che accadeva nel
suo cuore, disse di essere pronto a seguirlo al mercato, per esaminare
i morelli che lo scortichino aveva portato in città. Mentre il barone
si girava, confuso, verso di lui, egli si avvicinò di nuovo al tavolo
del Gran Cancelliere, e, dopo avergli dato, tirandole fuori dalle
carte del suo portafogli, una serie di informazioni riguardanti il
deposito di Lutzen, prese congedo da lui; il barone, che, rosso su
tutto il viso, si era avvicinato alla finestra, fece egualmente i suoi
rispetti; e tutti e due, accompagnati dai tre lanzi assegnati dal
principe di Meissen, si avviarono, col seguito di una gran folla,
verso la piazza principale.
Il ciambellano, il nobile Corrado, che nel frattempo, sfidando i
consigli di parecchi amici che gli si erano radunati intorno, era
rimasto fermo al suo posto, in mezzo al popolo, di fronte allo
scortichino di Dobbeln, non appena apparve il barone con il mercante
di cavalli si avvicinò a quest'ultimo, e gli chiese, tenendo la spada,
con superbia e ostentazione, sotto il braccio, se i cavalli che
stavano dietro il carro erano i suoi. Il mercante, dopo essersi tolto,
con gesto rispettoso, il cappello, di fronte al signore che gli aveva
rivolto la domanda, che lui non conosceva, si avvicinò, senza
rispondergli, seguito da tutti i cavalieri, al carretto dello
scortichino; e, dopo aver osservato di sfuggita, da una distanza di
dodici passi, dove si fermò, gli animali, che se ne stavano là sulle
gambe malferme, con le teste chine verso terra, senza toccare il fieno
che lo scortichino aveva messo loro davanti, si rivolse di nuovo al
ciambellano: "Vostra Grazia, lo scortichino ha proprio ragione; i
cavalli legati al suo barroccio mi appartengono". E con questo,
girando gli occhi tutt'intorno sul cerchio dei signori, alzò un'altra
volta il cappello e, accompagnato dalla sua scorta, lasciò la piazza.
A quelle parole il ciambellano si avvicinò a passi rapidi, che gli
fecero ondeggiare il cimiero, allo scortichino, e gli lanciò una borsa
di denaro; e mentre questi, con la borsa in mano, si ravviava i
capelli dalla fronte con un pettine di piombo, e contava i soldi, egli
ordinò a un servo di slegare i cavalli e di portarli a casa. Il servo,
che, al richiamo del padrone, si era staccato da un crocchio di amici
e parenti che aveva tra la folla, si avvicinò infatti, un po' rosso in
viso, ai cavalli, saltando una larga pozza di liquami che si era
formata accanto a loro; ma ne aveva appena toccato la cavezza, per
slegarli, quando mastro Himboldt, suo cugino, lo afferrò per un
braccio, e gridandogli: "Tu non toccherai quelle carogne!", lo
scaraventò via dal barroccio. E, saltando, con qualche esitazione, la
pozza di liquame, si girò indietro verso il ciambellano, che a
quell'incidente era rimasto senza parole, aggiungendo che doveva
procurarsi un garzone di scortichino, per fargli quel servizio!
Il ciambellano, che aveva squadrato per un momento mastro Himboldt,
schiumando di rabbia, si girò, e chiamò, al di sopra delle teste dei
cavalieri che lo circondavano, la scorta; e quando, su richiesta del
barone di Wenk, un ufficiale e alcuni armigeri del principe Elettore
furono giunti dal palazzo, esortò questi, dopo aver brevemente esposto
quali vergognose sobillazioni si permettessero i borghesi della città,
ad arrestare mastro Himboldt, il caporione. E, afferratolo per il
collo, lo accusò di aver scaraventato via dal carretto e malmenato il
suo servo, che, per suo ordine, stava slegando i morelli. Il mastro,
sfuggendo alla presa del ciambellano con un agile movimento, che lo
liberò, rispose: "Vostra Grazia! Far capire a un giovanotto di
vent'anni quel che deve fare non significa sobillarlo! Chiedetegli se,
contro l'uso e la decenza, è disposto a occuparsi dei cavalli legati
al carretto. Se è disposto a farlo, dopo quello che ho detto, sia
pure! Per quel che mi riguarda può anche squartarli e scorticarli!".
A queste parole il ciambellano si girò verso il servo, e gli chiese se
aveva qualche obiezione a eseguire il suo ordine, e a slegare i
cavalli che appartenevano a Kohlhaas e a portarli a casa; e poiché
questi rispose timidamente, cercando di confondersi fra i borghesi,
che bisognava ridare l'onore ai cavalli, prima di pretendere questo da
lui, il ciambellano gli corse dietro, gli strappò il cappello, ornato
dallo stemma della casata, e, dopo averlo calpestato, trasse dal
fodero la spada e con furibondi colpi di piatto cacciò il servo, sui
due piedi, dalla piazza e dal suo servizio. "Addosso! Buttate a terra
quell'assassino!", urlò mastro Himboldt; e, mentre i borghesi,
indignati da quella scena, stringevano le file e respingevano le
guardie, afferrò da dietro il ciambellano, lo gettò a terra, gli
strappò il mantello, l'elmo e il colletto, gli tolse di mano la spada
e la scaraventò lontano, con rabbia, attraverso la piazza. Invano il
barone Venceslao, mentre si metteva in salvo dal tumulto, gridò ai
cavalieri di correre in aiuto del cugino; prima di aver fatto un
passo, essi erano già dispersi dalla folla che premeva, così che il
ciambellano, che si era ferito alla testa cadendo, rimase
completamente in balìa del furore popolare.
Soltanto la comparsa di uno squadrone di lanzi a cavallo che passavano
per caso nella piazza, e che l'ufficiale degli armigeri del palazzo
chiamò in suo soccorso, poté salvare il ciambellano. L'ufficiale,
ricacciata la folla, afferrò l'artigiano inferocito e, mentre questi
veniva portato in prigione da alcuni soldati a cavallo, due amici
sollevarono da terra il disgraziato ciambellano, coperto di sangue, e
lo portarono a casa. Così disastroso fu l'esito dell'onesto e
benintenzionato tentativo di dare soddisfazione al mercante di cavalli
per il torto che gli era stato fatto. Lo scortichino di Dobbeln, per
il quale l'affare era concluso, e che non voleva trattenersi più a
lungo, quando la gente cominciò a disperdersi legò i cavalli a un
lampione, dove le bestie rimasero, senza che nessuno se ne curasse, a
ludibrio dei ragazzi di strada e dei perdigiorno, per tutta la
giornata; tanto che, in assenza di ogni altra cura e custodia, dovette
farsene carico la polizia, che, al calare della notte, andò a chiamare
lo scortichino di Dresda, per farli ricoverare, fino a nuove
disposizioni, nello scorticatoio fuori le mura cittadine.
Questo incidente, per quanto poco, in realtà, il mercante ne avesse
colpa, suscitò tuttavia nel paese, anche fra gli uomini migliori e più
moderati, uno stato d'animo estremamente pericoloso per il buon esito
della sua causa. Si trovava del tutto intollerabile il suo rapporto
con lo Stato e, nelle case private e sulle pubbliche piazze, si fece
strada l'opinione che fosse meglio commettere contro di lui una palese
ingiustizia, e mettere di nuovo tutto quanto a tacere, piuttosto che
rendergli una giustizia estorta con azioni violente, in una questione
così insignificante, soltanto per soddisfare la sua folle ostinazione.
E, a completare la rovina del povero Kohlhaas, lo stesso Gran
Cancelliere dovette contribuire, per eccessiva probità, e per l'odio
contro la famiglia dei Tronka che ne derivava, a confermare e a
diffondere questo stato d'animo. Era quanto mai improbabile che i
cavalli, dei quali adesso si occupava lo scortichino di Dresda,
potessero mai essere riportati allo stato in cui si trovavano quando
erano usciti dalle stalle di Pontekohlhaas; ma, ammesso pure che
questo, con estrema perizia e cure assidue, fosse possibile, la
vergogna che nelle circostanze attuali ne sarebbe ricaduta sulla
famiglia del barone era tanto grande, che, dato il peso che essa
rivestiva nello Stato e nel paese, come una delle prime e più nobili,
niente pareva più ragionevole e opportuno che cercare di procurare un
indennizzo dei cavalli in denaro. Come che fosse, a una lettera, nella
quale il presidente del tribunale, conte Kallheim, a nome del
ciambellano, trattenuto in casa dalla sua indisposizione, faceva al
Gran Cancelliere, pochi giorni dopo questa proposta, quest'ultimo
rispose sì inviando a Kohlhaas uno scritto in cui lo esortava a non
respingere una simile offerta, nel caso gli venisse fatta, ma al
presidente stesso replicò con un biglietto breve e poco cerimonioso,
in cui lo pregava di risparmiargli incarichi privati in quella
faccenda, e invitava il ciambellano a rivolgersi direttamente al
mercante di cavalli, che gli dipinse come uomo ragionevole e modesto.
Il mercante di cavalli, la cui volontà era stata realmente spezzata
dall'incidente avvenuto sulla piazza del mercato, non aspettava per
l'appunto altro, secondo il consiglio del Gran Cancelliere, che un
passo da parte del barone, o di uno dei suoi parenti, per venire loro
incontro con tutta la buona volontà, perdonando quanto era accaduto;
ma proprio compiere questo passo era penoso per gli orgogliosi
cavalieri; i quali, profondamente amareggiati dalla risposta che
avevano ricevuto dal Gran Cancelliere, la mostrarono al principe
Elettore che, il mattino del giorno seguente, aveva fatto visita al
ciambellano, nella stanza dove egli giaceva indisposto per le ferite
riportate. Il ciambellano, con una voce che il suo stato rendeva
flebile e toccante, gli chiese se egli, dopo aver messo a repentaglio
la vita per risolvere quella faccenda secondo i suoi desideri, doveva
ancora esporre il suo onore al biasimo del mondo, e farsi avanti con
una preghiera di accomodamento e di accondiscendenza verso un uomo che
aveva riversato ogni onta e vergogna immaginabile su di lui e sulla
sua famiglia. Il principe Elettore, dopo aver letto la lettera,
domandò imbarazzato al conte Kallheim se il tribunale non fosse
autorizzato, senza ulteriori colloqui con Kohlhaas, a basarsi sulla
circostanza che i cavalli non potevano essere ristabiliti, e a
pronunciare quindi, come se fossero morti, una sentenza di semplice
risarcimento in denaro.
"Sono morti, Vostra Grazia", rispose il conte; "sono morti in senso
giuridico, poiché non hanno nessun valore, e lo saranno anche
fisicamente, prima che siano condotti dallo scorticatoio alle stalle
dei cavalieri"; al che il principe Elettore, mettendosi in tasca la
lettera, disse che ne avrebbe parlato di persona con il Gran
Cancelliere, tranquillizzò il ciambellano, che si tirò su a metà, per
stringergli, riconoscente, la mano, e, dopo avergli raccomandato
ancora una volta di aver cura della sua salute, si alzò, con
espressione di grande benevolenza, dalla poltrona, e lascio la stanza.
Così stavano le cose a Dresda, quando sul povero Kohlhaas si addensò
un'altra e più grave tempesta, proveniente da Lutzen, le cui folgori
gli astuti cavalieri furono abbastanza abili da dirigere sul suo capo
sfortunato. Giovanni Nagelschmidt, infatti, uno dei servi arruolati
dal mercante, e poi congedati dopo la pubblicazione dell'amnistia del
principe Elettore, aveva pensato bene, poche settimane dopo, ai
confini della Boemia, di riunire nuovamente una parte di quella
marmaglia, rotta a tutte le infamie, e di continuare per conto suo il
mestiere al quale Kohlhaas lo aveva avviato. Questo poco di buono, sia
per incutere spavento agli sbirri, dai quali era inseguito, sia per
indurre, secondo un metodo già sperimentato, la gente delle campagne a
unirsi alle sue ribalderie, si proclamava luogotenente di Kohlhaas;
con l'astuzia appresa dal suo padrone, egli sparse la voce che nei
confronti di molti servi che erano pacificamente ritornati alle loro
case l'amnistia non era stata rispettata, e che Kohlhaas stesso, con
spergiuro che gridava vendetta al cielo, al suo arrivo a Dresda era
stato arrestato, e consegnato alle guardie; fino al punto che, su
manifesti in tutto simili a quelli di Kohlhaas, la sua masnada di
incendiari era presentata come un esercito insorto a sola gloria di
Dio, e destinato a vigilare sull'osservanza dell'amnistia a loro
concessa dal principe Elettore; tutto questo, come si è già detto,
niente affatto a gloria di Dio, né per attaccamento a Kohlhaas, la cui
sorte era loro del tutto indifferente, ma per poter, ammantati da
simili finzioni, tanto più impunemente e comodamente incendiare e
saccheggiare.
I nobili, non appena arrivarono a Dresda le prime notizie di ciò, non
seppero soffocare la loro gioia per l'incidente, che dava all'intera
faccenda un aspetto ben diverso. Con sapienti e velenose allusioni
essi ricordarono quale passo falso fosse stato, a dispetto dei loro
pressanti e ripetuti ammonimenti, concedere a Kohlhaas l'amnistia,
quasi si fosse avuta l'intenzione di dare con questa ai ribaldi di
tutte le specie l'autorizzazione a mettersi sulla stessa strada; e,
non contenti di prestar fede alla pretesa del Nagelschmidt di aver
preso le armi solo in difesa e per la sicurezza del suo perseguitato
padrone, manifestarono perfino l'opinione ben precisa che la comparsa
di costui altro non fosse che una trama ordita dallo stesso Kohlhaas,
per mettere paura al governo, affrettare la pronuncia della sentenza e
ottenerla punto per punto conforme alla sua folle ostinazione. Il
coppiere, il nobile Enzo, andò addirittura tanto oltre da proclamare,
di fronte ad alcuni gentiluomini di caccia e cortigiani, che, dopo il
banchetto, si erano radunati intorno a lui nell'anticamera
dell'Elettore, che lo scioglimento della banda di masnadieri a Lutzen
non era stato altro che una perfida commedia; e, facendosi beffe
dell'amore di giustizia del Gran Cancelliere, mostrò, con una serie di
elementi astutamente collegati, come la banda fosse presente come
prima nei boschi dei principato, e aspettasse solo un cenno del
mercante di cavalli per irrompere ancora una volta, col ferro e col
fuoco.
Il principe Cristiano di Meissen, molto contrariato dalla piega che
prendevano le cose, che minacciava di macchiare in modo
spiacevolissimo il buon nome del suo signore, andò immediatamente da
lui a palazzo; e, ben intuendo che i nobili avevano interesse a
rovinare Kohlhaas, se era possibile, a causa dei nuovi delitti, chiese
al signore il permesso di sottoporre subito il mercante a un
interrogatorio. Il mercante, portato, non senza stupore, da uno
sgherro, al palazzo del governo, apparve portando in braccio Enrico e
Leopoldo, i suoi due piccini; poiché Sternbald, il suo servo, era
giunto presso di lui il giorno prima con i suoi cinque figli dal
Meclemburgo, dove essi erano rimasti fino a quel momento, e vari
pensieri, che sarebbe troppo lungo esporre, l'avevano indotto a
prendere in braccio i due marmocchi, i quali, quando stava per uscire,
l'avevano chiesto versando lacrime infantili, e a portarseli dietro
all'interrogatorio.
Il principe, dopo aver osservato benevolmente i bambini, che Kohlhaas
aveva fatto sedere accanto a sé, e avere chiesto con gentilezza quanti
anni avevano e come si chiamavano, gli fece presenti gli abusi che il
Nagelschmidt, già suo servo, stava commettendo nelle valli dei monti
Metalliferi; e, porgendogli i sedicenti mandati di costui, lo esortò a
esporre quello che poteva dire a propria giustificazione. Il mercante,
per quanto realmente spaventato da quei fogli svergognati e proditori,
non ebbe tuttavia, di fronte a un uomo retto qual era il principe,
molta pena a dimostrare in modo soddisfacente l'infondatezza delle
accuse che gli venivano contestate. Non solo, egli fece osservare, per
come stavano andando le cose egli non aveva nessun bisogno di aiuto da
parte di un terzo per la decisione della sua causa, che procedeva nel
migliore dei modi; ma da alcune lettere che aveva con sé, e che mostrò
al principe, emergeva come del tutto inverosimile che il Nagelschmidt
potesse avere in animo di prestargli un aiuto simile, poiché, poco
prima dello scioglimento, a Lutzen, della banda, egli era sul punto di
far impiccare quel ribaldo, a causa degli stupri e di altre violenze
da lui commesse nelle campagne; tanto che solo la pubblicazione
dell'amnistia concessa dal principe, eliminando tra loro ogni
rapporto, lo aveva salvato, e il giorno dopo i due si erano separati
come nemici mortali.
Kohlhaas, su sua proposta, che il principe accettò, si sedette, e
scrisse una lettera per il Nagelschmidt, nella quale dichiarava che la
pretesa di costui di aver preso le armi per salvaguardare l'amnistia
violata a lui e alla sua banda era un'infame e scellerata invenzione;
gli diceva che al suo arrivo a Dresda egli non era stato arrestato, né
consegnato alle guardie, e che anche la sua causa procedeva in modo
del tutto conforme ai suoi desideri; e, per gli incendi e le stragi da
lui commesse nei monti Metalliferi dopo la pubblicazione
dell'amnistia, lo abbandonava, ad ammonimento della banda raccolta
intorno a lui, al pieno rigore della legge. A questo furono allegati
alcuni estratti del procedimento criminale che il mercante di cavalli
aveva istruito contro di lui nel castello di Lutzen, a causa delle
ribalderie di cui si è detto, affinché il popolo fosse istruito sul
conto di quel buono a nulla, fin da allora destinato alla forca, che,
come si è già detto, solo il provvedimento di clemenza del principe
aveva salvato. In seguito a ciò il principe tranquillizzò Kohlhaas a
proposito del sospetto che, costretti dalle circostanze, avevano
dovuto avanzare contro di lui nell'interrogatorio; gli assicurò che,
finché egli fosse stato a Dresda, l'amnistia che gli era stata
concessa non sarebbe stata in alcun modo violata, diede ancora una
volta la mano ai bambini, regalando loro della frutta che si trovava
sulla tavola, salutò Kohlhaas e lo congedò.
Il Gran Cancelliere, che però vedeva il pericolo che incombeva sul
mercante di cavalli, fece l'impossibile per portarne a conclusione,
prima che da nuovi avvenimenti venisse complicata e confusa, la causa;
ma proprio questo era il desiderio e il fine dei cavalieri, che, da
politici consumati, anziché limitare, come prima, con tacita
ammissione della loro colpa, la loro opposizione al raggiungimento di
una sentenza mite, cominciarono ora, con argomentazioni speciose e
cavillose, a negare quella colpa completamente. Ora davano a intendere
che i morelli di Kohlhaas erano stati trattenuti al castello di Tronka
in seguito a decisioni arbitrarie del castaldo e del fattore, delle
quali il barone non aveva avuto nessuna conoscenza, oppure incompleta;
ora assicuravano che, fin dal momento del loro arrivo nel castello,
gli animali soffrivano già di una violenta e pericolosa tosse,
appellandosi a testimoni che si impegnavano a citare al momento
opportuno; e quando, dopo lunghe indagini e discussioni, questi loro
argomenti vennero a cadere, essi esibirono addirittura un editto del
principe Elettore, con il quale, dodici anni prima, a causa di
un'epidemia del bestiame, era stata, in effetti, vietata
l'importazione dei cavalli dal Brandeburgo in Sassonia: prova lampante
che il barone non soltanto era autorizzato, ma era tenuto a trattenere
i cavalli che Kohlhaas portava oltre confine.
Kohlhaas, che nel frattempo aveva ricomprato dall'onesto balivo di
Pontekohlhaas, in cambio di un modesto risarcimento del danno da lui
subìto, la sua fattoria, voleva, a quanto sembra allo scopo di
perfezionare giuridicamente quel contratto, lasciare per qualche
giorno Dresda, e recarsi nella sua patria; risoluzione nella quale
tuttavia, non ne dubitiamo, ebbe un ruolo, ancora più di quell'affare,
per quanto urgente fosse, la necessità di provvedere alle semine
invernali, l'intenzione di saggiare la sua posizione, in circostanze
tanto singolari e preoccupanti: e alla quale contribuirono, forse,
anche ragioni di altra specie, che preferiamo lasciar indovinare a
chiunque sappia vedere nel proprio cuore. Andò dunque, lasciando a
casa la guardia che gli era stata assegnata, presso il Gran
Cancelliere, e gli fece sapere, le lettere del balivo in mano, che era
sua intenzione, nel caso che il tribunale non avesse, come sembrava,
necessità della sua presenza, lasciare la città, e, per un periodo di
otto o dodici giorni, trascorsi i quali prometteva di essere di
ritorno, compiere un viaggio nel Brandeburgo. Il Gran Cancelliere,
guardando a terra con il volto scontento e preoccupato, obiettò che, a
dire il vero, la sua presenza era proprio allora più necessaria che
mai, poiché il tribunale, a causa delle insidiose e tortuose eccezioni
della controparte, aveva bisogno delle sue dichiarazioni e
chiarificazioni in mille casi imprevedibili; ma poiché Kohlhaas diceva
di rivolgersi al suo avvocato, perfettamente al corrente della causa,
e ritornava con rispettosa insistenza, promettendo di limitarsi a otto
giorni, sulla sua richiesta, il Gran Cancelliere, dopo una pausa, gli
disse brevemente, congedandolo, di sperare che egli richiedesse, a
tale scopo, il permesso scritto al principe Cristiano di Meissen.
Kohlhaas, che sapeva leggere in volto al Gran Cancelliere si mise, più
che mai confermato nella sua decisione, immediatamente a sedere, e
pregò, senza addurre alcuna ragione, il principe di Meissen, in quanto
capo del Governo, di concedergli un permesso di otto giorni per andare
a Pontekohlhaas e fare ritorno. In risposta al suo scritto, egli
ricevette una risoluzione governativa, firmata dall'intendente di
Palazzo, barone Sigfrido di Wenk, che suonava così: "La sua richiesta
di un permesso per recarsi a Pontekohlhaas sarebbe stata presentata a
Sua Altezza il principe Elettore, e, non appena fosse pervenuto il suo
alto consenso, il permesso gli sarebbe stato inviato". Quando Kohlhaas
si informò, presso il suo avvocato, come mai la risoluzione
governativa fosse firmata da un certo barone Sigfrido di Wenk, anziché
dal principe Cristiano di Meissen, al quale egli si era rivolto,
ottenne questa risposta: il principe era partito, tre giorni prima,
per i suoi possedimenti, e durante la sua assenza gli affari di
Governo erano stati affidati all'intendente di Palazzo, il barone
Sigfrido di Wenk, cugino del nobile, di cui si è detto sopra, che
portava lo stesso nome.
Kohlhaas, al quale tutti questi contrattempi cominciavano a far
battere il cuore con inquietudine, attese per parecchi giorni la
decisione relativa alla sua richiesta, trasmessa alla persona del
sovrano con singolare lentezza; ma una settimana passò e passarono
altri giorni, senza che la decisione giungesse, né ii tribunale, per
quanto gli fosse stato dato per sicuro, pronunciasse la sentenza:
tanto che, il dodicesimo giorno, fermamente deciso a far venire alla
luce le intenzioni del Governo nei suoi confronti, fossero quelle che
fossero, Kohlhaas sedette e pregò di nuovo il governo di fargli avere,
sottolineandone l'urgenza, il permesso che aveva richiesto.
Ma quale fu il suo turbamento, quando egli, la sera del giorno dopo,
anch'esso passato senza che arrivasse l'attesa risposta, mentre,
immerso nei suoi pensieri, rifletteva sulla sua situazione, e in
particolare sull'amnistia che gli aveva fatto ottenere il dottor
Lutero, si avvicinò alla finestra dello stanzino che dava sul retro,
e, nel piccolo fabbricato annesso che si trovava sul cortile, e che
egli aveva riservato alla scorta, per sua dimora, non vide più la
guardia che il principe di Meissen, al suo arrivo, gli aveva
assegnato.
Tommaso, il vecchio custode, da lui chiamato, interrogato su che cosa
questo significasse, rispose sospirando: "Padrone! Non tutto va come
dovrebbe; i lanzi, che oggi sono più numerosi del solito, allo
scendere della notte si sono distribuiti tutto intorno alla casa; due
stanno, con lancia e scudo, davanti alla porta esterna, che dà sulla
strada; due a quella interna, sul giardino; e altri due sono distesi
nell'anticamera, su un fascio di paglia, e dicono che dormiranno lì".
Kohlhaas, che impallidì a quelle parole, si girò, e rispose che era lo
stesso, purché ci fossero; e lo pregò, quando scendeva al piano terra,
di portare ai lanzi una lampada, perché potessero vederci. Poi, dopo
aver aperto, con il pretesto di vuotare un recipiente, le imposte di
una finestra esterna, ed essersi convinto che ciò che il vecchio gli
aveva detto rispondeva a verità, poiché proprio allora avveniva, senza
nessun rumore, il cambio della guardia, misura alla quale, fino a quel
momento, da quando essa era stata istituita, nessuno aveva pensato,
andò, con poca voglia di dormire, a coricarsi, e la decisione per
l'indomani fu subito presa. Niente, infatti, rimproverava, al Governo
con cui aveva a che fare, se non l'apparenza della giustizia, nel
momento in cui, di fatto, esso violava nei suoi confronti l'amnistia
che gli era stata giurata; e se, in realtà, doveva essere prigioniero,
come non c'erano ormai più dubbi, voleva almeno costringerlo a
dichiarare in modo franco ed esplicito che era così.
Perciò, non appena arrivò il mattino del giorno seguente, egli ordinò
a Sternbald, il suo servo, di attaccare e condurre davanti a casa la
carrozza, per recarsi, così disse, a Lockewitz dal fattore, il quale,
suo vecchio conoscente, gli aveva parlato, a Dresda, alcuni giorni
prima, invitandolo a fargli visita con i suoi bambini. I lanzi, che,
tutti in crocchio, assistevano in casa a quei preparativi, mandarono
di nascosto uno di loro in città; e in pochi minuti apparve un
ufficiale del Governo, alla testa di numerosi armigeri, che, come se
avesse qualche affare da sbrigarvi, entrò nella casa di fronte.
Kohlhaas, che, occupato a vestire i ragazzi, aveva però notato quei
movimenti, e a appositamente aveva fatto sostare la carrozza davanti a
casa più a lungo di quanto fosse necessario, non appena vide che i
preparativi della polizia erano terminati, uscì con i bambini, senza
curarsene, davanti a casa, passò davanti al crocchio dei lanzi, in
piedi sotto il portone, dicendo loro che non occorreva che lo
seguissero, mise i bambini nella carrozza, e baciò e consolò le
bambine, che piangevano perché, secondo le sue disposizioni, dovevano
restare presso la figlia del vecchio portiere.
Era appena salito anche lui nella carrozza, quando l'ufficiale del
Governo, con il suo seguito di armigeri, uscì dalla casa di fronte,
gli si avvicinò e gli chiese dove aveva intenzione di andare. Alla
risposta di Kohlhaas che voleva recarsi a Lockewitz, da un amico, il
balivo, che alcuni giorni prima l'aveva invitato a raggiungerlo in
campagna, con i suoi due figli, l'ufficiale del Governo rispose che,
in tal caso, egli doveva aspettare qualche minuto, poiché alcuni lanzi
a cavallo, secondo gli ordini del principe di Meissen, l'avrebbero
accompagnato. Kohlhaas chiese sorridendo, sporgendosi dalla carrozza,
se credeva che la sua persona, in casa di un amico che si era offerto
di ospitarlo per un giorno alla sua mensa, sarebbe stata poco sicura.
L'ufficiale rispose, con tono allegro e amabile, che non c'era, in
effetti, gran pericolo; ma, aggiunse, i soldati, del resto, non
l'avrebbero disturbato in nessun modo. Kohlhaas replicò, serio, che il
principe di Meissen, al suo arrivo a Dresda, lo aveva lasciato libero
di servirsi della scorta oppure no; e, poiché l'ufficiale si
meravigliava di questa circostanza, e con prudenti giri di frase si
richiamava all'abitudine, durata per tutto il tempo del suo soggiorno,
il mercante di cavalli gli raccontò i fatti che erano stati
all'origine dell'insediamento della scorta. L'ufficiale lo assicurò
che gli ordini dell'intendente di Palazzo, barone di Wenk, che era, al
momento, a capo della polizia, lo obbligavano a proteggere
ininterrottamente la sua persona; e lo pregò, se proprio non voleva
accettare la scorta, di andare personalmente al palazzo del Governo,
per rimediare all'errore che doveva essere sorto. Kohlhaas, lanciando
all'ufficiale uno sguardo eloquente disse, deciso a rompere o a
spuntarla, che l'avrebbe fatto, scese, con il cuore che gli batteva,
dalla carrozza, fece portare i bambini in anticamera dal portiere, e,
mentre il servo restava fermo davanti alla porta con il veicolo, andò,
con l'ufficiale e la sua scorta, al palazzo del Governo.
Accadde che l'intendente di Palazzo, barone di Wenk, fosse per
l'appunto occupato a esaminare una banda di accoliti del Nagelschmidt,
portati laggiù la sera precedente, e che i furfanti, che erano stati
catturati nella regione di Lipsia, venissero interrogati dai
cavalieri, che erano là con lui, su un certo numero di particolari che
essi avrebbero voluto sapere da loro, quando il mercante di cavalli,
con i suoi accompagnatori, entrò nella sala. Il barone, non appena lo
vide, andò, mentre i cavalieri, di colpo, ammutolivano, interrompendo
l'interrogatorio dei prigionieri, verso di lui, e gli chiese che cosa
volesse; e, quando il mercante di cavalli gli ebbe esposto, con
deferenza, il suo proposito di recarsi a colazione presso il fattore,
a Lockewitz, e il desiderio di lasciare a casa i lanzi, dei quali non
aveva bisogno, il barone, cambiando colore, rispose, mentre sembrava
inghiottire un altro discorso, che avrebbe fatto bene a restarsene
tranquillo a casa sua, e a rimandare, per il momento, il banchetto
presso il balivo di Lockewitz. E con queste parole, troncando di netto
il discorso, si rivolse all'ufficiale, e gli disse che, per quanto era
degli ordini che gli aveva dato a proposito di quell'uomo, il problema
era chiuso, e che egli non aveva il permesso di allontanarsi dalla
città, se non sotto scorta di sei lanzi a cavallo. Kohlhaas chiese se
fosse prigioniero, e se dovesse credere che l'amnistia, che gli era
stata solennemente giurata, sotto gli occhi di tutto il mondo, fosse
infranta; al che il barone si girò, fattosi, tutto a un tratto, di
porpora, verso di lui, gli andò vicino, lo fissò negli occhi, e, dopo
avergli risposto: "Sì! Sì! Sì!", gli voltò la schiena e, piantandolo
in asso, ritornò agli uomini del Nagelschmidt.
Kohlhaas, a quel punto, lasciò la sala; e, pur rendendosi conto di
essersi resa molto più difficile, con i passi compiuti, l'unica via di
salvezza che gli restasse, vale a dire la fuga, si compiacque,
tuttavia, del suo operato, poiché anch'egli ormai si vedeva liberato,
dalla sua parte, dall'obbligo di rispettare le clausole dell'amnistia.
Fece, giunto a casa, staccare i cavalli, e, accompagnato
dall'ufficiale del Governo, si recò, assai triste e scosso, nella sua
stanza; e, mentre quest'uomo, con modi che ispiravano disgusto al
mercante, assicurava che tutto doveva dipendere solo da un malinteso,
che in breve tempo si sarebbe risolto, gli armigeri, a un suo cenno,
sbarravano tutte le uscite dell'abitazione che davano sul cortile; ma
l'ufficiale assicurò che l'ingresso principale, sul davanti, gli era
aperto, come prima, a suo piacimento.
Intanto il Nagelschmidt, nei boschi dei monti Metalliferi, era tanto
incalzato da ogni parte da armigeri e lanzi, che, completamente privo
com'era di mezzi per sostenere una parte come quella che si era
assunta, ebbe l'idea di tirare davvero Kohlhaas dalla sua parte; e,
poiché, per mezzo di un viandante che passava per quelle strade, era
stato informato in modo abbastanza preciso di come si erano messe le
cose a Dresda per la sua controversia, credette, a dispetto
dell'aperta inimicizia che li divideva, di poter indurre il mercante
di cavalli ad accettare una nuova alleanza con lui. Di conseguenza gli
inviò un servo, con uno scritto redatto in un tedesco appena
leggibile, di questo tenore: "Se voleva recarsi nell'Altenburgo, e
prendere di nuovo la guida della banda che là, con i resti di quella
sciolta, si era radunata, egli si offriva di dargli man forte, con
cavalli, uomini e denaro, per sfuggire alla prigionia di Dresda; e gli
prometteva di essere in futuro più obbediente, e in generale migliore
e più disciplinato che in passato, e, per dimostrare il suo
attaccamento e la sua fedeltà, si impegnava a venire in persona nella
zona di Dresda, per disporre la sua liberazione dal carcere". Ora,
l'uomo incaricato di portare la lettera ebbe la sfortuna di cadere, in
un villaggio assai vicino a Dresda, in preda a gravi convulsioni,
delle quali soffriva dalla giovinezza, e in quell'occasione la
lettera, che teneva nel farsetto, fu trovata da persone che gli erano
venute in aiuto; e perciò,
non appena si fu ripreso, venne arrestato, e, sotto buona scorta,
condotto, con grande accompagnamento di popolo, al palazzo del
Governo.
Non appena l'intendente, barone di Wenk, ebbe letto la lettera, andò
senza indugio dal principe Elettore, a palazzo, dove trovò presenti i
signori Enzo e Corrado, quest'ultimo ristabilito dalle sue ferite, e
il presidente della Cancelleria di Stato, conte Kallheim. I nobili
erano dell'opinione che Kohlhaas dovesse essere senz'altro arrestato,
e processato per le sue intese segrete con il Nagelschmidt; poiché,
argomentavano, una lettera simile non avrebbe potuto essere scritta,
se non fosse stata preceduta da altre, anche da parte del mercante di
cavalli, e, comunque, senza che fosse intercorsa tra loro una
scellerata e criminale intesa, per tramare nuove atrocità. Il principe
Elettore si rifiutò fermamente, sulla semplice base di quella lettera,
di violare il salvacondotto che aveva concesso e giurato; ed era,
anzi, dell'opinione che dalla lettera del Nagelschmidt emergesse, con
una certa probabilità, che fra loro non era intercorsa nessuna
precedente intesa; e tutto ciò a cui, per venire in chiaro della cosa
su proposta del presidente, e non senza molta esitazione, si decise,
fu di far consegnare la lettera a Kohlhaas, per mezzo del servo
inviato da Nagelschmidt, come se questo fosse ancora libero, per
verificare se avrebbe risposto.
Di conseguenza il servo, che era stato gettato in prigione, il mattino
seguente fu portato al palazzo del Governo, dove l'intendente gli
restituì la lettera, e gli ingiunse, con la promessa della libertà e
del condono della pena che si era meritata, di consegnare lo scritto,
come se niente fosse accaduto, al mercante di cavalli; il furfante si
lasciò utilizzare senza difficoltà per quello stratagemma di bassa
lega, e, facendo mostra di grande segretezza, con il pretesto di
vendergli dei gamberi, che l'ufficiale del Governo aveva comperato per
lui al mercato, entrò nella camera di Kohlhaas.
Kohlhaas, che lesse la lettera mentre i bambini giocavano con i
gamberi, in altre circostanze avrebbe certo afferrato il briccone per
il colletto, per consegnarlo ai lanzi di guardia alla sua porta; ma,
poiché la disposizione degli animi era tale che persino quel passo
avrebbe potuto essere interpretato con indifferenza, e lui si era
pienamente convinto che niente al mondo avrebbe potuto salvarlo dal
pasticcio in cui era invischiato, con uno sguardo triste fissò bene in
faccia quell'uomo, che conosceva bene, gli chiese dove abitasse, e lo
invitò a ritornare da lui di lì a qualche ora, che gli avrebbe fatto
sapere le sue decisioni a proposito del suo padrone. Disse a
Sternbald, che entrava per caso, di comprare un po' di gamberi
dall'uomo che si trovava nella stanza, e, quando l'affare fu concluso,
e i due si furono allontanati, senza riconoscersi, si sedette, e
scrisse a Nagelschmidt una lettera del seguente tenore: "Prima di
tutto, accettava la sua proposta, riguardo al supremo comando della
sua banda dell'Altenburgo; e di conseguenza, per liberarlo dalla
momentanea prigionia nella quale, con i suoi cinque figli, era tenuto,
che gli mandasse una carrozza con due cavalli a Neustadt, vicino
Dresda; inoltre aveva bisogno, per proseguire più in fretta, di un
altro tiro di due cavalli sulla strada per Vittemberga, poiché
soltanto attraverso quella deviazione, per ragioni che sarebbe stato
troppo lungo riportare, poteva raggiungerlo; i lanzi che lo
sorvegliavano credeva sì di poterli tirare dalla sua con la
corruzione; ma, nel caso che fosse necessaria la forza, voleva essere
certo che fossero presenti a Neustadt un paio di servi animosi, svegli
e ben armati; per far fronte alle spese richieste da tutti questi
preparativi gli inviava, attraverso il suo servo, un rotolo di venti
corone d'oro, sull'impiego delle quali avrebbe fatto i conti con lui a
cosa finita; e, per finire, gli vietava, poiché non era necessario, di
venire personalmente a Dresda per liberarlo, e anzi gli impartiva
l'ordine tassativo di restare nell'Altenburgo, a comandare
temporaneamente la banda, che non poteva rimanere senza un capo".
Questa lettera la consegnò al servo, quando egli, verso sera, fu di
ritorno, lo ricompensò con larghezza, e gli raccomandò di custodirla
con cura. La sua intenzione era di andare ad Amburgo con i suoi cinque
figli, e imbarcarsi da lì per il Levante, e le Indie Orientali, o
dovunque il sole splendesse su genti diverse da quelle che conosceva:
poiché all'idea di far ingrassare i morelli il suo animo, prostrato
dall'amarezza, anche indipendentemente dalla ripugnanza che sentiva a
far causa comune con il Nagelschmldt, aveva rinunciato.
Non appena il furfante ebbe consegnato questa risposta all'intendente
del Palazzo, il Gran Cancelliere fu destituito, il presidente della
Cancelleria, conte Kallheim, fu nominato, al suo posto, capo del
Tribunale, e Kohlhaas venne arrestato, su mandato del gabinetto del
Principe, e portato, gravato da pesanti catene, nella torre della
città. Il processo fu istruito sulla base dl quella lettera, che venne
affissa a tutti gli angoli della città; e, poiché egli, davanti al
Tribunale, alla domanda se ne riconoscesse la scrittura rispose "Sì!",
al consigliere che l'interrogava, ma alla domanda se avesse qualcosa
da dire a sua difesa rispose "No!", abbassando a terra lo sguardo, fu
condannato a essere straziato dagli aguzzini con tenaglie roventi e
squartato e il suo corpo a essere arso tra la ruota e la forca.
Così stavano le cose a Dresda per il povero Kohlhaas, quando si fece
avanti, per salvarlo dalle mani della prepotenza e dell'arbitrio, il
principe Elettore del Brandeburgo, e, in una nota fatta pervenire
laggiù, presso la Cancelleria di Stato dell'Elettore, ne pretese la
consegna, quale suddito brandeburghese. Infatti l'onesto prefetto,
messer Enrico di Geusau, gli aveva riferito durante una passeggiata
lungo le rive della Sprea, la storia di quell'uomo singolare, ma non
spregevole, e, in quella occasione, incalzato dalle domande del suo
stupito sovrano non poté fare a meno di menzionare la colpa che, a
causa delle scorrettezze del suo Cancelliere supremo, il conte
Sigfrido di Kallheim, gravava sulla sua stessa persona: al che il
principe Elettore, profondamente indignato, dopo aver chiamato il Gran
Cancelliere a rendere conto, e aver constatato che la causa di tutto
era la sua parentela con il casato dei Tronka, immediatamente, e con
molti segni del suo disappunto, lo destituì, nominando Gran
Cancelliere messer Enrico di Geusau.
Accadde che proprio allora la corona di Polonia, che era venuta a
contesa, non sappiamo a causa di quale oggetto con la Casa di
Sassonia, rivolgesse al principe Elettore del Brandeburgo ripetute e
insistenti considerazioni, per indurlo a fare causa comune con essa,
contro la Casa di Sassonia, e, di conseguenza, il Gran Cancelliere,
messer Enrico di Geusau, che sapeva destreggiarsi in simili affari,
era sicuro di poter venire incontro al desiderio del suo sovrano di
rendere giustizia a Kohlhaas, costasse quello che costasse, senza
mettere in gioco la pace universale in modo più rischioso di quanto
fosse consentito per proteggere un solo uomo. In quel frangente il
Gran Cancelliere non soltanto pretese, a causa del procedimento del
tutto arbitrario, spiacente a Dio e agli uomini, al quale era stato
sottoposto, l'incondizionata e immediata consegna di Kohlhaas, perché,
in caso che fosse gravato da colpe, fosse giudicato secondo le leggi
del Brandeburgo, in base ai capi d'accusa che la corte di Dresda
avrebbe potuto presentare a Berlino per mezzo di un avvocato; ma
richiese persino il lasciapassare per un avvocato che il principe
Elettore del Brandeburgo intendeva mandare a Dresda, per far valere i
diritti di Kohlhaas contro il barone Venceslao di Tronka, a causa dei
morelli che gli erano stati sottratti in territorio sassone, e degli
altri maltrattamenti e violenze da lui subiti, che gridavano al cielo.
Il ciambellano, messer Corrado, che nell'avvicendarsi delle cariche
pubbliche in Sassonia era stato nominato presidente della Cancelleria
di Stato, e per varie ragioni, nella spinosa situazione in cui si
trovava, non voleva offendere la corte di Berlino, rispose, a nome del
suo signore, profondamente abbattuto dalla nota brandeburghese
pervenuta, che "si era meravigliati della mancanza di cortesia e di
equità con le quali si negava alla corte di Dresda il diritto di
giudicare il Kohlhaas secondo le leggi, per i delitti che aveva
commesso nel paese, dal momento che era universalmente noto che il
Kohlhaas possedeva un vasto terreno nella capitale, e che nemmeno egli
stesso aveva negato la sua qualità di cittadino sassone". Ma poiché la
corona di Polonia, per sostenere le sue pretese con le armi, aveva già
riunito ai confini della Sassonia un esercito di cinquemila uomini, e
il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, dichiarò che
"Pontekohlhaas, la località dalla quale il mercante di cavalli aveva
preso nome, si trovava nel Brandeburgo, e l'esecuzione della sentenza
di morte pronunciata contro di lui sarebbe stata considerata una
violazione del diritto internazionale", il principe Elettore, dietro
consiglio del ciambellano, messer Corrado in persona, che desiderava
tirarsi fuori dalla faccenda, richiamò dai suoi possedimenti il
principe Cristiano di Meissen, e decise ascoltate poche parole di
quell'uomo ragionevole, di consegnare Kohlhaas, conformemente alla
richiesta, alla corte di Berlino.
Il principe, il quale, benché poco soddisfatto delle scorrettezze
compiute, aveva dovuto sobbarcarsi la direzione dell'affare Kohlhaas
per desiderio del suo angustiato sovrano, gli chiese su quali basi
volesse ora accusare il mercante di cavalli davanti al tribunale
camerale di Berlino, e poiché alla sua infausta lettera al
Nagelschmidt non ci si poteva appellare, a causa delle circostanze
ambigue e poco chiare nelle quali era stata scritta, mentre non si
poteva neppure nominare i saccheggi e gli incendi, per via del
manifesto con il quale gli erano stati perdonati, il principe Elettore
decise di presentare a Sua Maestà l'imperatore, a Vienna, un rapporto
sull'aggressione armata portata da Kohlhaas contro la Sassonia, in cui
si lagnava della rottura della pubblica pace da lui causata, e
supplicava Sua Maestà, non vincolata da alcuna amnistia, di chiederne
conto a Kohlhaas davanti al tribunale di corte di Berlino per mezzo di
un accusatore imperiale. Otto giorni dopo, il cavalier Federico di
Malzahn, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a
Dresda con sei armati a cavallo, caricava il mercante di cavalli,
incatenato com'era, su una carrozza, per tradurlo, con i suoi cinque
figli, che, dietro sua preghiera, erano stati mandati a prendere dagli
orfanotrofi in cui si trovavano, a Berlino.
Ora, accadde che il principe Elettore di Sassonia, su invito del
Governatore, conte Alvise di Kallheim, che aveva allora vasti
possedimenti lungo il confine della Sassonia, fosse partito per il
villaggio di Dahme, in compagnia del ciambellano, messer Corrado, e
della sua consorte, donna Eloisa, figlia del Governatore e sorella del
presidente, senza parlare dello splendido seguito di nobili, dame,
gentiluomini di caccia e dignitari di corte che li accompagnava, per
una grande battuta di caccia al cervo organizzata per svagarlo; e che,
mentre, al riparo di padiglioni imbandierati, eretti su una collina ai
due lati della strada, tutta la compagnia, ancora coperta dalla
polvere della caccia, sedeva a tavola al suono di una musica allegra,
che proveniva dal tronco di una quercia, servita da paggi e da
fanciulli nobili, il mercante di cavalli avanzasse lentamente, con la
sua scorta di uomini a cavallo, per la strada di Dresda. Infatti la
malattia di uno dei figli piccoli di Kohlhaas, di salute cagionevole,
aveva costretto il cavaliere di Malzahn, che lo accompagnava, a
fermarsi a Herzberg per tre giorni; misura della quale egli, tenuto a
risponderne soltanto al principe che serviva, non aveva ritenuto
necessario informare il governo di Dresda.
Il principe Elettore, che sedeva, con il giustacuore slacciato e il
cappello piumato ornato, alla moda dei cacciatori, di rametti d'abete,
vicino a donna Eloisa, che, nella prima giovinezza di lui, era stata
il suo primo amore, disse, lietamente disposto dal gaudio raffinato
della festa: "Andiamo fin là, e porgiamo a quell'infelice, chiunque
esso sia, questo calice di vino!". Donna Eloisa, lanciandogli uno
sguardo affettuoso, si alzò immediatamente, e, saccheggiando la tavola
imbandita, riempì un vassoio d'argento, che un paggio le aveva porto,
di frutta, dolci e pane; e già tutta la compagnia, con rinfreschi
d'ogni genere, era sciamata fuori dalla tenda, quando il Governatore
le si fece incontro, con il viso imbarazzato, e la pregò di fermarsi.
Alla meravigliata domanda del principe Elettore su che cosa fosse
successo, da turbarlo così tanto, il Governatore rispose balbettando,
rivolto al ciambellano, che nella carrozza c'era Kohlhaas; a quella
notizia, per tutti incomprensibile, essendo universalmente noto che
questi era partito già da sei giorni, il ciambellano, messer Corrado,
prese il suo calice di vino e, girandosi indietro, verso la tenda, lo
rovesciò per terra. Il principe Elettore, diventato tutto rosso, posò
il suo sopra un piatto che un paggio nobile, a un cenno del
ciambellano, gli aveva teso a questo scopo; e, mentre il cavaliere
Federico di Malzahn, salutando con deferenza la compagnia, che non
conosceva, passava lentamente fra le due linee di padiglioni che
correvano lungo la strada, e proseguiva per Dahme, i signori, su
invito del Governatore, si ritirarono, senza più curarsene, nella
tenda. Il Governatore, non appena il principe ebbe preso posto, inviò
segretamente a Dahme dei messaggeri, affinché le autorità locali
disponessero che il mercante di cavalli fosse fatto proseguire senza
indugio; ma poiché il cavaliere, essendo il giorno ormai troppo
inoltrato, dichiarò che intendeva assolutamente pernottare nel
villaggio, ci si dovette limitare a portarlo senza rumore in una
fattoria di proprietà del municipio, che sorgeva fuori mano, nascosta
in una fitta macchia.
Ora, accadde che, verso sera, quando i signori, distratti dal vino e
dai cibi di una cena sontuosa, avevano ormai del tutto dimenticato
l'incidente, il Governatore tirò fuori l'idea di rimettersi alla
posta, per via di un branco di cervi che era stato avvistato; tutta la
compagnia accolse con gioia la proposta, e, divisa in coppie, corse,
dopo essersi munita di archibugi, per fossati e per siepi nella
foresta vicina: tanto che il principe Elettore e donna Eloisa, che
l'aveva preso a braccetto, per assistere allo spettacolo, furono
portati, da un domestico che era stato messo al loro servizio, proprio
ad attraversare, con loro meraviglia, il cortile della casa in cui si
trovava Kohlhaas, con i cavalieri brandeburghesi.
La dama, quando lo seppe, disse: "Venite, Vostra Grazia, venite!"; e,
tenera e scherzosa, gli nascose nel gran colletto di seta la catena
che gli pendeva dal collo: "Prima che arrivi tutta la brigata,
entriamo di soppiatto nella fattoria, a vedere lo strano uomo che vi
pernotta!".
Il principe le prese la mano arrossendo, e disse: "Eloisa! Che vi
viene in mente?". Ma poiché lei, guardandolo confusa, aggiungeva che
nessuno, nell'abito da cacciatore che portava, avrebbe potuto
riconoscerlo, e lo trascinava con sé, e, proprio in quell'istante, un
paio di gentiluomini della caccia, che avevano già soddisfatto la
propria curiosità, uscivano dalla casa, assicurando che, grazie alle
misure prese dal Governatore, né il cavaliere del Brandeburgo né il
mercante di cavalli sapevano chi fossero i signori riuniti nella
regione di Dahme, il principe Elettore, calandosi con un sorriso il
cappello sugli occhi, disse: "Follia, tu governi il mondo, e il tuo
seggio è una bella bocca di donna!".
Accadde che Kohlhaas fosse per l'appunto seduto su un mucchio di
paglia, con la schiena contro la parete, e nutrisse con pane bianco e
latte il bambino che si era ammalato a Herzberg, quando i signori
entrarono nella fattoria per fargli visita; e quando la dama, per
attaccare discorso, gli chiese chi fosse, e che cosa avesse il
bambino, e anche che cosa avesse commesso, e dove fosse portato con
quella scorta, egli si tolse davanti a lei il berretto di cuoio e
diede a tutte le sue domande, continuando nella sua occupazione,
concise ma soddisfacenti risposte. Il principe Elettore, che stava in
piedi dietro i gentiluomini di caccia, notando una piccola capsula di
piombo appesa, con un filo di seta, al collo del mercante, gli chiese,
poiché non si offriva niente di meglio per fare conversazione, quale
ne fosse il significato e che cosa contenesse.
"Già, la capsula, messere illustrissimo", rispose Kohlhaas, che se la
tolse, sollevando il filo dietro la nuca, l'aprì, e ne tirò fuori un
bigliettino sigillato con una goccia di ceralacca. "La storia di
questa capsula è davvero strana! Saranno sette mesi fa, all'incirca,
proprio il giorno dopo la sepoltura di mia moglie; ero partito da
Pontekohlhaas, come forse vi sarà noto, per agguantare il barone di
Tronka, che mi aveva fatto un gran torto, quando, per certe trattative
che non conosco, il principe Elettore di Sassonia e il principe
Elettore di Brandeburgo si incontrarono a Juterbock, una borgata con
diritto di fiera, per la quale doveva passare la mia spedizione; e
poiché, verso sera, si erano accordati secondo i loro desideri, si
incamminarono, in amichevole colloquio, per le strade della cittadina,
per dare un'occhiata alla fiera annuale, che proprio allora vi si
svolgeva con allegra animazione. Incontrarono così una zingara, che,
seduta su uno sgabello, prediceva, dal suo lunario, l'oroscopo al
popolo che la circondava, e le chiesero, con fare scherzoso, se non
aveva da rivelare anche a loro qualcosa di piacevole. Io, che ero
sceso da poco, con il mio drappello, in una locanda, e ero presente
sulla piazza dove questi fatti si svolgevano, non potevo sentire,
dietro a tutto il popolo, sulla soglia di una chiesa, dove mi trovavo,
che cosa diceva ai signori quella strana donna; e tuttavia, siccome i
presenti si sussurravano ridendo l'un l'altro che non a tutti lei
elargiva la sua scienza e, per godersi lo spettacolo che si preparava,
spingevano e si accalcavano, io, non tanto, a dire il vero, per
curiosità, quanto per far posto ai curiosi, salii in piedi su un
sedile scolpito, dietro di me, nella parete, a fianco del portale
della chiesa. Da quel posto, dal quale la vista era interamente
libera, avevo appena visto i signori e la donna, che sedeva su uno
sgabello davanti a loro e sembrava scarabocchiare qualcosa, quando
lei, di colpo, si alza, appoggiandosi sulle stampelle, gira lo sguardo
intorno, fra il popolo, lo fissa su di me, che non avevo mai scambiato
una parola con lei, né mai, in tutta la mia vita, avevo desiderato
servirmi della sua scienza, si spinge, facendosi strada per la fitta
calca, fino a me, e dice: 'Ecco! Se il signore vorrà saperlo, venga
poi a chiederlo a te!' E con queste parole, messere illustrissimo, mi
porse, con le sue mani secche e ossute, questo biglietto. E poiché io,
stupito, mentre tutto il popolo si gira verso di me, le dico:
'Nonnina, che vuol dire questo onore?', lei risponde, dopo molte
parole incomprensibili, fra le quali tuttavia, con mio grande stupore,
sento il mio nome: 'Un amuleto, Kohlhaas, mercante di cavalli;
custodiscilo bene, un giorno ti salverà la vita!' e sparisce".
"Ebbene", continuò Kohlhaas con tono bonario, "a dire la verità, a
Dresda, per quanto le cose si fossero messe male, non ci ho rimesso la
vita, come mi andrà a Berlino, e se me la caverò anche laggiù, lo dirà
il futuro".
A queste parole il principe si sedette su una panca; e, per quanto,
all'ansiosa domanda della dama, che gli chiedeva che cosa avesse,
rispondesse: "Niente! Niente!", prima ancora che lei avesse avuto il
tempo di accorrere e di riceverlo tra le braccia, cadde al suolo privo
di sensi. Il cavaliere di Malzahn, che proprio in quel momento entrava
nella stanza per un'incombenza, esclamò: "Santo Iddio! Che cos'ha il
signore?". La dama gridò: "Portate dell'acqua!". I gentiluomini di
caccia lo sollevarono, e lo portarono su un letto che si trovava nella
stanza vicina; e la costernazione arrivò al culmine quando il
ciambellano, che un paggio era corso a chiamare, dopo ripetuti,
inutili sforzi per richiamarlo in vita, dichiarò che mostrava tutti i
segni di chi ha avuto un colpo!
Il Governatore, mentre il coppiere mandava a Luckau un messaggero a
cavallo, per far venire un medico, poiché il principe aveva aperto gli
occhi, lo fece portare su una carrozza, e condurre, a passo d'uomo, al
suo castello di caccia, che si trovava nelle vicinanze; ma quel
viaggio gli causò, dopo il suo arrivo, due nuovi svenimenti: tanto che
si riprese un po' solo nella tarda mattinata del giorno seguente,
all'arrivo del medico da Eiickau, seppure con gli evidenti sintomi che
si stava avvicinando una febbre nervosa.
Appena ebbe ripreso i sensi, il principe si alzò a sedere sul letto, e
la sua prima domanda fu subito dove fosse Kohlhaas. Il ciambellano,
fraintendendo la sua domanda, disse, prendendogli la mano, che a
proposito di quell'uomo orribile poteva tranquillizzarsi, poiché, dopo
quello strano e incomprensibile incidente, egli era rimasto, secondo
le sue disposizioni, nella fattoria presso Dahme, sotto la scorta dei
Brandeburghesi. E, fra le assicurazioni della sua vivissima
partecipazione, e le sue proteste di aver fatto a sua moglie i più
aspri rimproveri, per la sconsiderata leggerezza di averlo fatto
incontrare con quell'uomo, gli chiese che cosa di tanto strano ed
enorme lo avesse colpito, nella conversazione con lui.
Il principe Elettore disse che doveva confessargli che la vista di un
insignificante foglietto, che quell'uomo portava con sé, in una
capsula di piombo, era tutta la causa dello spiacevole incidente che
gli era capitato. Per spiegare la circostanza, aggiunse molte cose che
il ciambellano non capì, e a un tratto, stringendogli la mano tra le
sue, gli assicurò che per lui il possesso di quel biglietto era della
massima importanza, e lo pregò di salire immediatamente in sella, di
raggiungere Dahme e trattare con quell'uomo, qualunque ne fosse il
prezzo, l'acquisto del biglietto.
Il ciambellano, che faticava a nascondere il proprio imbarazzo, lo
assicurò che, se quel biglietto aveva per lui qualche valore, niente
al mondo era più necessario che tacere a Kohlhaas questa circostanza:
non appena egli, per una frase imprudente, ne fosse venuto a
conoscenza, neppure tutte le ricchezze che il principe possedeva
sarebbero bastate a riscattarlo dalle mani di quell'uomo truce,
insaziabile nella sua brama di vendetta. E, per calmarlo, aggiunse che
bisognava pensare a un altro mezzo, e che forse con l'astuzia, per
mezzo di una terza persona, che agisse con la massima disinvoltura,
sarebbe stato possibile, poiché, in sé e per sé, il ribaldo non
avrebbe dovuto tenerci molto, procurarsi il possesso del biglietto che
gli stava tanto a cuore.
Il principe, asciugandosi il sudore, chiese se non si poteva mandare
subito qualcuno a Dahme a questo scopo, e intanto sospendere
provvisoriamente la prosecuzione del viaggio del mercante, finché non
ci si fosse impadroniti, in qualunque modo, del foglio.
Il ciambellano, che non credeva alle sue orecchie, replicò che,
purtroppo, in base ai calcoli più verosimili, il mercante di cavalli
doveva ormai aver lasciato Dahme, e trovarsi oltre confine, in
territorio brandeburghese, dove l'impresa di impedire il suo
proseguimento, o addirittura di farlo tornare indietro avrebbe
incontrato difficoltà spiacevolissime di ogni genere, e forse
addirittura insormontabili. E, poiché il principe, in silenzio, aveva
riappoggiato la testa sul cuscino, con l'espressione di chi ha perso
ogni speranza, gli chiese che cosa contenesse il biglietto, e per
quale caso sorprendente e inspiegabile egli sapesse che il suo
contenuto lo riguardava.
Ma a queste parole il principe guardò ambiguamente il ciambellano,
della cui compiacenza, in quel caso, non si fidava e non rispose;
giaceva irrigidito, con il cuore che batteva con inquietudine,
fissando l'orlo inferiore del fazzoletto che teneva pensieroso, fra le
mani, e, improvvisamente, lo pregò di chiamare nella stanza il barone
di Stein, gentiluomo di caccia, un nobile giovane, abile e gagliardo,
del quale si era già più volte servito per affari segreti, con il
pretesto che doveva sbrigare con lui un'altra faccenda.
Quando ebbe ragguagliato il gentiluomo sulla faccenda, e gli ebbe
rivelata l'importanza del biglietto del quale Kohlhaas era in
possesso, il principe gli chiese se voleva acquistarsi eterno diritto
alla sua amicizia, procurandogli il biglietto prima che Kohlhaas
giungesse a Berlino; e poiché il barone, non appena si fu fatto
un'idea approssimativa della situazione, per strana che fosse, gli
assicurò di essere pronto a servirlo con tutte le sue forze, il
principe gli affidò l'incarico di raggiungere Kohlhaas a spron battuto
e, poiché egli, probabilmente, non si sarebbe lasciato convincere con
il denaro, di offrirgli in cambio in un abboccamento abilmente
condotto, la libertà e la vita, e persino, se egli l'avesse preteso,
di aiutarlo immediatamente, per quanto con cautela, con cavalli,
uomini e denaro, a evadere dalla custodia dei soldati brandeburghesi
che lo scortavano.
Il gentiluomo, fattosi rilasciare dal principe un foglio di suo pugno,
che attestasse la sua missione, partì immediatamente, con alcuni
servi, e, non risparmiando le forze dei cavalli, ebbe la fortuna di
raggiungere, in un villaggio di confine, Kohlhaas che, insieme al
cavaliere di Malzahn e ai suoi cinque figli, stava consumando
all'aperto, davanti alla porta di una casa, il pasto di mezzogiorno.
Il cavaliere di Malzahn, al quale il barone si era presentato come un
forestiero che, passando di lì nel suo viaggio, desiderava vedere coi
propri occhi lo strano uomo che egli portava con sé, pieno di premura
gli fece subito prendere posto a tavola, presentandogli Kohlhaas; e
poiché il cavaliere, occupato nei preparativi della partenza, andava e
veniva, e i soldati pranzavano a un tavolo che si trovava sull'altro
lato della casa, ben presto al barone si offrì l'opportunità di
rivelare al mercante di cavalli chi egli fosse, e con quale preciso
incarico fosse venuto a cercarlo.
Il mercante di cavalli, che era già a conoscenza del rango e del nome
di colui che, nella fattoria presso Dahme, era caduto in deliquio alla
vista della capsula, e che, per coronare l'ebbrezza che quella
scoperta gli aveva infuso, non avrebbe avuto bisogno d'altro, se non
di prendere visione dei segreti del biglietto, che egli, per molte
ragioni, era deciso a non aprire per mera curiosità; il mercante di
cavalli, dunque, ricordando il trattamento tutt'altro che magnanimo e
degno di un principe che a Dresda aveva dovuto subire, malgrado la sua
piena disponibilità ad accettare ogni possibile sacrificio, disse che
"intendeva tenersi il biglietto".
E, quando il gentiluomo gli chiese da che cosa fosse indotto a un così
strano rifiuto, quando gli si offriva, in cambio niente di meno che la
libertà e la vita, Kohlhaas rispose:
"Nobile signore! Se venisse qui il vostro sovrano, e dicesse: 'Io mi
voglio annientare, insieme a tutti coloro che mi aiutano a reggere lo
scettro', annientare, capite, che è appunto il più gran desiderio che
agiti l'anima mia, ebbene, anche allora questo foglietto, che per lui
vale più della vita, io glielo rifiuterei, e direi: 'Tu puoi mandarmi
al patibolo, ma io posso farti soffrire, e lo farò!'".
E, con la morte sul viso, chiamò un soldato, invitandolo a servirsi di
un buon boccone che era rimasto nella zuppiera; per tutto il resto del
tempo che passò nel villaggio fu, per il barone seduto alla sua mensa,
come se non ci fosse; soltanto quando salì in carrozza si girò di
nuovo, con uno sguardo di saluto e di congedo, verso di lui.
La salute del principe Elettore, quando ricevette quella notizia,
peggiorò tanto che, per tre fatali giornate, il medico nutrì i più
gravi timori per la sua vita, attaccata nello stesso tempo da tante
parti. Tuttavia, grazie alla forza della sua costituzione naturalmente
sana, dopo alcune settimane di letto e di dolorosa malattia egli si
ristabilì, almeno fino al punto che lo si poté mettere su una
carrozza, e, ben provvisto di cuscini e coperte, riportare a Dresda e
alle sue cure di governo. Non appena arrivò in quella città, egli
mandò a chiamare il principe Cristiano di Meissen, e gli chiese a che
punto fosse la missione del consigliere di giustizia Eibenmayer, che
si aveva intenzione di mandare a Vienna come avvocato per l'affare
Kohlhaas, affinché presentasse laggiù, davanti a Sua Maestà
l'imperatore, l'accusa per la rottura della pace dell'Impero.
Il principe Cristiano rispose che il consigliere, secondo gli ordini
che il sovrano stesso aveva lasciato, al momento della partenza per
Dahme, subito dopo l'arrivo del giurisperito Zauner, che il principe
Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda come avvocato, per
portare in giudizio la sua accusa contro il barone Venceslao di Tronka
a proposito dei morelli, era partito per Vienna.
Il principe Elettore avvampò e, avvicinandosi alla sua scrivania,
espresse stupore per tanta fretta, poiché, a quanto ricordava, egli
aveva dichiarato che si riservava di disporre con un ulteriore e più
preciso ordine la partenza definitiva dell'Eibenmayer, poiché prima
era necessario avere un colloquio con il dottor Lutero, che aveva
fatto ottenere a Kohlhaas l'amnistia. E, nel dire questo, scompigliò,
con un'espressione di malumore represso, alcuni atti e incartamenti
che si trovavano sulla scrivania.
Il principe Cristiano, dopo una pausa, durante la quale l'aveva
guardato con tanto d'occhi, rispose che gli dispiaceva di non averlo
soddisfatto in quella incombenza; ma poteva mostrargli la delibera del
Consiglio di Stato che gli faceva obbligo di far partire l'avvocato
per la data suddetta. Egli aggiunse che in Consiglio di Stato non si
era parlato affatto di un colloquio con il dottor Lutero; e che in
precedenza, forse, avrebbe potuto essere opportuno tenere in conto
l'opinione di quel religioso, per via del suo intervento a favore di
Kohlhaas, ma ora non più, dopo che a lui, sotto gli occhi di tutto il
mondo, era stata violata l'amnistia, ed egli era stato arrestato e
consegnato ai tribunali del Brandeburgo per essere condannato e messo
a morte.
Il principe Elettore disse che, in effetti, l'errore di aver fatto
partire l'Eibenmayer non era grave; desiderava, tuttavia, che per il
momento, fino a nuovo ordine, egli non desse esecuzione, a Vienna, al
suo mandato di accusatore, e pregò il principe di fargli avere
immediatamente, per mezzo di un corriere veloce, le necessarie
istruzioni a questo proposito.
Il principe rispose che, purtroppo, questo ordine arrivava con un
giorno di ritardo, poiché, secondo una relazione ricevuta quel giorno
stesso, l'Eibenmayer aveva già presentato le sue credenziali, e aveva
già sporto l'accusa presso la Cancelleria di Stato di Vienna. E
aggiunse, rispondendo al principe Elettore, che chiedeva, costernato,
come tutto ciò fosse stato possibile in un tempo così breve, che dalla
partenza di quell'uomo erano già trascorse tre settimane, e che le
istruzioni da lui ricevute gli facevano obbligo di dare inizio alla
pratica senza indugio, non appena arrivato a Vienna. Tirare in lungo,
osservò il principe, sarebbe stato in questo caso quanto mai
inopportuno, tanto più che Zauner, l'avvocato del Brandeburgo,
procedeva con la più ostinata energia contro il barone Venceslao di
Tronka: egli aveva già chiesto alla Corte di giustizia il ritiro
provvisorio dei morelli dalle mani dello scortichino, perché potessero
essere, in seguito, ristabiliti, e, a dispetto di tutte le obiezioni
sollevate dalla controparte, era riuscito a ottenerlo.
Il principe Elettore, suonando il campanello, disse: "Fa lo stesso;
poco importa!", e, dopo aver rivolto al principe alcune domande
indifferenti, "Come andavano, per il resto, le cose a Dresda? Che cosa
era avvenuto durante la sua assenza?", lo salutò, incapace di
nascondere il suo stato d'animo, con la mano, e lo congedò.
Il giorno stesso gli richiese, per iscritto, con il pretesto che, data
la sua importanza politica, voleva lavorare egli stesso alla cosa,
tutti gli atti riguardanti Kohlhaas; e, poiché il pensiero di causare
la morte dell'unico uomo dal quale avrebbe potuto ottenere ragguagli
sui segreti del foglietto era per lui intollerabile, scrisse di suo
pugno una lettera all'imperatore, nella quale lo pregava, con calore e
con insistenza, per gravi ragioni, che forse entro breve tempo gli
avrebbe spiegato in modo più preciso, di poter ritirare per il
momento, fino a nuova decisione, l'accusa che l'Eibenmayer aveva
presentato contro Kohlhaas.
L'imperatore, in una nota redatta dalla Cancelleria di Stato, gli
rispose che "il cambiamento che sembrava essersi prodotto nel suo
animo lo stupiva al massimo grado; la relazione a lui inviata da parte
sassone aveva fatto della vicenda di Kohlhaas una questione che
riguardava tutto il Sacro Romano Impero; e di conseguenza egli,
l'imperatore, come suo reggitore supremo, si era visto obbligato a
farsi avanti come accusatore presso la casa di Brandeburgo; tanto che,
dal momento che l'assessore di corte Francesco Muller si era già
recato a Berlino, in qualità di avvocato, per chiedere conto a
Kohlhaas della sua violazione della pubblica pace, l'accusa non poteva
più in nessun modo essere ritirata, e la vicenda doveva seguire il suo
corso, secondo le leggi".
Da questa lettera l'Elettore fu del tutto prostrato; e poiché, a suo
estremo sconforto, poco tempo dopo giunsero da Berlino rapporti
riservati, nei quali si comunicava l'apertura del procedimento davanti
alla Corte camerale, e si notava che, probabilmente, Kohlhaas, a
dispetto di tutti gli sforzi dell'avvocato che gli era stato messo a
disposizione, sarebbe finito sul patibolo, l'infelice sovrano decise
di compiere ancora un tentativo, e pregò il principe Elettore del
Brandeburgo, in una missiva redatta di suo pugno, di concedergli la
vita del mercante di cavalli. Egli adduceva il pretesto che l'amnistia
giurata a quell'uomo non consentiva contro di lui l'esecuzione
legittima di una sentenza di morte; gli dava assicurazione che,
malgrado l'apparente severità con la quale si era proceduto contro di
lui, mai era stata sua intenzione di farlo morire; e gli spiegava,
infine, che non avrebbe mai potuto perdonarsi, se la protezione che
avevano promesso di fargli ottenere da parte di Berlino si fosse in
conclusione risolta, per un cambiamento inaspettato, in uno svantaggio
maggiore, per lui, di quel che gli sarebbe toccato se fosse rimasto a
Dresda, e la causa fosse stata decisa secondo le leggi della Sassonia.
Il principe Elettore del Brandeburgo, al quale molti punti di questa
lettera erano sembrati ambigui e poco chiari, gli rispose che
"l'energia con cui procedeva l'avvocato di Sua Maestà imperiale non
consentiva in alcun modo di derogare, secondo il desiderio da lui
esposto, dalla rigida applicazione della legge. Egli osservava che le
preoccupazioni di cui veniva messo a parte andavano, in realtà, oltre
il segno, poiché l'accusa per i delitti perdonati a Kohlhaas con
l'amnistia era stata presentata alla Corte camerale di Berlino non già
da lui, che aveva concesso l'amnistia al mercante, bensì dal reggitore
supremo dell'Impero, che da essa non era legato in alcun modo. Inoltre
gli faceva presente quanto fosse necessario, mentre continuavano le
violenze del Nagelschmidt che, con inaudita impudenza, si spingevano
fin sulle terre del Brandeburgo, dare un esempio che agisse come
deterrente, e lo pregava, se non avesse voluto tenere conto di tutto
questo, di rivolgersi direttamente a Sua Maestà l'imperatore poiché,
se un atto d'imperio doveva intervenire a favore di Kohlhaas, non
sarebbe potuto giungere altrimenti che attraverso una dichiarazione da
quella parte".
L'Elettore, per il dolore e la rabbia di tutti questi tentativi andati
a vuoto, cadde nuovamente ammalato; e, una mattina che il ciambellano
era venuto a trovarlo, gli mostrò le lettere che, per prolungare la
vita di Kohlhaas e così per lo meno guadagnare tempo, per impadronirsi
del foglietto che possedeva, aveva inviato alle Corti di Vienna e di
Berlino. Il ciambellano si mise in ginocchio davanti a lui e lo
scongiurò, per tutto quello che aveva di sacro e di caro, di dirgli
che cosa era scritto nel foglietto. L'Elettore gli disse di chiudere a
chiave la stanza e di sedersi sul letto; e, dopo avergli preso la
mano, ed essersela premuta sul cuore con un sospiro, cominciò nel modo
che segue:
"Tua moglie, ho sentito dire, ti ha già raccontato che l'Elettore del
Brandeburgo e io, al terzo giorno del convegno da noi tenuto a
Juterbock, incontrammo una zingara; e poiché l'Elettore, vivace com'è
di natura, aveva deciso di distruggere con uno scherzo, in presenza di
tutto il popolo, la fama di quell'avventuriera, della cui arte poco
prima, a tavola, si era parlato in modo sconveniente, egli si avvicinò
al suo tavolino, a braccia conserte, e le chiese, a proposito della
predizione che gli avrebbe fatto, un segno che si potesse verificare
quel giorno stesso, avvertendola che, altrimenti, non avrebbe potuto
credere alle sue parole, fosse stata pure la Sibilla romana in
persona. La donna, misurandoci con un'occhiata da capo a piedi, disse
che il segno sarebbe stato che il capriolo dalle grandi corna che il
figlio del giardiniere allevava nel parco ci sarebbe venuto incontro
sulla piazza della fiera, sulla quale ci trovavamo, prima che la
lasciassimo. Ora, devi sapere che quel capriolo, destinato alla cucina
della corte di Dresda, era custodito, con tanto di lucchetto e di
catenaccio, in un recinto, ombreggiato dalle querce del parco, chiuso
da un'alta palizzata, tanto che, siccome, per di più, l'intero parco
e, al di là di esso, il giardino che vi portava, erano tenuti
accuratamente chiusi, per via della selvaggina più piccola e dei polli
che vi si trovavano, non si riusciva proprio a capire come l'animale
potesse, secondo la strana predizione, venirci incontro fin sulla
piazza dove stavamo; e tuttavia l'Elettore, preoccupato che, dietro di
questo, potesse nascondersi una mariuoleria, dopo aver brevemente
parlato con me e ben deciso, per via dello scherzo, a rovinare in modo
irrimediabile tutto ciò che quella donna potesse dire, inviò a palazzo
l'ordine di uccidere immediatamente il capriolo, e di prepararlo per
il banchetto uno dei giorni seguenti. Poi si girò di nuovo verso la
donna, di fronte alla quale tutto ciò era stato discusso ad alta voce,
e le disse: 'Su, avanti! Che cosa hai da rivelarmi per il futuro?'. La
donna, guardandogli la mano, disse: 'Salve, mio principe Elettore e
sovrano! La tua benevolenza governerà a lungo; la casa dalla quale
provieni durerà ancora a lungo; i tuoi discendenti saranno grandi e
splendidi, e il loro potere supererà quello di tutti gli altri
principi e signori del mondo!'. Il principe, dopo una pausa, durante
la quale osservò la donna pensieroso, disse a mezza voce, facendo un
passo verso di me, che adesso quasi gli dispiaceva aver mandato un
messo per ridurre a niente la profezia; e, mentre dalle mani dei
cavalieri che lo seguivano il denaro pioveva a mucchi, fra gran grida
di giubilo, in grembo alla donna, egli le chiese, infilandosi una mano
in tasca, e deponendo anch'egli una moneta d'oro, se l'augurio che
aveva da fare a me avesse un suono argentino come il suo. La donna,
dopo aver aperto una cassetta che aveva a fianco, avervi ordinato
lentamente e meticolosamente il denaro, diviso per specie e quantità,
e aver richiuso la cassetta, si protesse dal sole con la mano, come se
le desse noia, e mi guardò; e quando io le ripetei la domanda, e
dissi, con fare scherzoso, al principe Elettore, mentre mi esaminava
la mano: 'A me, a quanto sembra, non ha proprio niente di piacevole da
predire', lei diede di piglio alle grucce, si tirò, lentamente, su dal
suo sgabello e, con le mani protese in un gesto pieno di mistero, mi
si fece vicina fino a toccarmi e mi sussurrò distintamente
all'orecchio: 'No!'. 'Ah!', dissi io, turbato, e feci un passo
indietro da quella figura, che, con uno sguardo freddo e senza vita,
come se avesse avuto occhi di marmo, tornò a sedersi sullo sgabello
che stava dietro di lei: 'Da quale parte il pericolo minaccia la mia
casa?'. La donna, prendendo in mano un carboncino e un foglio, e
accavallando le ginocchia, chiese se doveva scrivermelo; e quando io,
realmente impacciato, rispondo, semplicemente perché, in una
situazione come quella, non mi restava altro da fare: 'Sì, fallo!',
lei aggiunse: 'Va bene! Tre cose ti scriverò: il nome dell'ultimo
regnante della tua casa, l'anno in cui perderà il regno, e il nome di
colui che se lo conquisterà con la forza delle armi'. Compiuto questo,
davanti agli occhi di tutto il popolo, si solleva, sigilla il
foglietto con ceralacca, inumidita nella sua bocca vizza, e vi imprime
un sigillo di piombo, che porta al dito medio come anello. E quando
io, curioso, come puoi facilmente immaginare, più di quanto le parole
possano dire, faccio per prendere il biglietto, lei dice: 'Niente
affatto, Altezza!', si gira, e leva in alto una delle sue stampelle:
'Da quell'uomo laggiù, quello con il cappello piumato, che sta in
piedi sul sedile, dietro tutto il popolo, sulla soglia della chiesa,
andrai a prendere il foglio, se lo vorrai!'. E con ciò, prima ancora
che io abbia ben capito che cosa sta dicendo, mi pianta in asso sulla
piazza, senza parole per lo stupore; e, chiusa con un colpo la
cassetta che stava alle sue spalle, se la getta sulla schiena e si
confonde, senza che io possa più scorgere quello che sta facendo, nel
mucchio della folla che ci circonda. Proprio in quel momento, con mia
grandissima consolazione, devo dire, si fece avanti il cavaliere che
l'Elettore aveva inviato a palazzo, e gli comunicò, con la bocca
atteggiata a un sorriso, che il capriolo era stato ucciso, e che due
cacciatori, sotto i suoi occhi, lo avevano trasportato in cucina.
L'Elettore, prendendomi allegramente sotto braccio, con l'intenzione
di portarmi via dalla piazza, disse: 'Insomma, la profezia non era
altro che una delle solite fanfaronate, che non valeva il tempo e il
denaro che c'è costata!' Ma quale fu il nostro stupore quando, mentre
ancora pronunciava queste parole, si alzò un vociare tutto intorno per
la piazza, e tutti gli occhi si rivolsero a un grosso cane da
macellaio, che si avvicinava dal cortile del palazzo, dove aveva
afferrato in cucina il capriolo, come una buona preda, e, inseguito
dai servi e dalle fantesche, lasciò cadere al suolo la bestia a tre
passi da noi: così che davvero la profezia della donna, a garanzia di
tutto quello che aveva annunciato, si era compiuta, e il capriolo, sia
pure già morto, ci era venuto incontro sulla piazza della fiera. Il
fulmine che in un giorno d'inverno cade dal cielo non può colpire in
modo più devastante di quanto mi colpì quella vista, e la mia prima
preoccupazione, non appena mi fui liberato della compagnia in cui mi
trovavo, fu di rintracciare subito l'uomo con il cappello piumato che
la donna mi aveva indicato; ma nessuno dei miei uomini, mandati
ininterrottamente per tre giorni a cercare informazioni, fu in grado
di darmene notizia, neppure nel modo più vago: e ora Corrado, amico
mio, poche settimane fa, nella fattoria vicino a Dahme, ho visto
quell'uomo con i miei occhi".
Con queste parole, lasciò andare la mano del ciambellano e
asciugandosi il sudore, ricadde sul suo giaciglio. Il ciambellano,
ritenendo fatica sprecata contrapporre la sua opinione di quell'evento
a quella che ne aveva il principe Elettore, per modificarla, lo pregò
di tentare un mezzo qualunque per venire in possesso del foglio, e poi
di abbandonare quell'uomo al suo destino; ma il principe rispose di
non vederne il mezzo in nessun modo, anche se il pensiero di doverci
rinunciare, o addirittura di veder svanire con quell'uomo ogni
possibilità di conoscere il segreto, lo portava sull'orlo dello
strazio e della disperazione. Alla domanda dell'amico se avesse fatto
il tentativo di rintracciare la zingara in persona, il principe
rispose che la polizia, in forza di un ordine che egli aveva emanato,
con un falso pretesto, fino a ieri l'aveva ricercata invano in tutti
gli angoli del principato: tanto che, per ragioni che, tuttavia,
rifiutò di esporre nei particolari, egli dubitava persino che fosse
rintracciabile in Sassonia.
Ora, accadeva che il ciambellano, per via di numerosi ed estesi
possedimenti che sua moglie aveva ereditato, nella Marca Nuova, dal
conte Kallheim, il Gran Cancelliere deposto, e poco tempo dopo morto,
volesse appunto andare a Berlino; tanto che, poiché voleva davvero
bene al principe Elettore, dopo una breve riflessione gli chiese se
voleva lasciargli mano libera in quella faccenda; e poiché il
principe, premendosi con calore la sua mano sul petto, gli rispondeva:
"Fa' conto di essere me stesso, e procurami il foglio!", il
ciambellano, sbrigati i suoi affari, affrettò di qualche giorno la sua
partenza e si recò, lasciando a casa la moglie, accompagnato soltanto
da alcuni servi, a Berlino.
Kohlhaas, che nel frattempo, come si è detto, era giunto a Berlino e,
per un ordine particolare del principe Elettore, era stato portato in
un carcere destinato ai nobili, che lo ricevette, insieme ai suoi
cinque figli, con la massima comodità possibile, subito dopo la
comparsa del procuratore imperiale da Vienna era stato chiamato a
rendere conto, davanti al tribunale camerale, per il turbamento della
pace pubblica, tutelata dall'imperatore, da lui causato nel paese; e,
benché lui, nella sua difesa, obbiettasse che non lo si poteva
processare per la sua incursione armata in Sassonia, né per le
violenze allora commesse, in forza del compromesso da lui stipulato a
Lutzen con il principe Elettore di Sassonia, si sentì rispondere, per
suo insegnamento, che Sua Maestà l'imperatore, il cui procuratore
sosteneva l'accusa nel processo, non poteva tenerne conto: e ben
presto, poiché la cosa gli fu spiegata in dettaglio, e gli fu
dichiarato che, in compenso, avrebbe ottenuto piena soddisfazione, da
parte di Dresda, nella sua causa contro il barone Venceslao di Tronka,
si mise l'anima in pace. Di conseguenza, accadde che proprio il giorno
dell'arrivo del ciambellano fu pronunciata la sentenza, ed egli fu
condannato a perire di spada: un verdetto alla cui esecuzione però, in
una situazione così intricata, indipendentemente dalla sua mitezza,
nessuno credeva, e che anzi l'intera città, data la benevolenza che il
principe Elettore nutriva per Kohlhaas, sperava di veder cambiata
sicuramente, per un suo atto d'imperio, in una semplice pena
detentiva, magari lunga e penosa.
Il ciambellano, che tuttavia capiva che non c'era tempo da perdere, se
l'incarico che il suo sovrano gli aveva affidato doveva andare a buon
fine, cominciò a mettere in atto il suo piano facendosi vedere da
Kohlhaas, un mattino in cui questi stava in piedi, alla finestra della
prigione, e osservava distrattamente i passanti, nel suo solito
vestito di corte, a lungo e con intenzione; e quando, da un movimento
improvviso del capo concluse che il mercante di cavalli l'aveva
notato, e, soprattutto, quando vide, con grande soddisfazione, che
egli aveva portato involontariamente la mano al petto, dove teneva la
capsula, pensò che quello che in quel momento era avvenuto nel suo
animo fosse una preparazione sufficiente per consentirgli di compiere
il passo successivo, nel tentativo di impadronirsi del foglietto.
Mandò a chiamare una vecchia rigattiera, che andava in giro con le
stampelle, e che egli aveva notato, per le strade di Berlino, in mezzo
a un crocchio di altri straccivendoli; poiché, per l'età e per
l'abito, gli sembrava corrispondere abbastanza bene a quella che il
principe gli aveva descritto, supponendo che Kohlhaas non avesse
potuto imprimersi profondamente nella memoria i tratti di quella che,
in una fugace apparizione, gli aveva consegnato il foglietto, decise
di sostituirla con la donna da lui scelta, e di farle recitare presso
Kohlhaas, se ci riusciva, la parte della zingara. Quindi, per metterla
in condizione di farlo, la istruì dettagliatamente su tutto ciò che
era successo a Juterbock fra il principe e la suddetta zingara, e, non
sapendo fin dove si fosse spinta la zingara nelle sue rivelazioni a
Kohlhaas, non dimenticò di insistere particolarmente sui tre
misteriosi punti scritti sul foglio; e, dopo averle spiegato quello
che avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire, con allusioni monche e
scarsamente comprensibili, riguardo a certe misure che erano state
prese per impadronirsi, con l'astuzia o con la forza, del biglietto,
che era di estrema importanza per la corte di Sassonia, le affidò
l'incarico di farsi consegnare da Kohlhaas il foglio con il pretesto
che presso di lui non era più sicuro, per custodirlo durante alcuni
giorni densi di pericoli. La rigattiera accettò subito, dietro
promessa di una lauta ricompensa, della quale il ciambellano, su sua
richiesta, dovette pagare in anticipo una parte, di eseguire
l'incarico; e, poiché la madre del servo Ersiano, caduto presso
Muhlberg, andava di tanto in tanto a trovare Kohlhaas, con il permesso
del Governo, e già da qualche mese conosceva quella donna, la zingara
riuscì, uno dei giorni seguenti, con un piccolo obolo al capo
carceriere, a ottenere di vedere il mercante di cavalli.
Ma Kohlhaas, quando la donna entrò, credette, dall'anello con il
sigillo che portava al dito, e dalla collana di corallo che aveva sul
petto, di riconoscere in lei proprio la vecchia zingara che gli era
già nota, e che a Juterbock gli aveva consegnato il foglio; e poiché
non sempre la verosimiglianza sta dalla parte della verità, caso volle
che fosse appunto avvenuto un fatto che noi riferiamo, pur essendo
costretti a lasciare, a chiunque preferisca, il diritto di dubitarne:
il ciambellano aveva compiuto il più clamoroso dei passi falsi e, con
la vecchia rigattiera che si era procurato per le strade di Berlino,
perché facesse finta di essere la zingara, si era imbattuto proprio
nella misteriosa zingara che voleva far imitare da lei. Per lo meno la
donna, mentre, appoggiandosi sulle stampelle, accarezzava le guance
dei bambini, i quali, colpiti dal suo strano aspetto, si stringevano
al padre, riferì che già da diverso tempo era ritornata dalla Sassonia
nel Brandeburgo, e che, a una domanda imprudentemente arrischiata dal
ciambellano, per le strade di Berlino, a proposito della zingara che,
nella primavera dell'anno precedente, era stata a Juterbock, gli si
era subito avvicinata e, sotto falso nome, si era offerta di assolvere
all'incarico che egli intendeva affidare.
Il mercante di cavalli, che notò una strana somiglianza fra lei e la
sua defunta moglie Lisabetta, tanto che avrebbe potuto chiederle se
non fosse la nonna di lei, poiché non soltanto i tratti del suo viso,
e le mani, che, per quanto ossute, erano ancora belle, e soprattutto
il suo modo di muoverle mentre parlava, gliela ricordavano nel modo
più vivo, ma egli notò perfino sul collo di lei un neo simile a quello
di sua moglie, il mercante di cavalli, dunque, la pregò, mentre in lui
si intrecciavano strani pensieri, di mettersi a sedere, e le chiese
che cosa mai la portasse da lui, per affari del ciambellano. La donna,
mentre il vecchio cane di Kohlhaas le annusava le ginocchia, e
scodinzolava alle carezze della sua mano, rispose che l'incarico che
il ciambellano le aveva affidato era quello di svelargli quale fosse
la misteriosa risposta contenuta nel foglietto alle tre domande
importanti per la corte di Sassonia; doveva mettere in guardia lui,
Kohlhaas, da un inviato, che si trovava a Berlino per impossessarsene,
e pertanto chiedergli la consegna del foglio, con il pretesto che al
suo collo, dov'egli lo portava, non era più sicuro. Ma l'intenzione
con la quale era venuta era invece di fargli sapere che la minaccia di
privarlo del biglietto con l'astuzia o con la forza era una
sciocchezza, un vuoto spauracchio; che, sotto la protezione del
principe Elettore di Brandeburgo, alla custodia del quale era
affidato, non aveva proprio niente da temere per il biglietto; che,
anzi, il foglio era molto più sicuro presso di lui che presso di lei,
e che si guardasse bene dal farsene privare, consegnandolo a chiunque,
sotto qualsiasi pretesto. E concluse, comunque, che le sembrava saggio
fare del biglietto l'uso per il quale glielo aveva dato alla fiera
annuale di Juterbock: porgere orecchio alla proposta che gli era stata
fatta presso il confine da parte del barone di Stein, e consegnare il
foglio, che a lui ormai non serviva più, al principe Elettore di
Sassonia, in cambio della libertà e della vita.
Kohlhaas, che esultava per il potere che gli era dato di ferire a
morte il tallone del suo nemico, nel momento in cui ne veniva
calpestato, rispose: "Per niente al mondo, nonnina; per niente al
mondo!". E, premendo la mano alla vecchia, volle solo sapere che
specie di risposte a quelle arcane domande fossero contenute nel
foglietto.
La donna, prendendosi in grembo il più piccolo, che si era accoccolato
ai suoi piedi, disse: "Non per il mondo, Kohlhaas: ma per questo
piccolo, dolce bambino biondo!", e, nel dir questo, gli sorrise, lo
strinse a sé e lo baciò, mentre il bambino la guardava con i suoi
grandi occhi, e gli porse, con le sue mani ossute, una mela che
portava nella bisaccia.
Kohlhaas disse, confuso, che i bambini stessi, se fossero stati
grandi, lo avrebbero lodato per il suo comportamento, e che per loro,
e per i loro nipoti, non avrebbe potuto fare niente di più benefico
che conservare il biglietto. Inoltre, chiese, chi, dopo l'esperienza
che aveva fatto, lo avrebbe garantito da un nuovo inganno? Non
avrebbe, alla fine, sacrificato invano al principe Elettore il foglio,
come aveva fatto in passato con la banda da lui raccolta a Lutzen?
"Con chi mi ha mancato di parola una volta", disse, "io non impegno
più la mia parola; solo una tua richiesta, precisa e inequivocabile,
mi separerà, nonnina, dal foglio attraverso il quale mi viene data, in
modo così straordinario, soddisfazione per tutto quello che ho
sofferto".
La donna, deponendo a terra il bambino, disse che, da più di un punto
di vista, aveva ragione, e che poteva fare e non fare ciò che voleva.
E con queste parole riprese le sue stampelle e fece per andarsene.
Kohlhaas ripeté la sua domanda, a proposito dello straordinario
biglietto; e avrebbe voluto, dopo che lei ebbe brevemente risposto
che, sì, poteva aprirlo, fosse pure soltanto per mera curiosità, che
lei gli spiegasse ancora mille altre cose, prima di lasciarlo, chi
fosse in realtà, di dove venisse la scienza che era in lei, e perché
non avesse voluto dare al principe Elettore il biglietto, per il quale
pure l'aveva scritto, e perché proprio a lui, che non aveva mai avuto
desiderio della sua scienza, avesse consegnato, fra tante migliaia di
uomini, il prodigioso foglietto. Ma accadde che, proprio in quel
momento, si sentisse un rumore, prodotto da alcune guardie che stavano
salendo le scale; tanto che la donna, presa dall'improvviso timore di
essere vista da loro in quelle stanze, rispose: "Arrivederci,
Kohlhaas! Se ci incontreremo di nuovo, la risposta a tutto questo non
ti mancherà!". E, girandosi verso la porta, gridò: "Addio, bambini,
addio!", baciò i piccoli, uno dopo l'altro, e se ne andò.
Nel frattempo il principe Elettore di Sassonia, in preda ai suoi
tormentosi pensieri, aveva fatto venire due astrologi, di nome
Oldenholm e Olearius, che a quel tempo erano molto conosciuti in
Sassonia, e li aveva consultati riguardo al contenuto del foglio
misterioso, tanto importante per lui e per tutta la stirpe dei suoi
discendenti; e poiché i due uomini, dopo un'approfondita indagine, che
continuò per molti giorni, nella torre del palazzo di Dresda, non
riuscirono ad accordarsi se la profezia si riferisse ai secoli futuri
o al tempo presente, e se non volesse forse alludere alla corona di
Polonia, con la quale i rapporti erano ancora molto ostili, la dotta
disputa, invece di dissipare l'inquietudine, per non dire la
disperazione, in cui si trovava l'infelice sovrano, non fece che
acccentuarla, accrescendola alla fine a tal punto, che diventò per il
suo animo assolutamente insopportabile. A questo si aggiunse che, più
o meno in quei giorni, il ciambellano incaricò sua moglie, che era sul
punto di seguirlo a Berlino, di far conoscere, con parole adatte,
all'Elettore, prima di partire, quanto fossero scarse, dopo il
tentativo fallito da lui compiuto per mezzo di una donna che non s'era
più fatta vedere, le speranze di venire in possesso del foglio
conservato da Kohlhaas, poiché la sentenza di morte pronunciata contro
di lui era stata, dopo un esame accurato degli atti, ormai firmata
dall'Elettore di Brandeburgo, e il giorno dell'esecuzione era già
fissato, per il lunedì successivo alla domenica delle Palme; notizia
alla quale il principe, con il cuore lacerato dal dolore e dal
rimorso, si chiuse, come un uomo senza più speranza, nella sua camera,
per due giorni, sazio della vita, non toccò cibo, e il terzo,
improvvisamente, dopo aver brevemente annunciato al governo che
sarebbe recato a caccia presso il principe di Dessau, sparì da Dresda.
Dove realmente andasse, e se si fosse diretto a Dessau, è questione
che lasciamo aperta, poiché le cronache dal cui confronto noi
ricaviamo questa relazione si contraddicono in modo strano, e si
annullano a vicenda, su questo punto. Certo è che, a quel tempo, il
principe di Dessau non era in condizione di andare a caccia, poiché
giaceva malato a Braunschweig, ospite di suo zio, il conte Enrico; e
che, la sera del giorno seguente donna Eloisa arrivava a Berlino
presso il ciambellano, messer Corrado, suo consorte, in compagnia di
un certo conte di Königstein, presentato da lei come suo cugino.
Nel frattempo, per ordine dell'Elettore, venne letta a Kohlhaas la
sentenza di morte, gli furono tolte le catene e gli furono
riconsegnati i documenti relativi al suo patrimonio, che a Dresda gli
erano stati tolti; e, poiché i consiglieri messi a sua disposizione
dal tribunale gli chiesero in che modo volesse provvedere, dopo la
morte, ai beni che possedeva, egli redasse, con l'aiuto di un notaio,
un testamento a favore dei figli, ed elesse, come tutore di questi,
l'onesto balivo di Pontekohlhaas, suo amico. Dopo di ciò, la
tranquillità e la contentezza dei suoi ultimi giorni furono senza
pari; poiché, per una particolare e straordinaria concessione del
principe Elettore, pochi giorni dopo anche le porte del carcere in cui
si trovava furono aperte, e fu concesso libero accesso a lui, giorno e
notte, a tutti gli amici, che erano molti, che aveva in città. Ed egli
ebbe perfino la soddisfazione di veder entrare nella sua prigione il
teologo Giacomo Freising, inviato dal dottor Lutero, con una lettera
di questi, scritta di suo pugno e senza dubbio assai notevole, la
quale, però, è andata perduta, e di ricevere da questo sacerdote, alla
presenza di due decani brandeburghesi, che coadiuvarono al rito, il
beneficio della santa comunione.
E così, tra la generale agitazione della città, che ancora non
riusciva a mettere da parte la speranza in un atto d'imperio che lo
salvasse, arrivò il fatale lunedì delle Palme in cui avrebbe dovuto
pagare al mondo il prezzo della riconciliazione, per il troppo
precipitoso tentativo di reintegrare da sé il proprio diritto. Stava
appunto uscendo, accompagnato da una poderosa scorta, con due dei suoi
bambini in braccio (concessione che egli aveva espressamente richiesto
al cospetto del tribunale), dalla porta della sua prigione, preceduto
dal teologo Giacomo Freising, quando, nel fitto accalcarsi dei
conoscenti che gli stringevano la mano, e prendevano, tristemente,
commiato, si fece strada fino a lui, con il viso turbato, il castaldo
del palazzo dell'Elettore, e gli diede un foglio che, così disse, gli
era stato consegnato per lui da una vecchia. Kohlhaas, guardando con
Stupore quell'uomo, che conosceva appena, aprì il foglio, il cui
sigillo, impresso nella ceralacca, gli ricordò immediatamente la
zingara a lui ben nota. Ma chi potrebbe descrivere il suo
sbalordimento, quando vi lesse il seguente messaggio: "Kohlhaas, il
principe Elettore di Sassonia è a Berlino; egli ti ha preceduto sulla
piazza dell'esecuzione, e, se ti interessa, potrai riconoscerlo dal
suo cappello, ornato da piume bianche e azzurre. L'intenzione che l'ha
guidato non serve che te la dica: vuole, non appena tu sarai sepolto,
far dissotterrare la capsula, e aprire il foglio che vi si trova. La
tua Lisabetta".
Kohlhaas, girandosi, totalmente sconvolto, verso il castaldo gli
chiese se sapeva chi fosse la misteriosa donna che gli aveva
consegnato il foglio. Ma quando il castaldo rispose: "Kohlhaas, la
donna...", e a metà del discorso, in modo strano si interruppe, egli,
trascinato dal corteo, che proprio in quel momento si era rimesso in
moto, non poté udire le parole che l'uomo, che sembrava tremare in
tutto il corpo, pronunciava.
Quando arrivò sulla piazza dell'esecuzione, vi trovò in attesa, fra
una sterminata moltitudine, il principe Elettore del Brandeburgo, a
cavallo, con il suo seguito, fra il quale era presente anche il Gran
Cancelliere, messer Enrico di Geusau: alla destra del principe
l'avvocato imperiale, Francesco Muller, con una copia della sentenza
di morte in mano, a sinistra del principe l'avvocato di questi, il
giurisperito Antonio Zauner, con le conclusioni del tribunale di corte
di Dresda; e, al centro del semicerchio, chiuso in fondo dal popolo,
un araldo con un fagotto in mano, e i due morelli, lustri e ben
pasciuti, che battevano il terreno con gli zoccoli. Infatti il Gran
Cancelliere, messer Enrico, aveva vinto la causa intentata a Dresda,
in nome del suo sovrano, contro il barone Venceslao di Tronka, punto
per punto e senza la minima limitazione; e di conseguenza i cavalli,
resi al loro onore dallo sventolio di una bandiera sopra le loro
teste, e poi ritirati dalle mani dello scortichino che li nutriva,
erano stati ingrassati dalla gente del barone, e, alla presenza dl una
commissione insediata a questo scopo, erano stati consegnati
all'avvocato, sulla piazza del mercato di Dresda.
Il principe Elettore, quando Kohlhaas, accompagnato dalla sua scorta,
avanzò sul rialto davanti a lui, parlò così:
"Ecco, Kohlhaas: oggi è il giorno in cui ti è resa giustizia! Guarda!
Io ti riconsegno ora tutto quello che ti fu con la violenza sottratto
al castello di Tronka, e che io, come tuo sovrano, ero tenuto a farti
restituire: i morelli, il fazzoletto, i fiorini, la biancheria, e
anche le spese per le cure al tuo servo Ersiano, caduto presso
Muhlberg. Sei contento di me?".
Kohlhaas, posati a terra accanto a sé i due bambini che aveva in
braccio, lesse velocemente, con gli occhi spalancati e raggianti, le
conclusioni del processo, che, a un cenno del Gran Cancelliere, gli
erano state consegnate; e poiché vi trovò anche una clausola con la
quale il barone Venceslao era condannato a due anni di prigione, si
lasciò cadere, da lontano, sopraffatto dai suoi sentimenti, in
ginocchio davanti all'Elettore, con le mani incrociate sul petto. Egli
assicurò con voce lieta al Gran Cancelliere, alzandosi e portandosi la
mano al petto, che il più grande desiderio che aveva in terra era
adempiuto; si avvicinò ai cavalli, li esaminò, ne palpò il collo sodo;
e dichiarò allegramente al Cancelliere, ritornando verso di lui, che
"li regalava ai suoi due figli, Enrico e Leopoldo".
Il Cancelliere, messer Enrico di Geusau, rivolgendosi a lui
benevolmente da cavallo, gli promise, in nome del principe Elettore,
che la sua ultima volontà sarebbe stata religiosamente rispettata, e
lo invitò a disporre come meglio riteneva anche delle altre cose
contenute nel fagotto. Allora Kohlhaas invitò la vecchia madre di
Ersiano, che aveva visto sulla piazza, a uscire dalla folla che aveva
intorno, e consegnandole il fagotto le disse: "Ecco, nonna, tutto ciò
ti appartiene"; aggiungendo al denaro che si trovava nel fagotto anche
la somma che aveva ricevuto come proprio indennizzo, che volle darle
in dono, come sostegno e conforto per i suoi ultimi giorni.
"Adesso, Kohlhaas, mercante di cavalli", esclamò il principe Elettore,
"al quale è stata data in questo modo soddisfazione, preparati a dare
a tua volta soddisfazione a Sua Maestà l'imperatore, l'avvocato del
quale è al mio fianco, per la rottura della pubblica pace!".
Kohlhaas, togliendosi il cappello e gettandolo al suolo, disse che era
pronto! Affidò i suoi bambini, dopo averli presi su da terra ancora
una volta, e stretti al petto, al balivo di Pontekohlhaas, e, mentre
questi, con lacrime silenziose, li portava via dalla piazza, si
avvicinò al ceppo. Stava per l'appunto sciogliendosi il fazzoletto dal
collo, e aprendosi il giustacuore, quando, guardando di sfuggita il
cerchio formato dal popolo, scorse, a breve distanza da sé, fra due
cavalieri che lo coprivano a metà coi loro corpi, l'uomo ben noto
dalle piume bianche e azzurre. Con uno scarto improvviso, che sorprese
la scorta che lo circondava, Kohlhaas gli andò proprio davanti, si
sciolse dal petto la capsula, ne tirò fuori il foglio, ruppe il
sigillo e lo lesse: e con gli occhi fissi sull'uomo dalle piume
bianche e azzurre, che già cominciava a nutrire dolci speranze, lo
mise in bocca e lo inghiottì. L'uomo dalle piume bianche e azzurre, a
quella vista, preso da convulsioni, cadde svenuto. Kohlhaas, mentre
gli accompagnatori di quell'uomo si chinavano, affranti, su di lui e
lo tiravano su da terra, si girò verso il patibolo, dove la sua testa
cadde sotto la scure del boia.
Qui finisce la storia di Kohlhaas. Si depose la salma nella bara, fra
il compianto unanime del popolo; e, mentre i necrofori la sollevavano,
per darle degna sepoltura nel camposanto fuori città, il principe
Elettore chiamò a sé i figli del defunto e dichiarando al Gran
Cancelliere che dovevano essere educati nella scuola dei paggi di
corte, li armò cavalieri. Il principe Elettore di Sassonia ritornò
poco dopo, straziato nel corpo e nell'anima, a Dresda, e quello che
accadde dopo va letto nella storia. Ma di Kohlhaas nel secolo scorso
vivevano ancora nel Meclemburgo alcuni felici e gagliardi discendenti.